Gli speculatori edilizi israeliani alla conquista della Cisgiordania
Le Monde Diplomatique, settembre 2006


alleanza tra stato, promotori immobiliari e coloni estremisti

Il governo israeliano non si è limitato a portare avanti la sua offensiva miliare contro il Libano e Gaza; ha intensificato anche la colonizzazione della Cisgiordania, con un solo obiettivo: spingere sempre più in là le sue frontiere. I palestinesi assistono alla confisca delle loro terre e all'alleanza di potenti interessi economici con lo stato d'Israele e i coloni estremisti, per attirare una popolazione ebraica «non ideologizzata» utile come manodopera malleabile e sottomessa.

dal nostro inviato speciale Gadi Algazi *

Modi'in Illit è una colonia ebraica in Cisgiordania. Una colonia importante, che occupa le terre di cinque villaggi palestinesi: Ni'lin, Kharbata, Saffa, Bil'in e Dir Qadis. È l'insediamento che si sviluppa più in fretta; e presto dovrebbe anche ottenere lo statuto di città: il ministero abitativo israeliano prevede che, nel 2020, passerà da 20.000 abitanti a 150.000. Fa parte di quel «blocco di colonie» che i vari governi israeliani hanno voluto e vogliono annettersi. E illustra anche il legame fra il muro di separazione e l'estensione delle colonie: lo sviluppo di Modi'in Illit ha portato alla rovina gli agricoltori palestinesi di Bil'in, un piccolo villaggio che la costruzione del muro ha spogliato della metà delle terre che gli restavano: circa 2.000 dunams (1).

Dal febbraio 2005, gli abitanti di Bil'in conducono una lotta non violenta contro il muro. Insieme ai pacifisti israeliani e ai volontari internazionali, tutti i venerdì manifestano mano nella mano, davanti ai bulldozer e ai soldati. Una mobilitazione che raggiunge quella di altri villaggi palestinesi impegnati, da quattro anni, in una difficile campagna di resistenza. Queste azioni, di cui non si sa praticamente niente fuori dalla Palestina, e che sono spesso coordinate da comitati popolari contro il muro, hanno ottenuto risultati modesti ma apprezzabili: hanno permesso di fermare o arrestare la costruzione di steccati che privano gli abitanti delle loro terre e li condannano a vivere nei recinti. A Budrus e a Deir Ballut, i comitati sono anche riusciti a far deviare i tracciati, e a recuperare così una parte delle vigne, dei campi e delle fonti d'acqua confiscate.

Queste piccole vittorie acquistano tutto il loro senso se si pensa all'indubbia superiorità militare di Israele. Grazie alla sua forza militare e al sostegno degli Stati uniti, e raccogliendo i frutti del piano di disimpegno di Ariel Sharon, lo stato ebraico guadagna terreno di fronte ai palestinesi, ogni giorno più isolati e demonizzati.

All'estero si accetta sempre più la politica unilaterale di Israele, seppur a malincuore.

L'importanza di questa «intifada del muro» risiede soprattutto nella sua influenza a lungo termine. Le esperienze di protesta di massa non violente, fragili e su scala ridotta, che avevano giocato un ruolo marginale all'inizio della seconda intifada, sembrano radicarsi e cominciare a dare buoni frutti. Via via che le possibilità di una pace giusta in Palestina diminuiscono e che i palestinesi di Cisgiordania si abituano a vivere nei recinti (2) tra barriere e muri, le manifestazioni pacifiche aprono nuove vie per il futuro. E seminano, da una parte e dall'altra, germi di future lotte comuni.

