L'UTOPIA SPERIMENTATA

di Marcello Zane

intervento al Convegno Nazionale 
"Come saremo 100 anni fa": l'esperienza della Comune "La Cecilia"
organizzato dalla FdCA a Cremona il 25 ottobre 1997

 

Di Giovanni Rossi sono note più che altro le vicende legate alla Colonia Cecilia che nei libri di storia e nelle memorie dell'anarchismo internazionale è additata ad esempio dello sperimentalismo comunitario. Un progetto che ha radici articolate, strettamente legato alle vicende biografiche dell'anarchico nato a Pisa nel 1856. Un progetto che prende forma nel libro "Un Comune Socialista" pubblicato nel 1878, dove il ventiduenne Rossi con lo pseudonimo di Cardias, espone compiutamente il suo programma per la realizzazione di una colonia collettivista anarchica.

Il Libro conoscerà in pochi anni ben 5 edizioni, mentre verrà pubblicato a puntate su numerosi fogli anarchici di quel periodo. Un successo che faceva seguito al volume "Il sogno" pubblicato da Andrea Costa nel 1881, a dimostrazione dell'esistenza di un ampio pubblico per questo tipo di letteratura utopica. Nel libro vengono descritti la nascita e lo strutturarsi di un villaggio ove è stata instaurata la collettivizzazione della terra e della proprietà: un racconto quasi fantastico (protagonista è la giovane Cecilia, il luogo la comunità immaginata di Poggio a Mare (del tutto simile a Montescudaio) ma che fa emergere la figura del Rossi dal panorama politico italiano del tempo per la volontà di sperimentare immediatamente e in modo sistematico gli ideali rivoluzionari dai più solamente teorizzati.

La sua intensa attività politica (partecipa ancora studente alla sezione pisana dell'Internazionale), non sfugge al controllo dello Stato Italiano: nel novembre del 1878 il Rossi viene arrestato in seguito ad una provocazione poliziesca per "attentato contro la sicurezza interna dello Stato". Il processo provò la sua innocenza, ma resterà in carcere sino all'aprile del 1879 -quindi per 5 mesi- per una successiva ammonizione che gli venne comminata nel corso della detenzione preventiva.

Avvicinatosi progressivamente ad Andrea Costa, di cui diviene amico e frequente corrispondente, collaboratore di numerosi giornali, il Rossi non trascura la sua attività professionale, dando alle stampe alcuni libri di carattere veterinario ed agricolo, premiati anche da Camere di Commercio e dal Ministero dell'Agricoltura. Sono opuscoli che prendono in esame la situazione del patrimonio zootecnico del circondario di Volterra e di Pisa, le malattie comuni ai bovini toscani. Opere di livello scientifico su temi direi "necessari" per l'agricoltura e l'allevamento del tempo, su cui basare anche il funzionamento di colonie sperimentali.

Riacquistata la libertà, il Rossi resterà oggetto di una sorveglianza poliziesca sempre più rigorosa, come testimonia il carteggio fra le autorità di polizia pisane e di Volterra e il Ministero dell'Interno, custodite presso l'Archivio di Stato di Pisa e il Casellario Politico Centrale a Roma. Nonostante le difficoltà frapposte dalla Polizia, il Rossi riesce a vincere nel 1882 un concorso per l'incarico di veterinario consortile in un paese del bresciano, Gavardo, ove resterà per circa cinque anni. Nel piccolo borgo lombardo e nei villaggi che componevano il consorzio veterinario, 7 comuni per meno di 6000 abitanti e un migliaio di capi bovini ed altrettanti ovini, Giovanni Rossi continua nella sua attiva opera di propaganda, riuscendo in pochi mesi ad incidere efficacemente nella locale realtà sociale.

La Sottoprefettura di Salò, sotto la cui giurisdizione cadeva anche il territorio gavardese, inviava regolarmente a Pisa dispacci e notizie sulla condotta politica tenuta nel bresciano dal Rossi. Quest'ultimo è ancora sotto stretta sorveglianza, tanto da rammentare in una lettera inviata all'amico Costa come

"Io sono inquisito e spioneggiato, mi qualificano come soggetto pericolosissimo, cercano dove sono andato e dove vado, cosa ho scritto e cosa scrivo Non mi meraviglierei se da un momento all'altro mi arrestassero per il solito reato di cospirazione".

