Le tracce da esplorare

Nasce un nuovo modo di essere e vivere il collettivo. Il soggetto non è più un segreto.
La politica del futuro è dei singoli e non dell'uomo massa.

 

Finito il periodo della preminenza del politico e finito quello dell'emergenza del personale, stiamo entrando in una nuova dimensione: quella in cui il soggetto, ciascuno di noi, comincia ad affrontare la dimensione politico-sociale come mai aveva fatto: considerandola un ineludibile spazio esistenziale sia di sé-individuo in quanto tale, sia della collettività in cui si riconosce.

Gli analisti politici sono sempre stati terribilmente in ritardo, e questo è già un brutto risultato per dei professionisti. La cosa è dovuta per lo più ad un perverso effetto che la categoria della "politica" esercita sul modo di fare ricerca e analisi sociale.

Noi che non siamo professionisti dell'analisi dobbiamo poter sfruttare le ricerche che facciamo per una pratica politica che interessa direttamente la nostra vita giornaliera; non abbiamo infatti una merce (l'analisi politica) da produrre, vendere e conservare finché non è stata venduta.

Ci serve uno spazio di ricerca sulla realtà che viviamo, il quale sia libero da dogmi e capace di contenere tutto ciò che ci pare utile, in cui si possa discutere della sintesi fra il nostro bisogno individuale di comprendere la società in cui viviamo ed il bisogno di farlo collettivamente nell'ambito di un progetto di trasformazione che è chiaro, almeno nell'essenziale, nella testa di ognuno di noi.

I cambiamenti sociali degli ultimi anni hanno aspetti complessi e solide basi, sono certamente di lunga durata e impongono quindi una riflessione sui loro effetti.

La frantumazione occupazionale e produttiva della classe operaia, la crescita del terziario, l'informatizzazione e l'automazione introdotta in tutta la società, l'articolazione e l'importanza del sistema dei consumi stanno a loro volta trasformando la società.

La diminuzione dell'orario di lavoro e l'attenuazione della sua dimensione più abbruttente fisicamente, l'aumento del reddito e del tempo possibile di non-lavoro, la creazione (anche tramite la grande abbondanza di merci) di una forte ideologia individualistica sono cambiamenti molto grossi. E' avvenuta una potente interiorizzazione delle regole sociali dominanti dentro ad ogni persona; chi non ha mezzi per affermarsi individualmente secondo le regole di questa società, rischia di saltare.

Pensare a queste cose come ad una pura facciata della struttura sociale capitalistica sempre uguale è troppo semplicistico.
Il popolo della sinistra libertaria -quelli cioè che non potrebbero nascondersi in un catechismo qualsiasi- è formato da persone che da tempo fanno i conti con se stessi. Sono costretti a farlo dal fatto che la propria posizione critica e libertaria è stata interiorizzata e da tutte le contraddizioni che questo fatto comporta. Perciò la sinistra libertaria non deve accettare l'impostazione delle analisi che separano la politica da una libera ricerca sul sociale. Se è vero che esiste una tecnica speciale del fare politica non possiamo più accettare come vero e scientifico un modo "politico" di registrare ed analizzare la realtà che ci circonda cioè un filtro per la osservazione e la conoscenza della realtà.

Una delle funzioni che deve avere questa rivista è appunto quella di dare spazio ad una libera scienza del sociale e ad una discussione sulla società che viviamo, una discussione basata sui fatti e sull'assenza di preclusioni e filtri ideologici. I due principali obiettivi sono:

Per capire meglio, per vedere cosa si intende per necessità di ricondurre la questione sociale fuori dagli schematismi delle grandi categorie unidimensionali della politica, dell'economia, della sociologia e infine per prendere seriamente in considerazione il ruolo importante dell'individuo in dialettica con queste categorie, proviamo ad esaminare alcuni problemi: quello della "povertà"; quello del lavoro, quello della politica e quello del sindacato.

