Crepe di speranze nel Muro
Ottobre 2003


Ho incontrato Jonathan e Liad, attivisti anarchici di Tel Aviv, nell'ottobre dello scorso anno a Ramallah. In una lunga conversazione mi hanno descritto con precisione e profondità tanto il significato e i presupposti del loro impegno contro l'occupazione dei Territori Palestinesi quanto la pesante atmosfera di nazionalismo e militarismo che pervade la società israeliana. 

L'urgenza e la gravità della situazione venutasi a creare nei mesi successivi nelle zone interessate dalla costruzione del Muro in Cisgiordania, ha necessariamente assorbito l'attenzione di tutto il movimento pacifista radicale israeliano e internazionale. Anche il gruppo a cui appartengono Jonathan e Liad, Anarchists against the Wall, ha partecipato negli ultimi mesi a numerose azioni contro il Muro. Il loro tentativo di dedicarsi ad "azioni dirette congiunte", ben chiarito e definito nell'intervista rilasciata, è diventato sempre più concreto e diffuso. 

La cosiddetta "barriera di separazione" o per meglio dire Muro dell'Apartheid, di cui sono già stati costruiti 150 dei primi 650 Km previsti, non si limita a separare, per presunti motivi di sicurezza, la popolazione israeliana da quella palestinese, ma penetrando nei Territori Occupati ed accerchiando molti centri abitati, espropria terre, distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione dalle proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni ancora più difficoltosi di quando già non faccia l'attuale sistema di suddivisione in aree e annette, di fatto, una larga percentuale di territorio palestinese, soprattutto intorno alle zone degli insediamenti israeliani e a quelle strategicamente ed economicamente più interessanti. Il muro trasforma tutta la Cisgiordania in una prigione a cielo aperto, con al suo interno alcune "celle di isolamento", nuclei abitati totalmente chiusi rispetto all'esterno, come la tristemente nota Qualqilya, cui progressivamente si andranno aggiungendo, almeno nei progetti del governo Israeliano, molti altri villaggi.

Proteste, manifestazioni e campi politici contro il Muro, gestiti ed organizzati da segmenti della società civile palestinese, hanno rappresentato negli ultimi mesi un ritorno dell'Intifada come movimento dal basso, sostanzialmente disarmato e non militarizzato. Le zone di Gerusalemme, Ramallah e Betlemme, dove attualmente si compiono i lavori di costruzione sono state protagoniste di brevi ma diffusi momenti di insurrezione popolare, spesso con la presenza e il sostegno di attiviste e attivisti internazionali e israeliani, tra cui anche Anarchists against the Wall.

La violenza della repressione, che ha comportato oltre alla drammaticamente consueta uccisione di manifestanti palestinesi, anche il ferimento grave di due compagni israeliani (Gil Naamati nel dicembre 2003 e Itay Levinsky nel marzo 2004) è stata occasione di visibilità per il gruppo anarchico. Se in Italia solo l'informazione indipendente e di movimento ha dato spazio alle notizie delle azioni e della repressione conseguente, in Israele stampa, radio e televisione si sono trovate costrette ad affrontare il tema, quantomeno imbarazzante, di giovanissimi cittadini israeliani, ebrei e disarmati, colpiti in maniera quasi mortale da un esercito cui tradizionalmente si attribuisce una funzione difensiva e protettiva. L'appartenenza politica dei due feriti ha poi persino suscitato, quantomeno in un giornale "progressista" come Haaretz, riflessioni non prive di spunti di critica allo Stato di Israele.

Il diffondersi di azioni congiunte tra attivisti israeliani e palestinesi nelle zone colpite della "barriera" non pare tuttavia avere avuto finora alcun risultato concreto nel bloccare le distruzioni di case, pozzi e coltivazioni, gli espropri di terreni, e la costruzione di un muro di cemento alto nove metri. È però possibile sperare, anche rileggendo le parole di Jonathan e Liad, che pur se prive di un'efficacia immediata queste azioni rappresentino il tentativo di abbattere altri muri, invisibili ma devastanti. Non solo il noto e crescente fenomeno dell'obiezione di coscienza in Israele, ma anche il piccolissimo ma costante numero di cittadini e cittadine israeliane che affrontano in prima persona la mostruosità dell'occupazione militare e l'invisibile ma reale diffondersi tra i palestinesi e le palestinesi di forme di resistenza dal basso, aliene alle logiche politiche e militari dei gruppi al potere, potrebbero forse suggerirci la presenza di crepe di speranza. 

 

ANARCHISTS AGAINST THE WALL - UN’INTERVISTA 

Ricke: In Europa non ci arriva quasi nessuna informazione sulla sinistra radicale israeliana, è per questo che vorrei sentirvi raccontare qualunque cosa vogliate, vita quotidiana, azioni, pratiche politiche, analisi...

Liad: In Israele non c'è più una sinistra radicale da dopo l'inizio dell'Intifada, è un nucleo piccolissimo di persone costantemente sul margine della sparizione. Le persone che si ritenevano di sinistra si sono totalmente spoliticizzate. Chi si riteneva di sinistra radicale ed è rimasto attivo, rappresenta una minoranza infinitesimale.