L'intifada del muro In totale, 200 persone sono state ferite a Bil'in nel corso di manifestazioni disperse con violenza, e molte altre sono state arrestate con pretesti diversi. Contro queste persone che manifestavano a mani nude, si sono mobilitati l'esercito israeliano, le guardie di frontiera, la polizia e anche le società private della sicurezza. Manganelli, bombe lacrimogene, proiettili di gomma e pallottole vere hanno mietuto numerose vittime (3). Da parte israeliana, si ammette che alcuni agenti provocatori, appartenenti alle forze speciali (dell'unità Massada), si sono infiltrati in queste manifestazioni pacifiche, facendosi passare per arabi, allo scopo di incitare i partecipanti a ricorrere alla forza (4). Solo la determinazione dei membri del comitato popolare ha impedito che questi provocatori non innescassero una dinamica incontrollabile. In realtà il muro ha bisogno di una protezione rinforzata - contro l'opposizione pacifica degli abitanti dei villaggi palestinesi e dei loro alleati. Il muro ha infatti il compito di permettere un grande progetto coloniale: Modi'in Illit.

All'occupazione israeliana ci si riferisce spesso usando termini mutuati dal conflitto fra stati (e la creazione dell'Autorità palestinese non ha fatto che rinforzare questa tendenza). Tuttavia, si tratta in fondo di un conflitto coloniale. I gesti simbolici, le iniziative diplomatiche, le dichiarazioni pubbliche svaniscono davanti ai fatti bruti: pozzi e uliveti, edifici e strade, emigrazioni e insediamenti.

A essere sconvolto è lo stesso paesaggio e non solo le frontiere politiche. Il controllo militare esercitato da Israele dal 1967 ha creato un quadro favorevole al rafforzamento di questo meccanismo coloniale. Insediamenti, recinti e strade ne sono i segni più flagranti - le colonie costituiscono l'ostacolo più serio alla creazione d'uno stato palestinese veramente indipendente. Dal 1967 al 2006, si calcola che lo stato ebraico abbia fatto costruire circa 40.000 alloggi in Cisgiordania per un costo di 4,3 miliardi di dollari. E, in gennaio, il numero di coloni insediati nei territori occupati - fuori Gerusalemme - , fra cui il Golan, superava i 250.000 (5).

Le colonie israeliane nei territori occupati sono in genere condannate, ma di rado studiate. Per sapere a chi giova il progetto coloniale e perché le persone comuni lo approvino bisognerebbe tuttavia guardare da vicino la loro composizione e la loro economia. Modi'in Illit è un caso rivelatore sotto diversi aspetti. È prima di tutto un'impresa diretta non da coloni messianici e dai loro rappresentanti politici, ma da un'alleanza eterogenea tra promotori immobiliari interessati ai terreni, investitori capitalisti a caccia di profitti e politici favorevoli alla colonizzazione. È uno dei rari insediamenti che ha continuato a espandersi durante la seconda Intifada. Non ospita nazionalisti puri e duri, ma essenzialmente famiglie numerose ultraortodosse che, poco interessate al sionismo politico e anche a Israele, cercano prima di tutto migliori condizioni di vita. Vi convergono miseria sociale, profitti rapidi e espropriazione implacabile.

Modi'in Illit, che in origine si chiamava Kiryat Sefer, come la maggior parte delle colonie, non deve la sua creazione (1996) a un'alleanza tra autorità governative, organizzazioni sioniste e movimenti di coloni estremisti: l'iniziativa viene da imprese private, dopo gli accordi di Oslo del 1993 e in un momento in cui la privatizzazione dell'economia s'intensificava in Israele. È il tipico esempio di un nuovo stile d'insediamento coloniale, diretto da capitali privati e sostenuto dallo stato. Il consiglio locale ha accordato - così indicano i rapporti della Corte dei conti - un trattamento di favore agli imprenditori immobiliari: vantaggi speciali, esoneri dalla normativa che regola le costruzioni, riduzione delle tasse, ecc. Migliaia di alloggi sono stati costruiti in palese violazione della legge, con l'approvazione post facto del consiglio locale, che ha regolarizzato le costruzioni illegali modificando retroattivamente il piano regolatore.