...La povertà

All'inizio della rivoluzione industriale la povertà era legata alla definizione di classe proletaria in maniera essenziale. Fra occupati e disoccupati esisteva pur sempre un forte legame costituito dall'essere poveri, dal non avere altro da vendere che le proprie braccia. Si capisce come l'appartenere a questa classe, il non possedere mezzi di produzione fosse sinonimo di assoluta povertà. Il salario serviva solo alla riproduzione strettamente fisica. La povertà era inscindibilmente connessa ad una condizione sociale di indigenza assoluta ed obiettiva.

Oggi questo tipo di povertà non è più così legato alla condizione di lavoratore salariato; è invece presente nelle zone sociali marginali ed è vissuta in modi diversi e forse meno rassegnati di una volta. Oggi è resa più drammatica dal carico di aspettative dei soggetti colpiti che hanno tutt'altre aspirazioni che un piatto di minestra: veri e propri bisogni complessi, meno legati alla pura sopravvivenza fisica.

Dall'altra parte abbiamo la società standard: i garantiti, quella fetta di società sui è stato dato il ruolo di emarginatrice ed anche questa categoria sociale, per un carico di aspettative e bisogni che non sono più la garanzia del piatto di minestra assicurato, vive situazioni di povertà relativa, definita dalla mancanza di tutto ciò che il reddito non permette e che è invece desiderato. Non trascuriamo poi la drammaticità della situazione di un garantito con un basso livello di reddito che vive nella zona di frontiera con la povertà.

Ci sono poi molte fasce di consumatori, definibili "poveri" che comprendono anche categoria garantite le quali, se rinunciassero ad alcuni beni non di prima necessità, non sarebbero più poveri in senso assoluto.

I consumi poveri sono una categoria definita solo dalla sua relazione con il livello di consumo medio, o per meglio dire, quello sbandierato come medio, che a sua volta è quello che la società definisce come ricchezza e promette ad ogni individuo.

La vera povertà, quella di chi non può mangiare, lungi dall'essere quantitativamente ridotta (anzi pare sia cresciuta) è però prerogativa di strati sociali marginali.

Questa povertà multiforme, differenziata fra povertà ufficiale (e rimossa) della fasce ufficialmente fuori dalla produzione e povertà relativa "consumistica", è un fenomeno grosso. Lo sviluppo sociale pertanto ha accresciuto la ricchezza distribuita alle classi non dominanti ed ha inoltre moltiplicato i bisogni e i sogni individuali, assediando i soggetti con mille sollecitazioni.

La nuova povertà derivante da questo meccanismo è spesso vissuta, data la natura ed i modi con cui i bisogni emergono, come condizione spiccatamente soggettiva ed individuale.

Data la illimitatezza dei bisogni possibili di una persona, lo sviluppo sociale ha innescato un processo di grosse proporzioni che è nato e si sta sviluppando in forma ambigua e contraddittoria, spesso dolorosa.

I soggetti calati in immagini di libertà (cultura, viaggi, cibo, vestiti, travestimenti, ecc.), confrontano continuamente ciò che ciascuno "è" con ciò che si potrebbe essere in base alle promesse sociali. Qui si inserisce a volte ciò che si vorrebbe essere: la bestia della libertà che riunisce bisogni e realizzazione di essi in una sola fonte: il soggetto.

La libertà individuale è ormai un problema in cui organizzazione sociale e realizzazione individuale vanno legandosi sempre più, per forza di cose.

...Il lavoro

Nelle strategie rivoluzionarie si parla del rifiuto del lavoro alienato; il riformismo invece ha sempre affermato di poter restituire dignità al lavoro costruendo il socialismo fin d'ora; il lavoro secondo i riformisti sarebbe un elemento dei rapporti sociali di produzione con caratteristiche particolari, infatti il lavoro retribuito ingiustamente costituirebbe il segno caratteristico del capitalismo, il lavoro giustamente retribuito strenne invece segnale di socialismo.

Qual è il criterio che definisce l'alienazione del lavoro?

Si può affermare che il lavoro si libera se viene pagato al suo "giusto valore" e che, di conseguenza, libera anche il lavoratore?