E voi?

Jonathan: Cerchiamo -so che suona un po' pretenzioso- di creare le infrastrutture necessarie per azioni dirette unitarie tra israeliani che non sostengono la politica di Israele e palestinesi. 

L: Prevalentemente prendiamo parte ad azioni dirette unitarie che hanno luogo nei Territori Occupati. Ma alla fine quello che facciamo ha anche a che fare con il creare cultura alternativa e strutture non gerarchiche all'interno di Israele, strutture che respingano il concetto di Stato di Israele.

Cosa intendete con infrastrutture?

J: Non ci riferiamo a luoghi fisici, come punti di incontro, che non sarebbero comunque sfruttabili dai/dalle palestinesi, ma alla base personale, relazionale che rende possibile il fare politica assieme. Costruire infrastrutture significa "costruire fiducia". La gente in Europa si deve rendere conto che non usiamo la parola "Apartheid" solo come uno slogan. C'è una separazione assoluta tra le due società. Anche al di là della green line non vi è nessuna occasione in cui le due società possono venire in contatto. Allacciare relazioni personali e costruire la fiducia, che sono la base dell'azione politica, è l'elemento più difficile e contemporaneamente più importante.

L: è importante segnalare che dall'inizio della II Intifada quasi nessun israeliano è più entrato nei territori occupati, non hanno più visto nessun palestinese. 

È formalmente vietato ai/alle cittadini israeliani entrare nei Territori Occupati?

J: Non completamente. Questo ha anche in qualche modo a che fare con la divisione del West Bank in aree A, B, e C. Similmente al sistema dei Bantustan sudafricani, Israele ha stabilito che l'area C sarebbe stata controllata totalmente da Israele stesso, la B da Israele e dall'ANP e la A esclusivamente dall'ANP. Ma, all'atto pratico, in questo momento [ottobre 2003] l'intero West Bank è trasformato in area C. Secondo tale divisione i/le cittadini israeliani non possono entrare legalmente nelle aree A, perché l'esercito israeliano non potrebbe garantire la loro "sicurezza". Naturalmente la ragione reale è che non vogliono che qualcuno veda quello che accade. 

L: Comunque è sempre possibile entrare aggirando i check point e tagliando a piedi attraverso i campi, fuori dalle strade di collegamento, o fingendo di essere "internazionali". Quando arriviamo "dall'altra parte" cerchiamo di stabilire delle relazioni. Non possiamo basarci sul lavoro fatto nella I Intifada, perché allora eravamo bambini, né su un diffuso lavoro compiuto in questi tre anni di II Intifada. Non ci sono praticamente cittadini israeliani che vadano a fare azioni su un piano di relazioni egualitario. Ci sono persone che vanno a portare aiuti umanitari, a fare giri di conoscenza, ma non li/le vedi camminare mano nella mano con la società locale. Perché è una cosa difficile. I/le palestinesi sono sospettosi nei confronti degli/delle israeliani. Anche se li appoggiano politicamente è difficile che sviluppino una vera fiducia. Noi invece cerchiamo di fare cose assieme, in qualche modo di dargli l'occasione di valutarci. Alla fine funziona tutto con il passaparola, la società palestinese è molto collegata, dunque prima o poi qualcuno racconta di avere fatto qualcosa con noi, e così nascono reti di relazioni e di fiducia più estese. Abbiamo partecipato ad azioni nelle zone di Nablus e Jenin. Siamo stati a Mas'ha [vicino a Qalqilyia] per un campo contro il muro dell'Apartheid. Il villaggio è colpito in maniera devastante dalla presenza del muro.

J: Ad esempio il 98% degli alberi erano stati confiscati e sradicati per permettere la costruzione del muro.

L: La gente era in qualche modo più disponibile a cooperare con israeliani, forse anche perché era un villaggio particolarmente laico. In particolare lì siamo riusciti a portare molti altri israeliani. Molti di noi sono rimasti a lungo nel villaggio e così sono nate relazioni più profonde. Credo che sia stata la prima volta dall'inizio della II Intifada. 

J: Il campo è durato 4 mesi [nella primavera/estate 2003], con la costante presenza, giorno e notte di israeliani, palestinesi e internazionali. Calcoliamo che più di 1000 persone vi abbiano preso parte. Il campo è stato il risultato, quantomeno dal lato israeliano, dell'impegno del movimento, o meglio dei movimenti, non-gerarchici.

Chi sono questi attivisti?

J: A ben guardare, il gruppo che lavora in maniera continuativa non conta più di una decina di persone, prevalentemente nella zona di Tel Aviv e di Gerusalemme.

E ad Haifa? Spesso ci viene rimandata l'immagine di Haifa come di una città laboratorio della coesistenza.

L: Bisogna fare attenzione quando si usa la parola coesistenza. In Israele si è iniziato ad usare questo termine negli anni di Oslo, un periodo in cui si tendeva a cancellare le differenze tra israeliani e palestinesi, fingendo di essere tutti uguali, ignorando dunque totalmente le reali condizioni di profondo squilibrio, violenza e ingiustizia, prodotte dallo Stato di Israele. "Siamo tutti uguali, tutti vogliamo la pace". Era una retorica costruita sul niente. Con l'esplodere della seconda Intifada è diventato chiaro che tutta questa menzogna si basava sul nulla, non aveva niente a che fare con una reale lotta per la giustizia e l'uguaglianza.