A Gavardo il Rossi continua nella pubblicazione del periodico di carattere agricolo-veterinari già edito a Montescudaio (Dal campo alla stalla) e sperimenta immediatamente una società cooperativa agricola, ove gli animali dei soci entrano a far parte del patrimonio comune, in aperta contrapposizione con le realtà mutualistiche già esistenti e gestite da un lato dal clero e dall'altro dal potente onorevole locale di marca liberale Giovanni Quarena.

Indubbi furono gli influssi della presenza del Rossi sull'espansione del movimento socialista bresciano. Da Gavardo egli stringe contatti con gli ambienti progressisti, mentre si infittisce la corrispondenza con Andrea Costa, fungendo in pratica da tramite fra il leader socialista e il movimento della Lombardia orientale, organizzando incontri e conferenze del parlamentare romagnolo a Brescia. Nel 1884 il Rossi cura personalmente il numero unico "Brescia per Amilcare Cipriani", in occasione delle elezioni svoltesi in febbraio, e lo stesso anno procede alla ristampa del suo "Un comune socialista", con premessa dello stesso Costa.

Il progetto di una colonia sperimentale prende forma durante il periodo trascorso a Gavardo. Nel novembre del 1884, il Rossi invia una lettera al repubblicano Gabriele Rosa in cui enuncia questo progetto, coinvolgendo anche Filippo Turati.

"Turati con me ed altri, sta maturando il progetto di fondare nell'Italia meridionale o nella zona di bonificamento intorno a Roma una Colonia Sperimentale agricola che possa dare argomenti sperimentati alla soluzione delle questione sociale".

Intensa 

Anche l'attività pubblicistica dell'anarchico pisano durante la sua permanenza nel bresciano. Da Gavardo compaiono suoi interventi su decine di giornali socialisti italiani: interventi tesi ad illustrare la volontà e la necessità della creazione di una colonia sperimentale. Ma fra aspre critiche e documenti inviati anche alla Commissione Federale di Corrispondenza del Partito Socialista Rivoluzionario Italiano mai discussi, fra accorati appelli comparsi sui periodici sopra rammentati e lettere inviate ai maggiori esponenti del nascente socialismo italiano, il progetto segna il passo. Lo stesso Costa si mostra scettico sulla proposta (il Rossi considera il mancato appoggio del romagnolo "una doccia fredda sulla testa") e il tempo passa senza apprezzabili progressi. Così il Rossi prova anche a fondare un proprio giornale, "Lo Sperimentale", che da Brescia viene inviato in tutta Italia a partire dal maggio 1886 ed a cui egli dedicherà le sue energie migliori ed il proprio talento di pubblicista.

"Lo Sperimentale" è dedicato quasi esclusivamente alla discussione ed alla propaganda del progetto di colonia socialista anarchica, mediante la pubblicazione di articoli redatti oltre che dallo stesso Rossi, anche da Turati, Candelabri e Gnocchi Viani. Gli intenti del nuovo periodico diretto e scritto in buona parte dallo stesso Rossi, sono resi espliciti dall'editoriale del primo numero:

"Lasciando in seconda linea la critica del presente e la glorificazione dell'avvenire, ci applicheremo a dimostrare con l'esame dei fatti e con l'esperimento che questo avvenire è possibile. Per dare questa dimostrazione ci serviremo dei fatti avvenuti e di quelli che avvengono, non solo, ne provocheremo anche. Descriveremo e commenteremo tutti gli esempi di vita comunistica che ci presenta la storia; procureremo corrispondenze dalle attuali colonie comuniste, studieremo quel tanto di comunismo che esiste nelle istituzioni moderne (…) solleciteremo i nostri compagni di ogni città e di ogni borgata a raccogliersi in vita comune, onde dimostrare coi fatti che se una comunanza povera è possibile fra gli sfruttati della società moderna, a maggior ragione sarà possibile quando nell'armonia e nella giustizia economica il rispetto per l'altrui personalità non sarà contraccambiato con un oltraggio alla personalità propria. (…) Insomma propugneremo la fondazione in Italia di un gruppo modello, o colonia socialista sperimentale, nel quale siano possibili su più vasta scala i tentativi e le prove di una nuova vita sociale".