Oppure bisogna partire dal lavoratore, cioè da un individuo costretto a lavorare per pagarsi la sopravvivenza e un po' di libertà?

L'alienazione del lavoro è tale perché i lavoratori sono individui che subiscono questa alienazione; se fossero macchine non succederebbe. Questa centralità del soggetto lavoratore non deve essere persa per strada anche e soprattutto quando si analizza la categoria lavoro. E bisogna sempre riferirsi alla centralità del soggetto soprattutto oggi che la struttura lavorativa ha subito una considerevole frammentazione.

Se, ad esempio, esaminiamo la categoria del lavoro part-time, possiamo considerare i lavoratori part-time in vari modi: come puri e semplici erogatori di quel lavoro oppure come alcuni individui che hanno bisogno di un certo tipo di reddito e che hanno determinate esigenze di tempo e così via. Se consideriamo ogni individuo che svolge lavoro part-time, se ci caliamo concretamente nel part-time come problema sociale, se vogliamo conoscerlo veramente, dobbiamo vedere il lavoro part-time con gli occhi di chi lo fa e quindi partire dall'insieme di costrizioni, bisogni e metodi di procurarsi reddito che fanno scegliere a quei soggetti quel tipo di lavoro.

Ebbene, IRES.CGIL del Piemonte in una recente inchiesta s'è accora che quelli senza lavoro non erano interessati al part-time ma ad un lavoro fisso e garantito, a differenza invece dei benestanti o titolari già di un reddito.

Questi fatti bastano per mandare all'aria un sacco si supposizioni "scientifiche" ed "oggettive" fatte finora sul rapporto fra part-time, tempo-pieno e soggetti.

La categoria lavoro, nelle sue mille articolazioni, non è un problema con la sola dimensione economica, né è un problema semplice se lo si esamina bene. Per avere una prospettiva valida e unitaria per la conoscenza del lavoro (a parte l'analisi della sua funzionalità dal punto di vista capitalistico) bisogna considerare il punto di vista del soggetto lavoratore con le sue conoscenze, bisogni e aspettative.

Gran parte della sinistra considera il lavoro, preso in sé, come un terreni di lotta fondamentale per riformare la società. Basterebbe dare al lavoro l'obiettività di una paga giusta, il contenuto di utilità sociale definita con gli attuali parametri "democratici", per farlo diventare socialista.

Qual è allora il senso dell'abolizione dell'alienazione del lavoro e che senso ha la riappropriazione del lavoro da parte dei lavoratori?

Il lavoro dell'operaio attuale non è più come cent'anni fa un mestiere, cioè la capacità di sapere e saper fare una serie di operazioni lavorative integrate, mestiere di cui si appropriava il padrone, operaio per operaio.

Col taylorismo il mestiere è stato progressivamente trasferito in mani e braccia meccaniche tutte uguali che costituivano un solo grande operaio. Nuovi mestieri coordinavano, a monte e a valle, questi grandi operai.

Oggi, con i robot e l'informatica, l'elettronica ha assunto il complesso controllo degli arti meccanici e ha sostituito gli occhi, le orecchie e quanto basta del cervello anche di coordinatore. I colletti bianchi sono quasi tutti dei semplici applicati al computer per oliarli e non farli inceppare.

Così non ha più senso fare solo un discorso si riappropriazione individuale del mestiere; è ormai un problema di riappropriazione sociale.

L'incremento di produttività può coesistere con la riduzione dell'impiego di forza-lavoro solo grazie alla sostituzione di mestiere operaio con l'automazione e l'informatica. Nel terziario sembra che ciò non avvenga; invece si sta compiendo un completo "svuotamento" del mestiere non solo per i ruoli analoghi a quello operaio, ma anche per i ruoli burocratici.