L: L'esperienza a Mas'ha è stata un'esperienza di reale coesistenza. La gente lavorava assieme su una base di parità. Si discuteva assieme, si cercavano assieme strategie, linee di azione. Naturalmente era difficile, ed era necessario riconoscere le differenze tra di noi. 

J: Tutto quanto si basava sul principio della democrazia diretta, la gente partecipava alle discussioni in cui si prendevano le decisioni ... quasi sempre sulla base del consenso. 

Questo tipo impostazione non creava difficoltà?

L: Questo tipo di scelta implica naturalmente il fatto di lavorare prevalentemente con gruppi locali "progressisti". Mi immagino che ci siano palestinesi con cui non sarebbe possibile. Ma sarebbe impossibile anche con la larga maggioranza degli/delle israeliani, o europei. 

J: Vorrei ritornare sulla questione di Oslo. Io credo che al momento attuale sia particolarmente difficile ricostruire delle relazioni di fiducia a causa di ciò che è accaduto negli anni di Oslo. Gli accordi di Oslo avevano fatto nascere un sogno, un sogno delirante che non aveva nulla a che vedere con la realtà, ma che aveva creato un'enorme speranza in moltissime persone, palestinesi come israeliane. Quando tutto ciò è esploso, perché non era reale, ha distrutto la fiducia da entrambi i lati. Oggi ricostruire questa fiducia è difficilissimo. Quando incontriamo dei/delle palestinesi, anche se ci conoscono, se sanno che siamo antisionist*, anche se vedono se vedono che siamo lì con loro, che siamo vittime degli stessi abusi da parte dell'esercito, anche se i soldati ci picchiano e ci sparano addosso come a loro (naturalmente non nella stessa misura, perché bisogna sempre ricordare che viviamo nell'apartheid), non è semplice per loro fidarsi di noi. 

L: Sentono continuamente il bisogno di dimostrarci che l'occupazione è una cosa orribile e che loro sono esseri umani come noi. Perché la maggioranza degli/delle israeliani non si rende conto di tutto ciò, ha bisogno che queste cose gli vengano dette. Poiché nessuno gli ha mai puntato delle armi addosso non riescono a vedere il vero significato dell'occupazione, il suo reale peso nell'impedire il processo di pace.

Non ci sono in Israele casi di violazione dei diritti umani contro cittadin* ebre*?

J: Si certo, ma è sempre qualcosa che non si può assolutamente paragonare a ciò che fanno ai/alle palestinesi. Ma forse ci stiamo sbagliando, forse tra qualche anno potrebbe cambiare. 

L: Oltre tutto lo Stato ebraico protegge comunque le/gli ebre*. Cosa potrebbe succederci? Niente, niente di lontanamente paragonabile a quello che succede ai/alle palestinesi dei Territori o a quell* di Israele. Siamo ebre*, bianch*, di classe media. Siamo dei privilegiat*. Tutti questi elementi di "forza" mi obbligano a fare di più. Credo di dovermi assumere più responsabilità e anche più rischi di altre persone, perché posso sostenere il peso di determinate scelte.

Fate uno specifico lavoro di informazione all'interno di Israele?

J: Organizzare manifestazioni è quasi impossibile, allora cerchiamo di muoverci su un altro livello.

L: Facciamo un altro tipo di lavoro: con Indymedia, con persone che fanno video, che preparano trasmissioni televisive. Naturalmente sono cose rivolte a chi è già in contatto con determinati ambienti politici. Con altre persone è difficilissimo, non vogliono sentire quello che abbiamo da raccontare, ci considerano dei traditori, e spesso possono diventare estremamente aggressive e violente contro di noi. 

J: Non potremmo mai permetterci di bloccare una strada a Tel Aviv per fare un presidio o una manifestazione. È troppo pericoloso, siamo troppo poch*, verremmo immediatamente aggredit*. 
La maniera di fare propaganda che crediamo invece essere la più efficace è semplicemente portare altr* israelian* a vedere i Territori Occupati. Non c'è niente altro che possa spiegare che cos'è l'occupazione, che cosa significa veramente. 

L: Devi riuscire a fare sentire loro qual è veramente il punto. Gli/le israelian* devono trovare da sol* questo grado di consapevolezza, devono vedere l'occupazione. È impossibile e inutile raccontargliela. La maggioranza delle persone che ha fatto questa esperienza, che ha visto, ha cambiato totalmente la propria vita. Sono diventat* i/le migliori sostenitori della causa palestinese, perché si sono sentit* chiamat* a risponderne personalmente, perché è diventato per loro impossibile non sentire, profondamente, l'ingiustizia. 

J: Puoi essere una persona perfettamente informata, puoi essere collegat* intellettualmente e politicamente con la sinistra radicale, ma fino a che non passi del tempo in una casa a Hebron il cui piano superiore è occupato dall'esercito, mentre tu siedi con gli/le abitanti al piano terra, non puoi capire la paura, non puoi avere una relazione emozionale con la loro paura.