I cinque numeri del giornale (l'ultimo porta la data del febbraio 1887) riportano scrupolosamente anche le adesioni al progetto e le offerte per la sua prosecuzione. Ma dall'ultimo elenco si evince come le adesioni formali e le circa 2150 lire raccolte non siano certo sufficienti.

Nel frattempo, siamo nel 1887, a soccorrere l'idea del Rossi è un ex deputato cremonese, Giuseppe Mori, seguace del Mazzini, che dopo aver letto alcuni articoli dell'anarchico, intesse una ricca corrispondenza collo stesso, unitamente al deputato Leonida Bissolati. C'è in questi mesi la graduale convergenza del Rossi alle tesi della cooperazione come momento intermedio fra il capitalismo e la comunarietà totale, ed è per questa sorta di progetto intermedio, preludio al collettivismo vero e proprio, che l'anarchico pisano accetta di trasferirsi a Stagno Lombardo, nel cremonese, presso i poderi della cascina Cittadella di proprietà del Mori.

L'11 novembre 1887 a Cittadella si costituisce così la Associazione Agricola Cooperativa Cittadella per gestire i circa 120 ettari di campagna e un agglomerato di una ventina di case contadine e stalle con un piccolo asilo infantile, ceduti in affitto dal proprietario. Dallo statuto emesso quella stessa data si evince come le decisioni vengono demandate all'assemblea generale dei soci, ove anche alle donne è concesso diritto di voto. La remunerazione del lavoro è suddivisa per categorie, secondo la quantità e la responsabilità rivestita. Infine una commissione tecnica, formata da un socio, da un rappresentante della proprietà e dal segretario Rossi, si riunisce giornalmente per suddividere compiti e obiettivi, redigere bilanci e frazionare gli utili eventuali.

Ma alla novità dell'Associazione cooperativistica si contrappongono anche difficoltà che il Rossi coglie prontamente. Sembrano ancora lontani i tempi della intelligente accettazione della modernità, sia in campo sociale che prettamente tecnico-scientifico: lo scontro è con una arretratezza culturale, un antindustrialismo primitivo, un panorama arcaico della pianura padana. Di quei primi tentativi ci ricorda come

"Concimi chimici, impiego dell'aratro fisso nelle coltivazioni di mais, trattamento delle viti col solfato contro la peronospora, sgranatura meccanica del mais, centrifugazione del latte per la produzione del burro (…) ecc., mi sono costati discussioni e dispiaceri a non finire. Si procedeva all'esperimento col desiderio di vederlo fallire".

Durante questi mesi a Cittadella il Rossi continua nel suo incessante prodigarsi per la propaganda per la diffusione di colonie agricole sperimentali. L'11 dicembre 1888 dà il via alla "Unione lavoratrice per la colonizzazione sociale in Italia", avente come scopo la promozione di colonie in Italia. Con questa Unione cerca di istituire un esperimento a Torricella di Sissa (provincia di Parma), contattando i contadini del luogo e contribuendo con somme in denaro, ed un suo altro esperimento prende il via anche in provincia di Padova, entrambi per la verità con scarsa fortuna, se non quella di convincere poi alcuni di questi contadini a seguirlo in terra brasiliana.

Ma una comunità collettivista socialista è un'altra cosa rispetto alla cooperativa. Ben lo sa il Rossi, che on ha di certo abbandonato l'antico progetto, lamentandosi come a Cittadella

"le persone sono sane, intelligenti e buone, sono intelligenti ma imbevute ancora da pregiudizi religiosi e sociali (…) Qui hanno socializzato il lavoro -ed è moltissimo- ma non hanno voluto ancora socializzare gli interessi e la convivenza".

L'occasione si presenta nella stessa tenuta di Cittadella, quando nella primavera del 1889, alla partenza di alcune famiglie di contadini e con lo scioglimento della cooperativa, il Rossi chiama accanto a sé due nuclei famigliari e alcuni giovani socialisti, decisi insieme a lui a tentare realmente quel progetto. Sedici persone, Rossi compreso, che lavorano sodo e dove casa, beni e guadagno sono posti in comune.