Nel «Far est» israeliano, l'urgenza politica della colonizzazione va di pari passo con i profitti rapidi per gli investitori.
Secondo un'inchiesta condotta nel 1998, l'intera zona di Brachfeld, per esempio, sulle terre di Bil'in, è stata costruita senza permesso - eppure nessuna casa è stata demolita in seguito. La gran parte delle acque usate si riversa nel fiume Modi'in, inquinando le risorse acquifere locali. E questo non a causa della corruzione o d'una cattiva gestione, ma per la dimensione strutturale della frontiera coloniale: l'insediamento non regolato offre la possibilità di vasti profitti a scapito dell'ambiente.

Gli abitanti palestinesi di Bil'in fanno fronte a una potente alleanza tra interessi politici ed economici. Due quartieri devono essere costruiti sulle terre che gli sono state confiscate. Uno di questi, Green Park, è stato concesso a Dania Cebus, una filiale dell'Africa Israel Group, proprietà di uno degli uomini d'affari più influenti d'Israele, Lev Leviev (7): questo colossale progetto di 230 milioni di dollari prevede la costruzione di 5.800 appartamenti. E gli utili realizzati dall'Africa Israel hanno registrato un aumento del 129% nel corso dei tre primi trimestri del 2005 (8). Altre grandi imprese edili hanno raggiunto Leviev. Tutti investimenti che dipendono dalla costruzione del muro, che dovrebbe dividere gli abitanti di Bil'in dalle loro terre e assicurare la «sicurezza» dei nuovi quartieri.

Come in numerosi altri insediamenti coloniali, situati tra la «linea verde» (la frontiera israeliana precedente il 1967) e la «chiusura di sicurezza», questo insediamento completa il processo di annessione e valorizza gli investimenti immobiliari.

Il Custodian of Absentee Property (Conservatore dei beni degli assenti) e il Land Redemption Fund (Fondo di riscatto delle terre) dichiarano di essere i proprietari legali delle terre sulle quali si costruisce uno di questi quartieri. Organismo governativo incaricato di gestire le «terre degli assenti», il Custodian serve in realtà ad accaparrarsi le terre palestinesi che appartengono ai rifugiati in Israele e, più di recente, nei territori occupati. Alcune organizzazioni israeliane che difendono i diritti umani hanno scoperto che serve da prestanome ai fondi dei coloni al momento delle «transazioni mobili». Quanto al Land Redemption Fund, creato una ventina d'anni fa, si è specializzato nel riscatto di terre nelle zone d'estensione delle colonie. Fra i suoi fondatori figura Era Rapaport, uno degli organizzatori della rete terrorista, attiva nei territori occupati all'inizio del 1980.

Ha trascorso diversi anni in prigione per il tentato omicidio del sindaco di Nablus, che allora perse le gambe (9).
Due giornalisti israeliani hanno indagato puntigliosamente sui metodi d'acquisizione di questo fondo, la cui «rete informativa è composta da ex collaboratori (palestinesi), ritornati nei loro villaggi dopo essere stati scoperti, da agenti israeliani dei servizi di sicurezza generale in pensione, che forniscono informazioni previo compenso (...) e da ex-governatori militari (che utilizzano i loro) contatti nei villaggi». Prestanome arabi servono da intermediari: si fanno passare per compratori, mentre le terre vengono acquistate grazie a «capitali provenienti dai milionari ebrei di destra come Lev Leviev e il magnate svizzero Nissan Hhakshouri» (10).

Metodi simili sono stati impiegati per confiscare le terre di Bil'in (11). Così, il piano coloniale mischia inestricabilmente economia e politica. Tra i donatori del Fondo ci sono gli stessi capitalisti che si incaricano della costruzione e della promozione immobiliare in altre colonie. Costoro versano somme considerevoli ai coloni estremisti, per convinzione politica ma anche perché si aspettano grossi profitti.