L: Gli/le israeliani non si sono mai trovati nella loro vita in una situazione del genere. 

Credo che noi europei non la vediamo proprio così...

L: Gli/le israeliani di oggi intendo. È un'altra generazione, una generazione piena di sé, che si ritiene in qualche modo invincibile. Sanno di essere quell* che hanno il coltello della parte del manico. Non sono mai stati in situazioni di umiliazione o in cui la loro vita sia stata in pericolo, o in cui la loro libertà sia stata in qualche modo limitata in maniera così massiccia. E quando vedono che tutto ciò accade invece ad altre persone, e senza alcun motivo, si rendono conto che c'è qualcosa di totalmente sbagliato.

Qual è l'atteggiamento prevalente delle autorità palestinesi nei vostri confronti?

J: Non siamo così grandi, non ci notano neppure. 

L: Non lavoriamo a livello nazionale, ma con le piccole comunità dei villaggi. Lavoriamo con comunità che vogliono la nostra presenza, che ci hanno invitati, cerchiamo di non imporre in alcun modo la nostra presenza. 

J: Ogni tanto l'invito arriva in risposta ad una nostra iniziativa, ma dobbiamo essere invitati. 

L: Sarebbe stupido e pericoloso andare in un posto dove non siamo desiderati.

Il grado di apertura delle comunità nei vostri confronti è legata in qualche modo alla minore o maggiore influenza dei gruppi islamici radicali?

J: Dipende, non è sempre detto in maniera così meccanica. Nablus, dove siamo spesso, è una città estremamente conservatrice e religiosa...

L: Ovviamente non lavoriamo con Hamas, loro non sono dalla nostra parte e noi non siamo dalla loro. E non lavoriamo neppure con l'ANP.

Ma non siete mai stati oggetto di repressione da parte delle autorità palestinesi?

J: Noi no, ma vediamo gli effetti di questa repressione nella società palestinese. D'altra parte per me questo è parte dell'oppressione israeliana. L'ANP è qualcosa che è stato creato in una maniera molto specifica da Israele, tramite gli accordi di Oslo, allo scopo di mantenere il controllo della società palestinese, dell'economia, della vita quotidiana, per fargli fare la parte degli sbirri cattivi. Ma Israele è sempre sullo sfondo, anche quando la repressione arriva direttamente dagli organi di potere palestinesi.

Come è nato il vostro impegno politico?

J: Ho iniziato molto presto ad interessarmi alla cultura punk nei suoi diversi aspetti, non solo musicali. È così che ho conosciuto persone, luoghi e sono entrato in contatto con l'anarchismo.

Come hai evitato il servizio militare?

J: Non mi hanno voluto! All'epoca, avevo 16 o 17 anni, ero già stato buttato fuori dalla scuola, e avevo già parecchie denunce da parte della polizia... Non c'è stato nessun processo, era ovvio che non ero la persona giusta per fare il soldato. È stato durante gli anni di Oslo, era tutto più facile. Loro non mi hanno voluto e diciamo che io non ho insistito molto per farmi accettare.

L: Io faccio politica anche in altri campi. Prevalentemente mi occupo dei diritti delle prostitute. Sono nata in Israele ma ho passato molto tempo negli Stati Uniti, dove la mia famiglia si era trasferita all'inizio della I Intifada, perché mio padre era scappato per non fare il servizio militare. I miei genitori però non sono attivi politicamente. Appartengono da un punto di vista ideologico alla sinistra radicale, ma non fanno politica in prima persona. Quando è iniziata la II Intifada mi sono resa conto c'erano delle cose che non sapevo, che non mi erano mai state raccontate. Ho iniziato a ricercare in questa direzione ed è così che è nato tutto quanto.

Hai deciso di tornare per via dell'Intifada?

L: No. Mi piacerebbe dire che è così, ma non è vero. Sono tornata qui perché è il mio paese, è il posto da cui vengo e volevo tornarci a vivere. Adesso qui vado all'università, mi occupo di studi mediorientali e di gender studies. 

E come è andata con il servizio militare? 

L: Avendo passato così tanto tempo fuori dal paese, sono rimasta esclusa dal normale percorso che porta al servizio militare, e ho avuto la possibilità di restarne al di fuori. Per le donne è molto più facile evitare il militare. Abbiamo il diritto di rifiutarlo per motivi ideologici o di coscienza. Gli uomini invece hanno solo la possibilità di essere considerati malati mentali. 

J: Oppure se non ti vogliono.

Avete qualche tipo di iniziativa per aiutare e sostenere chi rifiuta il servizio militare?

J: Noi personalmente no, ma ci sono molte iniziative di questo tipo. Tutto il lavoro politico intorno all'obiezione di coscienza è piuttosto ampio e ben radicato. Non ci sono iniziative specificamente anarchiche. Tutti gli/le anarchici rifiutano il servizio militare e alcuni partecipano a questi gruppi che lavorano sull'obiezione di coscienza, ma non c'è il bisogno di creare un gruppo separato.