Una struttura semplice, che vuol sperimentare sul campo la possibilità di una distribuzione davvero egalitaria degli utili (e non per categorie come all'Associazione precedente), ove le spese sono decise in comunità, con la casa affidata alle donne a rotazione e le cui pareti sono tappezzate dai ritratti dei socialisti di tutto il mondo. E' un progetto che subito incontra la diffidenza degli altri contadini rimasti a Cittadella a far parte della prima Associazione Agricola, e che non mancano occasione nell'ostacolare i sedici appartenenti alla comunità.

La possibilità quindi di estendere a tutta la Associazione di Cittadella l'esperimento compiuto dal piccolo nucleo anarchico naufraga miseramente. E' la dimostrazione, secondo il Rossi, che l'esperimento è forse meglio riproducibile fuori dai condizionamenti della società italiana del tempo, replicabile per ora in terre vergini, prive dei retaggi del passato sociale. Non a caso quindi decide di approfondire immediatamente la possibilità di aderire ad una delle due colonie fondate nel frattempo nell'America del Nord, Kaweah in California e Sinaloa in Messico. Già si profila nei disegni della mente del Rossi anche la possibilità di fondare una colonia in Uruguay, ma è una strana coincidenza a rivoluzionare programmi e ridare speranze al veterinario pisano.

La concessione in affitto di un vasto territorio sito nello stato del Paranà da parte delle autorità brasiliane, in circostanze non ancora chiare ma ormai sconfinate nella leggenda (incontro con Pedro II a Milano, ecc.) riapre le speranze dell'anarchico. Dopo aver condotto una rapida campagna per la raccolta di fondi e avuta l'adesione di alcuni simpatizzanti al progetto (Turati e Bissolati in testa), il Rossi si imbarca a Genova il 20 febbraio 1890 alla volta del Brasile, per fondare la sospirata Colonia Cecilia, che diverrà realtà nei pressi della municipalità di Palmeiras, a pochi chilometri dalla capitale Curitiba.

L'esperienza comunitaria della Colonia Cecilia viene analizzata da Giovanni Rossi nello scritto "Cecilia, comunità anarchica sperimentale", edito unitamente alla nuova edizione del suo "Comune socialista" nel 1891 (recentemente ristampato dalla Serantini a Pisa), oltre che nell'opuscolo "Un episodio d'amore nella Colonia Cecilia", pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nell'anno 1893 e successivamente edito anche in altri paesi. Qui il Rossi teorizza quelli che saranno i grandi nodi della società del XX secolo: i pericoli di un socialismo oggi definito "reale", la questione famigliare, il problema del femminismo e della parità tra i sessi sono da lui affrontati in modo coraggioso e pionieristico già in quegli anni.

Più recentemente, Affonso Schmidt nel 1942 e Stadler de Sousa nel 1971, con due opere edite nello stato brasiliano, hanno ricostruito con dovizia di fonti archivistiche e di altra natura, fonti orali comprese, la storia della Colonia Cecilia, mettendone in evidenza la particolarità e l'importanza rivestita all'interno delle vicende socio-politiche di quella nazione. Ricostruzioni che sconfinano spesso però nella fantasia, forse più affascinati gli autori dalla vita di questo "filosofo, agronomo e musico" che non dal suo spessore politico, in una vicenda che andò ben al di là della semplice "fantasiosa comunidade de paz e libertade de un turbolento anarquista". La pubblicistica brasiliana si è andata arricchendo soprattutto in occasione del centenario della Colonia Cecilia: più interessante e scientificamente accettabile l'opera edita nel 1997 da Candido de Mello Neto, che ha recuperato le memorie dei discendenti e preziosa documentazione locale.

Per riepilogare vicende e significati dell'esperienza della Colonia Cecilia non bastano certo pochi minuti. Da quella vecchia baracca nel centro dell'altipiano presso Palmeiras abbandonata da coloni tedeschi precedentemente stanziatisi, i coloni diedero il via ad un duro lavoro. Campi da dissodare, canali da scavare e ripari da costruire attendevano il sudore di chi, come si esprimeva Rossi nei suoi ricordi,

"per reazione naturale al formalismo sterile e funesto del periodo passato, volle essere assolutamente inorganizzato, con nessun patto scritto, nessun regolamento, nessun orario, nessuna carica sociale, nessuna delegazione di poteri, nessuna norma fissa di vita e di lavoro".