Ogni soggetto è spogliato senza mezzi termini del suo ruolo professionale e, di contro, si tenta di ricostruirne una simulazione di esso, ma questa simulazione si regge solo su altre simulazioni e su promesse di realizzazione personale.
Molti più di quanto appaia a prima vista sanno della vuotezza professionale del proprio ruolo lavorativo e da ciò deriva uno stato di solitudine e impotenza rispetto al lavoro espropriato, il cui "cervello" è altrove.

Il soggetto è solo e demotivato per la riappropriazione individuale di un mestiere che non è più individuale: infatti qualsiasi rivendicazione per la riconquista di contenuti professionali del proprio lavoro pone l'individuo tragicamente solo di fronte ad un sistema produttivo che ha cancellato il mestiere singolo, integrandolo nella funzione generale del controllo e della progettazione della produzione (e dei servizi).

Per ovviare a questo inaridimento del soggetto lo si bombarda continuamente di segni che simulano in lui un contributo professionale unico e insostituibile (ventaglio di qualifiche e ancora di più: qualità differenziate riconosciute alle prestazioni di ognuno, meritocrazia per fedeltà aziendale nascosta da motivazioni inerenti il "valore" lavorativo di ognuno, ecc.), tentando di riempire il lavoro di ogni soggetto di significati collettivi: produrre per il bene della collettività.

Da ciò ne consegue che cade il nesso fra lavoro erogato e salario percepito, produzione sociale del singolo e ricchezza sociale avuta in cambio.

Il capitale ha legato il reddito al lavoro ed il lavoro al reddito: chi non lavora non mangia, ognuno mangia in base alla qualità e quantità di lavoro svolto. Se guardiamo al soggetto ed alle sue reali motivazioni, non possiamo solo considerarlo e valutarlo sul base del rapporto fra lavoro svolto e ricchezza ottenuta, perché stravolgeremmo completamente la realtà dei fatti. Dobbiamo invece partire da ogni individuo e distinguere quindi due necessità: quella di poter vivere (di avere cioè il diritto ad una fetta della ricchezza sociale) e quella di partecipare col lavoro alla ricchezza sociale; oltre che al proprio arricchimento professionale creativo.

Questo non è un ideale astratto ma una legittima e realistica aspirazione soggettiva che moltissimi devono seppellire dentro di sé a causa della necessità imposta di legare le proprie possibilità di realizzazione alla paga ottenibile con uno o più lavori.

Questo contrasto non può essere trascurato, non possiamo andare dietro alla traccia conoscitiva che ci fornisce il capitale perché oggi, con la follia diffusa delle nevrosi che nascono dalle contraddizioni soggettive, rischiamo di essere truffati e beffati dalle stesse simulazioni create per coprire e depistare le contraddizioni.

Una volta un lavoratore con un mestiere poteva far valere solo la scarsità relativa sul mercato della sua professionalità per spuntare un salario maggiore. Per il capitalismo questo, e solo questo, è il maggior valore di un operaio.

Oggi a questo si è aggiunto il sistema di simulazione dei motivi per cui vengono concessi premi ai lavoratori più affidabili socialmente.

Tra il valore del lavoro e la marea di stimoli e premi per i più bravi, sta la zona dello sgomento: il sapere che il salario non misura più "oggettivamente" il lavoro svolto, la consapevolezza che si lotta per un maggiore salario solo per poter soddisfare i propri bisogni e non per una "giusta" retribuzione.

E mentre vacilla il collegamento fra lavoro e sua retribuzione, emerge il concetto di salario come strumento per soddisfare i propri bisogni, come strumento e margine di libertà. Un salario che è ormai un mucchio di soldi che si possono ottenere con uno e più lavori di vario genere, o anche senza lavorare.

Questo insieme di denaro (salario/i) non è più la conferma di uno status produttivo, ma il mezzo per soddisfare dei bisogni e costruire la rappresentazione sociale di ognuno.

Il soggetto è immerso in nuovi discorsi di valorizzazione professionale strettamente individuale e cerca un salario che premi il suo individualismo e i suoi enormi bisogni.

Per riempire di significati la parola "lavoro", il sistema non può che esaltare chi subisce di fatto l'alienazione, cioè il soggetto. L'ideologia individualistica è quindi l'altra faccia dell'alienazione lavorativa.