L: In effetti la cosa più basilare che puoi fare per opporti all'occupazione è rifiutare il servizio militare. È un gesto che può avere un'enorme ripercussione. E infatti la repressione si sta facendo più dura e ora ci sono persone che restano in prigione 6 mesi o un anno, e le condizioni di detenzione sono molto peggiorate. Il governo cerca di scoraggiare completamente una cosa di questo tipo. Rifiutare il servizio militare significa compiere un passo attivo e concreto contro l'occupazione e creare qualcosa di diverso che non mette in discussione solo l'occupazione ma la stessa essenza dello Stato di Israele, in effetti l'essenza di ogni Stato. È qualcosa che può creare una situazione completamente nuova. 

Cosa comporta per te essere una donna, in questo scenario?

L: Da un certo punto di vista mi aiuta, dall'altro è veramente una gran rottura: per le donne internazionali o per le israeliane a volte è più facile entrare in contatto con le comunità palestinesi, perché non si viene considerate come un pericolo potenziale. Questo è stato particolarmente vero durante la prima Intifada. Per noi donne era, ed è tuttora, più facile viaggiare, incontrare persone ecc. 

Tuttavia proprio perché l'occupazione militare dei Territori Palestinesi è la questione centrale, le problematiche legate al genere sono inevitabilmente trascurate. Io però ci devo fare i conti, come donna israeliana, occidentale. Io lavoro quasi esclusivamente con uomini. Sono costantemente in mezzo a uomini palestinesi e quasi mai con donne palestinesi. L'altro lato della medaglia è che facciamo spesso anche l'esperienza di essere condannate e stigmatizzate come donne. Inoltre, ogni volta che nasce un problema legato a violenza o molestie sessuali, c'è la tendenza ad ignorarlo, a farlo sparire di fronte all'enormità dell'oppressione e dell'occupazione. Spesso la percezione occidentale della società palestinese è improntata al relativismo culturale: "Guarda come sono poveri ed oppressi... è per quello che opprimono le loro donne". In questo modo si usa una questione per coprirne un'altra. È un atteggiamento di continua giustificazione. All'inizio del campo di Mas'ha abbiamo esplicitamente chiesto che le donne palestinesi potessero partecipare, ma non è mai accaduto. Non gli è mai stato permesso di venire.

J: No, non è proprio così. Nessuno vietava loro di venire, ma alla fine, a parte qualche caso isolato non venivano. 

L: Esatto. Non venivano perché erano impedite dalla pressione sociale, e non c'era niente che potessimo fare per cambiare la situazione.

J: Non credo che si potesse davvero fare qualcosa. Un lavoro politico di questo tipo accade all'interno di strutture sociali e culturali già esistenti, che non possono cambiare da un giorno all'altro solo perché arriviamo noi. 

L: Certo. Ma bisogna ancora considerare che noi lavoriamo prevalentemente con uomini. E che per questi uomini è più semplice lavorare con altri uomini, internazionali o israeliani, piuttosto che con donne. 

In realtà la mia domanda mirava più alla tua esperienza all'interno di Israele, del movimento israeliano...

L: In primo luogo bisogna considerare che la società israeliana è estremamente violenta, maschilista e militarista. Per ogni donna questo rappresenta una continua situazione di pericolo di violenza. Tra attivisti certo la situazione è migliore, ma è anche estremamente intricata; e poi anche per noi l'occupazione militare rappresenta un problema così grande che è difficilissimo mantenere l'attenzione anche su altre questioni. 

Dici di ritenere che il fatto che la società israeliana sia così pervasivamente militarizzata abbia un peso rispetto alla condizione femminile.

L: Certamente. E gioca un ruolo anche tra gli/le stessi attivisti. Il militarismo condiziona profondamente anche il nostro comportamento. Considera che per la società israeliana non c'è alcuna separazione tra soldato e persona. Ho visto parecchie persone, magari attivisti politici che non avevano neppure fatto il militare, che erano comunque influenzate da questo cocktail di maschilismo e militarismo. Tutto ciò naturalmente si traduce in violenza contro le donne. Se sei un soldato, un "conquistatore" che passa il tempo a massacrare e umiliare altri esseri umani, non ti fermi quando rientri in casa. Infatti la violenza domestica contro le donne è aumentata in maniera spaventosa dall'inizio dell'Intifada, e mi immagino che questo stia accadendo anche in Palestina. La violenza non è qualcosa che si possa contenere o limitare a determinati settori della propria vita. 

J: Non credo però che sia un fenomeno che tocca solo le donne. La violenza è presente nella società e tocca ogni tipo di relazione, non solo quella tra uomini e donne.

L: È difficile far capire quanto tutto ciò vada nel profondo. Da bambina non ho mai pensato che avrei fatto il militare. Eppure quando a 10 anni ho dovuto lasciare il paese perché mio padre non voleva combattere nella prima Intifada, io me ne sono vergognata. Mi sembrava che fosse qualcosa di strano e di sbagliato, qualcosa che mi vergognavo di raccontare, perché temevo che sarei stata respinta dalle altre persone. Considera che ero molto piccola. Voglio dire cioè che il militarismo non condiziona solo il tuo comportamento come soldato, o le tue opinioni politiche, ma tutta la maniera in cui sei, in cui agisci.