Una vita difficile, che non impedì comunque ai coloni, aumentati a più riprese sino a 240, in maggioranza lombardi e toscani, di realizzare un piccolo villaggio (chiamato naturalmente Anarchia), un mulino con forno annesso, piccoli laboratori artigianali, mentre dall'alto del palmizio sventolava la bandiera nero rossa della colonia anarchica. Ma come già accaduto a Cittadella, fragilità umana e l'infiltrazione di alcuni coloni male intenzionati, fecero arenare l'armonia della colonia dopo un anno di vita. Vorrei qui solamente riportare le stese parole del Rossi, riprese da una sua lettera tuttora inedita e qui presentata -insieme ad altre- per la prima volta, che così giudica quella breve prima esperienza della Cecilia:

"La brava gente di Cecilia ha scritto per giustificare la sua diserzione dalla Colonia. Non è vero che la crisi sia avvenuta per la miseria, perché i conti si sono chiusi in pari, saldando tutti i debiti, senza contare il bestiame (per il valore di un migliaio di lire), del quale si è abusivamente ma legalmente impadronito il gruppo delle prime famiglie venute (…) E' vero che la famiglia Dondelli si era imposta e spadroneggiava, ma i cecinesi con gli altri, invece di eliminarla, la idolatravano. E' vero che qualcuno ha mangiato a strippapelle e ha fatto provviste di alimenti per due o tre giorni.(…) E' vero che su gli ultimi giorni hanno, qualche giorno, sofferto la fame, ma non perché mancassero i mezzi. Ma perché l'indispensabile Dondelli non prevedeva in tempo gli acquisti, perché le piogge avevano guastato il molino e fino perché le donne si rifiutavano di pulire gli attrezzi di cucina e gli uomini si rifiutavano di portare l'acqua per mettere la polenta. La prova che la colpa fu dei coloni e non della Cecilia. (…) E' vero che in febbraio il bestiame distrusse le coltivazioni (il granturco e i fagioli in erba) per trascuratezza dei primi coloni che non fecero steccati robusti e non sorvegliarono come necessario la piantagione (…) ma è anche vero che avrebbero potuto vivere benissimo (sottolineato nell'originale, ndr) col sussidio straordinario e col sussidio giornaliero."

Ma non tutti i coloni decidono di abbandonare. Un nucleo di pochi elementi, 5 italiani e due giovani francesi, resta a continuare nell'esperimento insieme al mai domo Rossi, che con immutato entusiasmo scrive della rimasta colonia Cecilia:

"Nessun patto, né verbale né scritto fu stabilito. Nessun regolamento, nessun orario, nessuna carica sociale, nessuna delegazione di poteri, nessuna norma fissa di vita o di lavoro. La voce di uno qualunque dava la sveglia agli altri; le necessità tecniche del lavoro, palesi a tutti ci chiamavano all'opera, ora divisi ora uniti; l'appetito ci chiamava ai pasti, il sonno al riposo".

La vita della nuova Colonia è narrata sin nei minimi particolari dallo stesso Rossi e dalle ricerche dei citati autori brasiliani. Anche in questo caso mi sembra qui opportuno però utilizzare le stesse parole del Rossi, anche in questo caso ricavate da lettere tuttora inedite. Del nuovo gruppo l'anarchico ricorda

"procede in modo soddisfacente, quantunque potrebbe e dovrebbe andare meglio in quanto ad attività sul lavoro. Bisogna però riflettere che quasi nessuno di noi era agricoltore. Ciò non ostante ci siamo impegnati e ritengo che abbiamo assicurato un buon raccolto per l'anno prossimo. (…) Siamo dieci uomini, 3 donne e 6 bambini. Verso la metà di novembre arriveranno 20 famiglie coloniche ed agricole di Torricella che, dato il necessario scarto dopo un poco di prova, spero rinforzeranno la colonia e per il numero e per la capacità tecnica".

E a distanza di oltre un anno, un'altra lettera del Rossi ricorda

"Siamo ora tutta gente buona, onesta ed operosa; i nostri lavori agricoli progrediscono e le industrie del bottaio e della calzoleria ci danno da vivere. I visitatori restano gradevolmente sorpresi dalla nostra attività, dei progressi che facciamo, delle utili innovazioni che portiamo nella coltivazione della terra, della nostra fraterna organizzazione sociale, del modo cortese col quale accogliamo tutti".