Dobbiamo ficcarci in testa che la società in cui viviamo non è solo un puro e semplice aggiornamento del capitalismo nella sua struttura originaria, che se oggi si parla di ideologia individualistica imposta sai valori culturali, economici e sociali dominanti oppure di false rappresentazioni soggettivistiche, questa non è una moda saltata in mente agli ingegneri delle sovrastrutture capitalistiche. Qualcosa c'è sotto!

Il capitale in primis opera la spersonalizzazione del soggetto che è chiuso in categorie e regole basate concretamente sulla sua alienazione.

La lotta di classe parte continuamente dalla forza collettiva di una ribellione contro le espressioni di questa alienazione; l'affermazione del valore del soggetto nella sua integrità e nella sua ricerca di libertà hanno interagito con lo stesso sviluppo del capitale alle prese con la sue crisi di valorizzazione.

Non ci sono difficoltà oggi a scorgere sia l'uno che l'altro aspetto di questa dialettica nella società. Perciò oggi è difficile scindere un discorso di libertà soggettiva dalla libertà sociale.

La libertà che il capitale offre ad ognuno non è solo molto costosa, ma contiene anche un messaggio di individualismo infame, basato sulla prevaricazione degli altri; dobbiamo scoprire l'altra faccia della medaglia, il soggetto che sente l'oppressione individuale e cerca strade per esprimerla e liberarsene.

Non si tratta di una questione accademica dal momento che le concezioni astratte e "classiche" sulle grandi categorie sociali, su cui sindacato e partiti della sinistra hanno marciato finora, non coincidono più con quel che realmente si muove nei soggetti inclusi in queste categorie.

E' sbagliato parlare di cambiamento puro e semplice delle categorie, di "linea" più appropriata; bisogna guardare attentamente cosa è cambiato nelle ragioni essenziali per cui si formano le contraddizioni della società e valutare attentamente il ruolo degli individui che le vivono, ed inoltre bisogna anche osservare le nuove prospettive di formazione della solidarietà tra i soggetti. Sembra ormai improponibile una solidarietà che venga dall'alto della categoria a cui si appartiene, piuttosto è praticabile una solidarietà che nasca dalla consapevolezza di ogni individuo, cioè che parta dall'azione delle persone, la quale richiede ovviamente un maggiore livello di coscienza critica.

...La politica

La trasformazione sociale avvenuta ha lasciato un segno profondo nella dialettica politica.

La scienza della politica della sinistra, le sue categorie di pensiero, i suoi messaggi politici non possono più essere fondati sull'equivoco che il soggetto oggi si esaurisca nel suo ruolo produttivo e che ciascuno soggetto sia tale solo in quanto determinato dal sistema produttivo, a senso unico.

La società capitalistica dapprima ha costretto gli individui a far parte di categorie determinate solo dai rapporti di produzione poi ha dovuto riconoscere, di fronte alla turbolenza ed alla ribellione dell'autonomia soggettiva, il soggetto, cercando di fornire ad esso una identità che fosse integrata e organica ai rapporti sociali dominanti.

L'esigenza di una rivoluzione culturale nel campo della politica è derivata da ciò che sta avvenendo.

Gli attuali rapporti sociali che corrono sui binari dei profitti e della concorrenza individuale stanno facendo esplodere i soggetti: universi chiusi in sé nell'egoismo fasullo dei miraggi consumistici proposti, ma dipendenti dalle regole della grande gara obbligatoria.

Ma il soggetto non è stato inventato dal capitale. L'accelerazione individualistica in atto porta alla luce in maniera violenta, complessa e sotterranea, l'entità/soggetto che è sempre esistita in ogni persona con aspettative genuine e insopprimibili di libertà e benessere.

Queste aspettative, che hanno certamente subito una evoluzione storica in dialettica con la struttura sociale, oggi sono attaccate, distorte e messe violentemente sotto pressione da simulazioni e da una simulazione multiforme, insistente, seducente.