J: Ognuno è allevato per fare il servizio militare. Non è una cosa che si stia tanto a pensare. È così e basta: nasci, poi vai a scuola, poi vai nell'esercito, poi vai a lavorare... persino il matrimonio è un'istituzione meno forte del servizio militare. È più accettabile, più concepibile che una persona non si sposi e non abbia figl* piuttosto che non faccia il militare.

L: Il movimento che si oppone alla militarizzazione della società israeliana è estremamente ridotto. Forse ci dimentichiamo ormai di quanto in là sia andato questo processo di militarizzazione e di smoralizzazione della società, e di come sia difficilissimo ormai per le persone opporsi attivamente a tutto ciò.

Avete entrambi passato molto tempo fuori da Israele. Avete l'impressione che il contatto con attivisti di altri paesi possa portare qualcosa alla vostra situazione specifica?

J: Sono sicuro che sia estremamente utile il contatto con altre realtà. Nel passato abbiamo cercato di importare pratiche politiche che venivano da altri paesi, dagli Stati Uniti e dall'Europa. Spesso si è rivelato un fallimento. Questa non è l'Europa, non è neppure un paese totalmente occidentale. Noi cercavamo di farlo perché vedevamo cose che ci piacevano, con cui ci sentivamo affini e cercavamo di ricrearle. Ad esempio i No Border Camps, o le occupazioni di case. Lo facevamo anche perché sono parte del patrimonio culturale da cui veniamo: punk, anarchismo e militanza femminista radicale... Ma tutto questo non funziona all'interno del clima israeliano e ci isola profondamente. Contemporaneamente non vogliamo abbandonare quegli aspetti della nostra identità che vengono dall'aver vissuto a lungo in altri contesti politici e sociali. Ma la controcultura ti isola in Israele addirittura di più di quanto non ti isoli in Europa. 

L: In Europa e negli Stati Uniti c'è una cultura alternativa estremamente radicata. In Israele il livello di opposizione ad ogni cosa che puoi fare o a come sei, in quanto esponente di una cultura alternativa è fortissimo. Ma se penso invece a quello che gli/le attivisti internazionali possono offrire con la loro presenza qui, allora bisogna citare la maggiore copertura mediatica che comportano e il fatto che comunque hanno portato nuove questioni nel nostro dibattito interno. Anche se magari solo come idee. 

J: Anche da un punto di vista esclusivamente pragmatico sono stati spesso estremamente efficaci nel migliorare la vita per i/le palestinesi, ci sono state occasioni in cui sono stati in grado di fare addirittura aprire dei check points. 

L: Riescono ad intervenire e a sostenere i/le palestinesi nella loro quotidiana lotta di sopravvivenza. Una parte della lotta di resistenza consiste nel cercare di vivere la vita, nel non farsi annichilire e umiliare completamente dall'occupazione israeliana. 

Ma io credo che ogni cambiamento debba avvenire dall'interno della società israeliana. Questo è un conflitto locale. Non sto naturalmente parlando delle cause generali del conflitto, ma dell'aspetto locale, regionale della situazione. Da questo punto di vista Israele è il lato forte, il lato che decide.

J: Non mi piace l'uso del termine "conflitto". L'Apartheid non è un conflitto. Nessuno ha mai detto che l'Apartheid in Sud Africa fosse un conflitto. La visione di un "conflitto" tra Israele e Palestina non rende chiara la reale situazione di Apartheid e di sistematica discriminazione. Questo è un classico progetto colonialista, non è un conflitto tra due parti.

L: Comunque è importante sottolineare che in una situazione come questa è la parte forte a decidere. La parte debole può solo resistere, ma non avrà mai così tanto potere da decidere la situazione. L'occupazione finirà quando il governo di Israele vorrà che finisca, non prima. Non credo neppure che dall'esterno si possa fare pressione, è una decisione che deve maturare dall'interno. L'occupazione e l'Intifada stanno indebolendo enormemente l'economia del paese. Anche senza parlare della devastazione culturale prodotta dall'occupazione, da un puro punto di vista economico la situazione peggiora di giorno in giorno. La gente è stanca ed è possibile che prima o poi dirà basta. È stanca ed estremamente impoverita.

J: Si ma non mi sembra che questo vada nella direzione che ti auguri. La reazione può anche essere di volere più terra, e più violenza. Pare che la gente non sia in grado di realizzare il collegamento che c'è tra il loro impoverimento e l'occupazione militare.

Pensate ad andarvene?

L: Io voglio provare a restare. Ma vivere in uno stato di guerra permanente è molto debilitante. Ogni tanto bisogna andarsene per un po'. Prendere un po' di aria, trovare nuove idee, nuove prospettive. Ma in definitiva voglio restare qui. Credo sia importante agire a livello locale.

J: Ho dei sentimenti contraddittori rispetto ad andare o restare. Credo che prima o poi vorrò andarmene. Questo paese è culturalmente morto.