Ma Cecilia dovette come ricordato, fare i conti con le difficoltà imposte dalla vita dura, con le miserie umane, con le gelosie e le invidie che divisero i vecchi dai nuovi arrivati: aspre discussioni ed allontanamenti, la guerriglia che infestava la neonata repubblica brasiliana nata dalle ceneri dell'impero di Pedro II e che distrusse più volte i raccolti, la fuga del cassiere con il denaro delle entrate, una epidemia di difterite, piegarono la volontà dei coloni italiani che nel marzo del 1894 decisero di sciogliere la colonia.

Lo stesso Rossi considera l'esperienza Cecilia non certo alla stregua di un fallimento: fra le sperimentazioni effettuate, accanto alla collettivizzazione dei beni, la pratica dello scambio e un mercato interno non regolato dalla moneta, il tentativo non solo teorico del "libero amore", narrato ed analizzato dallo stesso Rossi più tardi nel citato scritto che desterà le ammirazioni di molti anarchici ma anche le ire di Kropotkin.

Resta comunque, al di là di giudizi più o meno critici su Cecilia, la pratica attuazione del nuovo modello sociale sempre teorizzato ma mai attuato, l'aver provato, come ricorda il suo fondatore, "il sapersi uomini liberi ed eguali, l'aver provato una vita in comune che abitua di più alla comprensione delle nostre debolezze umane".

Gli archivi brasiliani hanno mostrato quanto la figura di Giovanni Rossi appaia importante anche nella storia economica recente dello stato di Santa Caterina. Dopo l'esperienza della Colonia Cecilia, Giovanni Rossi, grazie all'amicizia che lo legava al rivoluzionario Hercilio Luz, assunse l'incarico di direttore della Stazione Agronomica della città di Taquary (Rio Grande do Sul), e di professore associato alla locale scuola tecnica.

Da qui passò dopo alcuni anni alla direzione della nuova Stazione Agronomica di Rio dos Cedros, nei pressi di Blumenau nello stato di Santa Caterina, nominato con risoluzione statale del 27 settembre 1898 e dove risiederà per alcuni anni. In questa piccola località, popolata come le vicine Rodeio e Ascurra in massima parte da coloni italiani, avvolta da una lussureggiante vegetazione lungo la vallata del fiume Itajai, il Rossi svolgerà un lavoro coerente con i suoi propositi libertari. Accanto all'occupazione di responsabile tecnico nella stazione agricola, ove sperimentava nuove colture -porterà qui per la prima volta piante come l'olivo e il tabacco- o acquistando sementi dall'Italia e commercializzando i prodotti anche fuori dallo stato, il Rossi continuava a rimanere legato agli ideali che avevano animato tutta la sua vita.

La presenza e l'attività del Rossi a Rio dos Cedros vengono tenute costantemente sotto controllo anche dalla polizia locale, allertata dalla Legazione Italiana di Rio de Janeiro, a cui, da Roma, il Ministero dell'Interno richiedeva, a intervalli regolari, resoconti dettagliati. Le autorità italiana, a distanza di oltre 12 anni dalla partenza per il Brasile di Rossi, vedevano ancora in lui un elemento pericoloso per l'ordine sociale, ritenendolo potenziale organizzatore di disordini e complotti.

L'impegno del Rossi, che a Rio dos Cedros teneva due volte la settimana una sorta di scuola agricola, unitamente ai positivi risultati delle sperimentazioni agricole, fecero sì che egli guadagnasse la stima di tutta la popolazione italiana di queste colonie e della stessa città di Blumenau. Una stima confermata dall'incarico ufficiale affidatogli in occasione del Cinquantenario della fondazione di Blumeanu, festeggiato nell'anno 1900, per la stesura del testo e della storia italiana di questa cittadina, da inserire nel libro commemorativo accanto alle testimonianze di altri illustri cittadini locali delle diverse etnie.