Anche le zone su cui punta il Fondo hanno la loro importanza: il progetto principale è quello di «confondere la "linea verde", unendo gli insediamenti (in Cisgiordania) alle comunità all'interno della linea ed estendendo queste comunità in direzione dei territori (occupati)» per «stabilire dati di fatto sul campo» (12). Tutto questo s'iscrive in un'operazione ancora più vasta, concepita inizialmente da Ariel Sharon, iniziata nei primi anni '80 e ancora in corso. Un piano che tende a dissolvere la «linea verde» mediante la creazione di insediamenti destinati ai coloni «non ideologici» in prossimità dei centri economici d'Israele. Bloccato dalla seconda intifada, questo progetto è ripreso progressivamente nel 2003, con il completamento di certe parti del muro, che ha portato all'annessione di fatto di zone che si trovano tra la recinzione e Israele. Facendo scomparire le comunità dietro il muro, si può promettere sia agli investitori che ai coloni un livello di vita più elevato in uno spazio reso sicuro. La pulizia etnica non è per forza spettacolare.

Le colonie israeliane adiacenti al muro di separazione rivestono un'importanza strategica. Completano il sistema di recinzione e di barriere previsto da Israele per annettersi certe parti della Cisgiordania, ma costituiscono al contempo il luogo strategico in cui prende forma una potente alleanza politica ed economica tra capitali, gruppi di coloni eterogenei e uomini politici al potere.

La «coalizione del muro» che Israele dirige attualmente non nasce con le ultime elezioni. Riunita intorno all'eredità di Ariel Sharon, raggruppa i fautori dell'annessione progressiva («Israele deve tenersi il blocco delle colonie») e i fautori d'una espansione coloniale «ragionevole» (che fanno facilmente bella figura vicino ai «cattivi» coloni, ideologici e senza freni). All'ombra della doppia bandiera della separazione etnica e della privatizzazione dell'economia, questa alleanza non promette la pace agli israeliani, ma una pacificazione unilaterale, legata a una parziale annessione che smembrerà la Cisgiordania e ne dividerà il resto in tre enclave recintate.

Questa alleanza ha preso corpo nell'arena politica di recente (i suoi sostenitori non appartengono soltanto a Kadima, il partito di Sharon e di Ehud Olmert), ma ha costruito le sue fondamenta economiche e sociali molto prima sulle colline della Cisgiordania. Raggruppa i coloni, gli organi di stato che finanziano le recinzioni, alcune società immobiliari e le aziende high-tech - la vecchia economia e la nuova. Gli insediamenti attualmente costruiti o estesi all'ombra del muro ne sono espressione.

È proprio perché non si basano solo sul fervore messianico dei coloni fanatici, ma rispondono anche a bisogni sociali - qualità di vita per la borghesia, occupazione e alloggi popolari per i meno favoriti - che gli insediamenti allargano la base sociale del movimento di colonizzazione e catalizzano altri interessi: veri profittatori del muro, imprenditori, capitalisti e coloni delle classi superiori alla ricerca d'una migliore qualità della vita nei nuovi ghetti dorati, lontano dai poveri e al sicuro dai palestinesi (13).

Le colonie ebraiche hanno continuato a espandersi durante gli anni seguiti agli accordi di Oslo: il numero dei loro abitanti è più che raddoppiato tra il 1993 e il 2000. Ma, a ben vedere, questa crescita ha avuto come teatro principale qualche insediamento importante in cui vivono dei coloni «non ideologici»: immigrati dalla Russia e dall'Etiopia istallati là dalle autorità, abitanti delle periferie povere che aspirano a una vita migliore e famiglie numerose ultraortodosse alla ricerca di case popolari. Queste persone hanno aderito al progetto coloniale solo alla fine degli anni '90 e a malincuore, spinte dalle privatizzazioni e dal rapido smantellamento dello stato-provvidenza in Israele. Modi'in Illit e Betar Illit comprendono da sole più di un quarto dei coloni della Cisgiordania, essenzialmente ebrei ultraortodossi.

Mentre le altre colonie dispongono di uno statuto socio-economico superiore alla media israeliana, queste due costituiscono le comunità ebraiche più povere (14).

Come spiegava uno specialista a un giornalista nel settembre 2003, è la crisi degli alloggi in Israele che ha spinto le famiglie ad andare a stabilirsi lì: «La loro situazione era così disperata che sarebbero stati pronti ad andare ovunque». E il portavoce del consiglio dei coloni di Modi'in Illit confida: «Anche se non sono venuti qui per ragioni ideologiche, non rinunceranno facilmente alla loro casa» (15). Ecco come si trasformano le persone in coloni loro malgrado.