I valori sociali che giustificano e rendono accettabile la gara che dovrebbe spingere ognuno a fregare l'altro, ottenendo redditi, qualifiche, premi differenziati e moltiplicati, sono essenzialmente individuali; quindi anche le scelte, opposte e antagoniste, di socializzare con altri soggetti alla ricerca di uno spazio di autonomia dai meccanismi e dai valori imposti non possono che essere essenzialmente individuali.

Una solidarietà costruita così, un valore collettivo frutto di libera scelta, si mantiene e si estende se, e solo se, i soggetti continuano a volerlo e a comunicarlo.

Nel continuo rivolgimento della politica dei movimenti c'è la babele dei linguaggi che confonde un movimento con tanti movimenti: spesso specifici e settoriali, ma nello stesso tempo alla ricerca esagerata della concretezza degli obiettivi.
Se da una parte un movimento specifico è un movimento che manca di una potenzialità universale, è spezzato, d'altra parte il suo di stanziamento dalla politica ufficiale fa pensare ad una ricerca della vita nella sua più autentica complessità.

Un movimento settoriale subisce l'influenza della frammentazione della società, ma la sua esistenza è anche sintomo di presa di coscienza diretta e autonoma di quella che è la gestione politica dominante.

Il centro della politica reale si sta spostando verso il soggetto che sente individualmente le contraddizioni, decide responsabilmente la solidarietà con gli altri, si muove per risolvere problemi direttamente connessi al vissuto.

...Il sindacato

Altro importante settore in crisi radicale è il sindacato. Con molte probabilità le cause vanno ricercate, così come per la politica di sinistra tradizionale, nei cambiamenti del rapporto tra soggetti e categorie sociali: fra vissuto individuale della contraddizione e possibilità esistenti per esprimerlo, fra solidarietà costruita dagli individui e solidarietà calata dall'alto della teoria politica.

Per andare alla radice della questione, per affrontare il problema della attuale rappresentatività del sindacato e delle sue ragioni sociali non basta elencare i cambiamenti strutturali di classe, ma bisogna aggiungere i passaggi successivi: come cioè questi cambiamenti hanno agito sui soggetti interessati, i quali non hanno mai smesso di percepire individualmente le contraddizioni sociali.

Oggi il sindacalismo continua a proporre un rapporto fatto di categorie e valori sovrapposti alle realtà degli individui.

La categoria del lavoro capitalistico si basa sulla sottomissione del soggetto al lavoro; una sottomissione che è completa: economica, culturale, fisica.

Il riformismo non è solo la negazione della rivoluzione (un significato forse troppo generico), ma programma per portare la categoria del lavoro ad un livello socialmente più elevato (giusto, utile, ecc.); ma così trascura il senso più intimo dell'alienazione del lavoro capitalistico che è proprio la sottomissione dell'individuo alle sue capacità lavorative, alla legge economica del capitale, al tipo di lavoro che ad essa serve.

Ha senso liberare il lavoro, oppure ha senso, oggi più che mai liberarsi dal lavoro alienato?

I riformisti non parlano di soggetti dominati da un lavoro ma di soggetti/lavoratori legati alla categoria lavoro ed alle sue sorti, in meglio o in peggio. Non ha senso proporre di partecipare alla gestione della categoria lavoro ad un soggetto intimamente consapevole di essere privo di qualsiasi controllo su ciò che fa; non ha senso al di fuori di un programma di liberazione dalla logica sociale dominante che impregna il lavoro; il problema è più radicale e bisogna partire dall'alienazione individuale causata dal lavoro.

Se esaminiamo il problema della "giusta retribuzione" vediamo che esso si basa su due presupposti: la giustezza del salario come scambio contro la prestazione lavorativa e la esistenza di una corrispondenza fra lavori erogati diversi e salari diversi.

Oggi le persone hanno bisogno di un salario per vivere e sempre più avanza la convinzione che il lavoro è uno scotto da pagare per ottenere il denaro.