In quell'occasione -che coincideva anche col 25mo della presenza italiana nella valle dell'Itajai- il Rossi ricostruì con dovizia di particolari, suggeritigli dai primi coloni trentini giunti quaggiù, la storia dell'immigrazione italiana a Blumenau e nello stato del Paranà. L'anarchico pisano non rinuncia comunque in alcuni passaggi di quel volume a mettere in chiaro il proprio pensiero. Le parole scritte in quella occasione sono dure ed inequivocabili e crearono sicuramente un certo scompiglio fra i tranquilli abitanti di Blumenau. Parlando del fenomeno immigratorio e del costante flusso di trentini e lombardi verso queste regioni, il Rossi rammentava come

"la scarsità di istruzione, questo stretto limite nell'orizzonte dei conoscimenti umani non è imputabile a loro, ma all'insieme delle condizioni sociali e politiche nelle quali son cresciuti. L'economia piccolo proprietaria e grande capitalistica conserva gli operai d'Europa e specialmente quelli d'Italia in tali strettezze finanziarie tutt'altro che favorevoli allo svilupparsi della cultura intellettuale (…) il governo favoriva l'influenza clericale, alleata sicura negli intenti reazionari e così l'istruzione circoscrivevasi alle prime lettere e all'insegnamento catechistico (…) Nessuna meraviglia dunque che nella casa del colono, dell'artigiano o del negoziante di origine italiana, salvo rarissime eccezioni, non si incontri un giornale politico, né una rivista letteraria, né un libro di scienze positive o di agricoltura. (…) Nessuna meraviglia che il programma didattico nelle scuole coloniali sia:leggere, scrivere, prime operazioni, catechismo e storia sacra. Storia civile, geografia, matematiche, scienze fisiche e naturali, agricoltura, igiene, eccetera, sono superfluità pericolose. E così le giovani generazioni ignorano il mondo fisico, sociale e intellettuale che pure esiste al di là delle loro vallate".

Parole chiare ed accuse gravi formulate dall'illuminista Rossi, che lo confinarono certamente nella schiera dei denigratori della madre patria. Restava comunque sul tappeto per il Rossi, la questione sociale, di cui ammetteva, in Brasile giungeva solamente "un fremito confuso". Ma poteva essere il Brasile un terreno vergine per una mai trovata armonia, se già anche qui non si preparassero le condizioni europee di questa lotta. Per il Rossi infatti

"La questione sociale desta tra di noi poco o nessun interesse, da una parte per pigrizia intellettuale che considera volentieri l'attuale ordine di cose come in equilibrio stabile, permanente e immutabile, dall'altra perché si crede che la questione sociale non esista e non possa esistere qui, dove è ancora facile al lavoratore l'acquisto della proprietà fondiaria".

Ma, avvertitivi il Rossi mostrando si saper veder oltre,

"i contraccolpi delle crisi economiche che il regime capitalista scatena nel mondo (…) son d'avanzo perché lo svolgere della questione sociale meriti almeno un certo interessamento. E noi, abitanti di paesi nuovi, prima di tutto soffriamo la ripercussione dei drammi finanziari che si svolgono a Londra, a Parigi, a New York".

Parole di pietra, che disegnavano già allora il Brasile di oggi.

Anche a Rio dos Cedros, l'agronomo italiano tentò in ogni modo di mettere in pratica le idee collettiviste esposte a più riprese su riviste e opuscoli: fondò una cooperativa agricola fra i coloni italiani, mediandone e favorendone l'esportazione dei prodotti, principalmente tabacco, col governo italiano. A questa cooperativa seguirà la fondazione della cooperativa agricola di Ascurra, avvenuta il Primo Maggio 1905, una data significativa anche in questa terra lontana.

Le carte dell'archivio brasiliano mostrano la quotidianità di questa permanenza e dell'impegno in Santa Caterina profuso dal Rossi: duro lavoro presso la stazione agronomica, con l'introduzione di nuove coltivazioni ed i tentativi condotti nel cercare di esportare con continuità il tabacco prodotto verso l'Italia, grazie alla sua mediazione e all'amicizia che lo legava al deputato cremonese Bissolati. La "Società del Tabacco" in Rio dos Cedros, fondata nel 1893, conobbe in coincidenza con la permanenza del Rossi, notevole impulso. Al suo arrivo venne costituita al suo interno una cooperativa a cui aderirono 19 coloni italiani, mentre le aderenze del Rossi permisero una proficua collaborazione col nuovo console italiano in Santa Caterina, Gherardo Pio di Savoia, membro della casa reale italiana, che concesse alla Società del Tabacco un'udienza privata, sfociata successivamente nel primo imbarco di 10 balle di tabacco, destinazione Roma.