Il sindaco di Betar Illit ha confessato allo stesso giornalista che gli ultraortodossi vengono mandati a forza nei territori occupati perché diventino «carne da cannone». Adesso, i coloni di Modi'in Illit e di Betar Illit potrebbero riporre le speranze nel muro che si avvicina, da cui s'aspettano la sicurezza, e identificarsi con il progetto di spoliazione dei palestinesi.

Ma, se l'estensione delle colonie si nutre dell'erosione dei diritti sociali in Israele, i conflitti sociali nello stato ebraico hanno allora conseguenze dirette sul futuro dell'occupazione israeliana, in quanto mettono in evidenza il legame sottostante tra la lotta anticoloniale - contro il furto delle terre palestinesi e l'insediamento di nuove colonie - e la lotta per la giustizia sociale nel cuore stesso delle frontiere d'Israele.

 

note:
* Professore di storia all'università di Tel Aviv e co-fondatore dell'associazione ebraico-araba, Ta'ayoush.

(1) Un dunam equivale a un decimo di ettaro, ossia a 1.000 metri quadrati.
(2) Amira Hass: «Israeli restriction create isolated enclaves in West Bank», e «Four types of enclaves in theWest Bank», Haaretz, Tel Aviv, 24 marzo 2006.
(3) Meron Rapoport, «Symbol of struggle», Haaretz, 10 settembre 2005.
(4) Meron Rapoport, «Bil'in residents: undercover troops provoked stone-throwing», Haaretz, 14 ottobre 2005; David Ratner, «Bil'in protesters say bean bags are latest riot-control weapon», Haaretz, 21 ottobre 2005.
(5) Haaretz, 8 gennaio 2006.
(6) Cfr. «Israel's State comptroller's report» n. 51 A (2000), Israel Government Printing Office, Gerusalemme, p. 201-218.
(7) Leviev ha costruito la sua fortuna con i diamanti in Africa del sud e usando la sua appartenenza alla setta ultraortodossa dei Lubavitch.
La sua compagnia si vanta di essere stata «pioniera nella costruzione dei ghetti dorati» in Israele. Gestisce d'altronde centri commerciali e sta per costruire il primo carcere privato in Israele. Cfr. Aryeh Dayan, «Leviev promises to treat his prisoners nicely», Haaretz, 28 novembre 2005.
(8) Dati recenti: http://maariv.bizportal.
(9) Shalom Yerushalmi, «Every prime minister who gave away Eretz Israel was hurt» (intervista di Era Rapaport), Maariv, Tel Aviv, 5 aprile 2002
(10) Shosh Mula e Ofer Petersburg, «The Settler National Fund», Yedioth Aharonoth, Tel Aviv, 27 gennaio 2005 (traduzione inglese: www.peacenow.org/hot.asp?cid=247).
(11) Akiva Eldar, «Documents reveal West Bank settlement Modi'in Illit built illegaly», Haaretz, 8 gennaio 2006
(12) Shosh Mula e Ofer Petersburg, op. cit.
(13) Oren Yftachel, «Settlements as reflex action», in Rafi Segal e Eyal Weizman (a cura di), A Civilian Occupation: The Politics of Israeli Architecture, Babel, Tel Aviv, e Verso, Londra e New York, 2003, p. 32-38.
(14) The Israel Central Bureau of Statistics, «Characterizing local councils and rankings them according to the socio-economic position of their population», febbraio 2004. Gli arabi d'Israele sono i cittadini più poveri. E, fra le dieci comunità più povere del paese, figurano otto villaggi beduini e due comunità ebree: Modi'in Illit e Betar Illit.
(15) Tamar Rotem, «The price is right», Haaretz, 26 settembre 2003.

(Traduzione di E. G.)

Articolo pubblicato sull'edizione italiano de Le Monde Diplomatique, settembre 2006