L: Questo è veramente un problema legato all'occupazione. Ci impedisce di avere una vita che ne prescinda. Non puoi occuparti di niente altro: politicamente, culturalmente, artisticamente, intellettualmente la questione dell'occupazione militare dei territori palestinesi assorbe tutte le energie. È come un pensiero ossessivo che ci impedisce di fare altro. Considera che il periodo culturalmente e artisticamente più vivace sono stati gli anni di Oslo. Allora è stato possibile iniziare svariati progetti perché l'attenzione non era costantemente concentrata sul tema dell'occupazione.

J: Però individualmente proviamo sempre ad occuparci anche di altro. 

Ad esempio?

L: Io mi occupo della difesa dei diritti delle lavoratrici del sesso, prevalentemente.

J: Io mi occupo di animalismo. In generale cerchiamo di creare una sorta di comunità controculturale.

L: Media alternativi, comunità alternative... un'opposizione allo Stato sionista. Molte cose sono collegate, formare una comunità significa comprendere determinate cose escludendone altre, come ad esempio il concetto di Stato ebraico, il concetto di ogni Stato.

J: Io mi occupo anche di musica. Organizziamo concerti con le persone della mia casa, a Jaffo, che è una specie di centro sociale, abbiamo una sala prove e un laboratorio di registrazione.

Vorrei che ritornassimo su una cosa che avete detto all'inizio e cioè che gli/le israeliani non riescono ad immaginare che cosa significhi vivere sotto l'occupazione militare. E che questo è un problema soprattutto per le generazioni più giovani.

J: No, non ho detto questo. Ho detto che la giovane generazione si sente invincibile. Ma neppure le persone anziane riescono ad immaginare gli effetti dell'occupazione.

Quello di cui però vorrei che parlassimo è un luogo comune, molto diffuso in Europa, un luogo comune che credo sia importante smontare. Molte persone si domandano infatti come è possibile che gli/le israeliani opprimano e discriminino la popolazione palestinese quando loro stessi sono stati vittime di oppressione e discriminazione.

J: In primo luogo la maggioranza degli/delle israeliani non ha nessuna esperienza personale diretta di tutto ciò. La memoria, invece, dell'Olocausto è stata usata in Israele in una maniera estremamente cinica, per giustificare un progetto imperialista e colonialista. Chiunque cerchi di parlarne in un'altra prospettiva viene messo sulla lista nera. 

L: L'Olocausto viene considerato come qualcosa di sacro, che non può essere messo in relazione con nessun altro fatto. L'unico uso che se ne può fare è per dimostrare la necessità di uno Stato ebraico.

J: L'Olocausto è stato così tanto sfruttato a questo scopo che ora è diventato un qualcosa di totalmente privo di significato. Il presupposto è che non c'è mai stato nulla di simile e che non ci sarà mai neppure in futuro nulla di simile. Così che questa sofferenza non può avere relazione con nessuna altra sofferenza. È l'Olocausto, punto. Questo è l'atteggiamento prevalente nella società israeliana. 

L: Lo scopo è di giustificare qualunque cosa che venga fatta per la "sicurezza" delle/degli ebrei, sicurezza, sicurezza, sicurezza... creare condizioni di sicurezza per la popolazione ebraica diventa una priorità assoluta.

J: Pare non avere nessuna importanza il fatto che lo Stato ebraico si rivela essere in assoluto il posto più pericoloso del mondo per gli/le ebrei.

L: Quantomeno il più pericoloso da dopo l'Olocausto... Davvero c'è un'incredibile manipolazione dell'Olocausto, che viene interpretato solo in funzione dell'importanza di uno Stato ebraico. Così che non può più avere nessun rapporto con dei sentimenti di empatia. Il sentimento che deve suscitare è che noi ebrei dobbiamo restare uniti, dobbiamo avere uno Stato, e che è importante avere "sicurezza". È come quando una persona che è stata vittima di abusi a sua volta abusa di altre persone. Sto pensando proprio alle persone, non ai governi. La vittima di un abuso non riesce a percepirsi come carnefice a sua volta, non riesce a riconoscere i propri gesti perché continua ad avere un'immagine di sé come di "vittima", come di una persona che si limita a difendersi.

Mi state dicendo che la vista del muro intorno a Qalqilyia non risveglia nella società israeliana nessuno ricordo di altri muri?

L: Non hanno la più pallida idea che esista! 

J: Prova a chiedere alle persone anziane per la strada a Tel Aviv come vive la popolazione ad esempio di Tulkarem. Non hanno idea, non sanno nulla del muro, ed è vero, non mentono. Non sanno nulla delle condizioni di vita dei/delle palestinesi. Sanno solo che ogni cosa che viene fatta dal governo è allo scopo di prevenire attentati.