L'avvenuto trasferimento della Stazione Agronomica nei pressi di Florianapolis, decretata dal governatore dello stato nel 1904, solleva almeno momentaneamente il Rossi, che ritrova slancio e vigore per dare il via a nuove iniziative, Fra queste la costituzione della "Sociedade Catarinense de Agricoltura". Fra le iniziative della Sociedade l'edizione del periodico intitolato "Revista Agricola", diretta ed animata dallo stesso Rossi, che firmerà buona parte degli articoli comparsi nei suoi primi numeri.

Le lettere inviate dal veterinario al governo centrale mostrano l'immutato vigore con cui il Rossi si batte all'interno della struttura per dare slancio a respiro all'agricoltura locale. La richiesta di libri di tecnica agraria, le pressioni esercitate verso i deputati catarinensi del parlamento nazionale, le lettere inviate e ricevute dall'Italia ove tentava di piazzare i prodotti dello stato brasiliano, la documentazione dei frequenti spostamenti compiuti per visitare fattorie, portare consigli e aiuti, restano a testimoniare di una vita spesa per il progresso di queste regioni.

Il richiamo della madre patria diviene ogni giorno più insistente. Il 28 febbraio 1907 il governo di Santa Caterina concede al direttore della Stazione Agronomica 3 mesi di licenza, per motivi di salute. Il 4 aprile dello stesso anno Giovanni Rossi, con la compagna Adele e le piccole figlie salpa dal porto di Florianopolis per non fare più ritorno nell'amato Brasile: destinazione Italia, dopo 17 lunghi e indimenticabili anni. In realtà l'anarchico pisano resta in stretto contatto con le autorità dello stato e della città di Florianopolis. Nelle sue lettere inviate in Brasile fra il 1907 e il 1909 traspare l'impegno profuso per favorire l'esportazione dei prodotti agricoli catarinensi sui mercati europei, soprattutto il tabacco e lo matè, mentre vengono inviati in Brasile semi e utensili per l'allevamento dei bachi da seta, invio reso possibile attraverso il suo interessamento presso alcune aziende italiane.

Giunto in Italia il Rossi trascorre alcuni anni nella regione ligure, come direttore del "Vivaio Cooperativo Ligure" di Sanremo. Un'occupazione che favorisce l'indole sperimentale dell'agronomo toscano, lasciando tempo per redigere memorie e osservazioni circa la sua esperienza brasiliana. Nel 1908 esce a Firenze l'opuscolo "Agricoltura primitiva negli Stati Meridionali del Basile", scritto dal Rossi che non dimentica di sottoscriversi, oltre che direttore del Vivaio Cooperativo ligure anche come "professore presso la Scuola Superiore di Agronomia in Taquari", Rio Grande do Sul e Direttore della Stazione Agraria dello stato di Santa c
Caterina".

Rossi torna finalmente nella sua città natale a Pisa nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Lasciata in pratica la politica, il Rossi si dedicherà all'agricoltura presso il proprio podere di Montescudaio, ma le ristrettezze economiche imposte dalla guerra lo costringeranno ad accettare una supplenza veterinaria presso Cotogno, ove insegnerà anche presso il locale istituto tecnico. E' di questi anni il suo ultimo intervento sul giornale "Università Popolare", in cui spiegherà, trent'anni dopo, il suo punto di vista sulle colonie sperimentali e sulla "Cecilia" in particolare.

L'avvento del regime fascista trova Giovanni Rossi ormai stanco ed invecchiato, tanto da evitare qualsiasi schieramento, se non sporadiche partecipazioni all'estremo saluto di amici anarchici. Di lui, nel territorio brasiliano resta il ricordo vivido di quel "filosofo, sonhador, poeta, pioneiro da Colonia Cecilia, agronomo, escritor, pai de família, uma das personalidades estrangeiras mais interessantes do Brasil".

Morirà a Pisa, all'età di 87 anni, il 9 gennaio 1943.