A PROPOSITO DELLA "RESPONSABILITÀ COLLETTIVA"

Errico Malatesta

 

(Studi sociali [1], 10 luglio 1930)

Traduciamo qui appresso una lettera di E. Malatesta al gruppo anarchico del 18° circondario di Parigi, scritta nel marzo o aprile passato, e pubblicata ne Le Libertaire di Parigi, n° 252, del 19 aprile u.s. Con questa lettera Malatesta riconferma la sua opinione sul concetto della "responsabilità collettiva" dell'organizzazione, su cui allora (anteriormente al congresso ultimo degli anarchici organizzati francesi), si faceva nel Libertaire una accalorata discussione. (Nota della redazione di Studi sociali.)

Vedo una dichiarazione del gruppo del XVIII°, in cui si sostiene, d'accordo con la "Piattaforma" dei russi e col compagno Makhno, che "il principio della responsabilità collettiva" è la base di ogni seria organizzazione.

Io ho già detto, nella mia critica della "Piattaforma" e nella risposta alla lettera aperta rivoltami da Makhno, qual è la mia opinione su questo preteso principio. Ma poiché si insiste in un'idea o almeno in una espressione che mi parebbe più a posto in una caserma che fra i gruppi anarchici, mi si permetterà, spero, di dire ancora qualche parola sulla questione.

I compagni del XVIII° dicono che "gli anarchici comunisti devono tendere a che la loro influenza si eserciti con le maggiori probabilità di successo, e non raggiungeranno tale risultato se non in quanto la loro propaganda si sviluppi in modo collettivo, permanente ed omogeneo". D'accordo! Ma a quel che pare, non è così; poiché quei compagni lamentano che "in nome della stessa organizzazione ai quattro angoli della Francia si spandono le teorie più diverse, perfino le più opposte". Ciò è molto deplorevole, ma significa semplicemente che quell'organizzazione non ha un programma chiaro e preciso, compreso ed accettato da tutti i suoi membri, e che nel suo seno vi sono, confusi da una etichetta comune, uomini che non hanno le stesse idee e che dovrebbero aggrupparsi in organizzazioni diverse, o restare isolati se non trovano altri che pensano come loro.

Se, come dicono i compagni del XVIII°, l'U.A.C.R. [2] non fa nulla per stabilire un programma accettato da tutti i suoi membri e per mettersi in grado di poter agire insieme nelle situazioni che si presentano, se insomma l'U.A.C.R. manca di preparazione, di coesione, di accordo, qui è il suo torto ed è a ciò che bisogna rimediare. E non si rimedierà a niente proclamando una "responsabilità collettiva" che, se non è la cieca sottomissione di tutti alla volontà di alcuni, è una assurdità morale in teoria, e, in pratica, la irresponsabilità generale.

Ma tutto ciò non è, forse, che questione di parole.

Già nella mia risposta a Makhno io dicevo: "Può darsi che, parlando di responsabilità collettiva, voi intendiate l'accordo e la solidarietà che devono esistere tra i membri di una associazione. E se è così, la vostra espressione sarebbe secondo me una improprietà di linguaggio, ma in fondo si tratterebbe solo d'una questione di parole e saremmo vicini ad intenderci".

Ed ora, leggendo ciò che dicono i compagni del XVIII° io mi trovo abbastanza d'accordo sulla loro maniera di concepire l'organizzazione anarchica (molto lontani essendo dallo spirito autoritario che la "Piattaforma" sembrava rivelare) e mi confermo nella speranza che sotto differenze di linguaggio si nasconde veramente una identità di propositi.

Ma se è così, perché persistere in una espressione che è contraria allo scopo di chiarificazione che è stata una delle cause di malintesi provocata dalla "Piattaforma"? Perché non parlare, come tutti quanti, in modo da esser compresi e da non creare equivoci?

La responsabilità morale (poiché nel nostro caso non può trattarsi che di responsabilità morale) è individuale per sua natura. Soltanto lo spirito di dominazione, nelle diverse sue manifestazioni politiche, militari, ecclesiastiche, ecc., ha potuto ritenere responsabili gli uomini di ciò che questi non hanno fatto volontariamente.

Se degli uomini si sono messi d'accordo per fare qualche cosa, e qualcuno di essi, mancando ai suoi impegni, fa fallire l'iniziativa, tutti diranno che lui è il colpevole e quindi il responsabile, e non coloro che han fatto fino all'ultimo ciò che dovevano fare.

Ancora una volta, parliamo come parlano tutti gli altri; cerchiamo di farci capire da tutti, e forse ci troveremo in minori difficoltà nella nostra propaganda.

Errico Malatesta

marzo / aprile 1930


1. Il giornale Studi sociali fu fondato da Luigi Fabbri a Montevideo (Uruguay) nel 1930 e fu diretto da lui fino alla sua morte nel 1935.

2. Union Anarchiste Communiste Révolutionnaire