Si sa bene che la differenziazione delle qualifiche -e quindi dei salari- risponde a bisogni e criteri derivanti dalla gestione del personale da parte dell'imprenditore e la scienza di questi criteri è scienza tipicamente padronale che ha per scopo dichiarato quello di inventare valori per una categoria, il lavoro, che si basa in realtà su tutt'altri tornaconti.

Chi percepisce di non avere in mano né il capo né la coda della valutazione delle mansioni che svolge, sa di essere un individuo che vive senza possedere alcun controllo su una parte di se stesso: il lavoro svolto. Questo è aggravato dal fatto che l'ideologia dominante lo valuta, lo spinge a superare gli altri, lo blandisce e gli fa promesse proprio come individuo, come soggetto che individualmente si gestisce l'affermazione nel campo del lavoro.

Le singole persone, raggruppate in classi e gruppi dai rapporti di produzione vengono trasformate -paradossalmente proprio per mantenere queste divisioni- in partecipanti individuali ad una violenta gara di auto-promozione regolata da un feroce individualismo.

Il soggetto deve mettere al massimo frutto le sue personali doti per vincere e deve guardare all'obiettivo della difesa delle proprie conquiste e dell'andare avanti (più avanti = più soldi. Più soldi = più libertà) in totale solitudine e isolamento.

Dentro alle regole, il soggetto deve correre la corsa del reddito attraverso il lavoro e lo deve fare contando solo sulle proprie forze.

Il sindacalismo si trova quindi in mezzo ad un grosso rivolgimento: il crollo del mestiere, dell'ideologia del salario = quantità di lavoro, del lavoro come apportatore di ricchezza e/o utilità sociale. Gli stessi lavoratori però, attaccati da più parti dai nuovi pseudo-valori del lavoro e da tutte le sollecitazioni ad una affermazione individuale nella società, non trovano ancora chi faccia un discorso critico basato sull'acquisizione del crollo dei valori, trovano solo valori di sinistra derivati da vecchie teorie che impongono determinati discipline di ribellione basate ancora sulla dignità del lavoro, sull'abnegazione per il bene della società, sulla solidarietà con una società astratta: Stato, amministrazione, enti rappresentativi.

I soggetti ormai gonfi di pseudo-valori di ricchezza e sogni di affermazione/prevaricazione, già sezionati e scomposti in tante parti specializzate (cittadino votante, cittadino lavoratore, cittadino amministrato, ecc), ormai consapevoli di ciò, seppur in vari modi, non possono accettare un discorso che salti la critica alla schizofrenia dell'accelerazione imposta.

Non risulta più accettabile che la sinistra continui a parlare una lingua simile al capitalismo nel suo gestire categorie dall'alto e trascuri l'evoluzione che si è avuta nella società nel rapporto tra valori collettivi gestiti in nome della collettività e nuova maturità acquisita dal soggetto.

Tutto questo investe in maniera radicale il sindacalismo, sia perché in esso è rappresentato interamente il settore del lavoro e, più in genere, il settore dei sistemi per procurarsi reddito, sia perché molti settori del sociale vanno "sindacalizzandosi" per spinte dal basso.

Probabilmente stiamo assistendo e partecipando ad un grande tentativo, spontaneo e contraddittorio a volte, di trovare un giusto posto ed un giusto ruolo alla critica ad una vita alienata ed è proprio nelle tante valenze sociali di un individuo, nella complessità della vita vissuta in tutti i suoi aspetti, la possibile unità di classe.

Queste tracce sono tutte da esplorare se non altro per il gusto di impiegare parte della nostra vita -per il resto ci arrabattiamo anche noi nei meandri dei comprensori- a vedere come stanno realmente le cose che, sappiamo bene, ci sfuggono di mano la gran parte delle volte.


(Articolo tratto da "Homo Sapiens - materiali della Sinistra Libertaria", n° 1, novembre 1987, all'epoca rivista trimestrale della FdCA. Originale cartaceo presso l'Archivio storico della FdCA di Fano.)