L: Devi anche tenere presente che il progetto di uno Stato ebraico è un qualcosa di estremamente colonialista. È pervaso da un'attitudine colonialista nei confronti di ciò che viene dall' "oriente" e cioè arabi, primitivi, selvaggi. "Noi li stiamo civilizzando, stiamo portando loro condizioni di vita occidentali, lavoro, denaro. Senza di noi loro non sarebbero niente..." C'è una visione degli/delle arabi -perché naturalmente non si usa la parola palestinesi, ed in questo modo li/le si priva di un'identità specifica- totalmente costruita a partire dalla prospettiva israeliana, occidentale. In questa prospettiva nascono domande come: "cosa fanno loro per la pace? Dove sono i loro gruppi pacifisti?" La gente non prova mai a rovesciare la prospettiva. Non si prova mai a veder le cose sotto un'altra angolatura. La prospettiva è quella del lato dominante, una prospettiva che ignora tutto quello che non risponde a standard occidentali.

J: Inoltre la gente è estremamente convinta della moralità, dell'etica dell'esercito israeliano. "Sono sicuro che erano obbligati ad uccidere quel bambino... sono stato anche io nell'esercito. Se gli hanno sparato è perché il bambino rappresentava una minaccia mortale...". Un bambino che tira pietre a duecento metri di distanza? ma per favore! "Sono sicuro, ho fatto il militare anche io..."

L: Devi tenere presente la propaganda intorno a tutto questo. Il nostro esercito ha più armi di quello di moltissimi altri paesi, ma qualcuno che tira pietre è considerato una minaccia, perché teoricamente una pietra potrebbe uccidere. E la gente ci casca in Israele.

Non vi capita mai di avere paura quando siete in Palestina?

J: Non mi vengono in mente momenti di particolare paura. Certo quando vedi venirti incontro i carri armati...

Veramente io intendevo chiedervi se non avete mai avuto paura dei/delle palestinesi.

L: Si, io ricordo di avere avuto paura le prime volte, quando ho iniziato a venire nei Territori Occupati tre anni fa. È veramente una cosa assurda. Ho vissuto a lungo negli Stati Uniti, e avevo completamente dimenticato tutti i pregiudizi che mi erano stati inculcati da bambina piccola. E guarda che io vengo da una famiglia di sinistra radicale, eppure avevo dentro di me la paura degli "arabi"... come di un qualcosa di indistintamente minaccioso. Ma ho superato questa paura molto velocemente. Ogni situazione di pericolo che ho vissuto nei Territori era causata dall'esercito israeliano, mai dai/dalle palestinesi.

Ci sono stati casi di attivisti israeliani aggrediti?

J: Da palestinesi? No. Dall'esercito si, moltissime volte. Ci hanno anche sparato addosso. A tutti e due.

L: Però questa domanda, se non ho paura, è sempre la prima che mi viene rivolta dagli/dalle altri israeliani, almeno quando arrivano a nutrire una qualche curiosità, perché normalmente non hanno davvero nessuna idea di quello che succede qui. Ma se arriviamo ad aprire il discorso mi chiedono immediatamente se non ho paura dei/delle palestinesi. È la prima idea che attraversa la loro mente. È veramente la struttura classica del razzismo, ovunque nel mondo, l'essere totalmente pervasi dalla paura dell'altro/a.

Quando siete in Palestina è sempre chiaro che siete israeliani?

J: Deve essere sempre chiaro alle persone con cui lavoriamo, con cui stiamo. Può capitare che per arrivare nel posto dove dobbiamo fare un'azione si debba attraversare un altro villaggio, ad esempio tempo fa abbiamo attraversato Jenin per andare ad Anin a smontare un pezzo di muro. A Jenin eravamo degli sconosciuti ed essere riconosciuti come israeliani avrebbe potuto rappresentare un pericolo. Ma nel momento in cui siamo arrivati a Anin era chiaro a tutti chi fossimo. Credo di ricordare una situazione in cui c'era un'azione a Nablus, e le persone ci hanno consigliato di non parlare ebraico in strada. Ma è sempre fondamentale che le persone con cui lavoriamo sappiano chi siamo. È una questione di onestà, non vogliamo imporre la nostra presenza a chi non ci vuole. 

L: È importante fare ciò che facciamo come israeliani, anche se non ogni persona per la strada sa chi siamo, anche se non possiamo relazionarci su questo livello con chiunque in strada. Sarebbe però assurdo mentire alle persone con cui lavoriamo. Al di là della questione dell'onestà e della trasparenza, al di là anche del discorso sui rischi se si scoprisse che mentiamo sulla nostra identità, è importante che loro sappiano che ci sono israeliani solidali con loro, israeliani che esprimono questa solidarietà resistendo insieme a loro contro l'esercito occupante.

J: Alla mia prima esperienza di organizzazione, ho dovuto incontrare una persona vicino a Nablus, che è una delle città più militanti del West Bank. È anche una città conservatrice e molto religiosa.

L: In Israele Nablus è considerata una roccaforte di terroristi...

J: Tornando da questo villaggio dove avevo l'appuntamento mi sono perso. Io non parlo arabo, solo qualche parola. Allora a frasi smozzicate ho chiesto indicazioni su come arrivare ad un insediamento, perché è quella l'unica strada per uscire. Avevo molta paura di fare questa domanda: cosa avrebbero potuto pensare? La gente invece mi ha aiutato ad uscire dal villaggio. Alla fine di questa avventura sono stati i soldati israeliani a spararmi addosso.

Ricke


Articolo da "Germinal" n.94, gennaio-maggio 2004