Federalizzazione e devolution in Italia: il progetto del Polo e quello della "sinistra".

Dall’attuazione dell’ordinamento regionale al progetto di riforma del titolo v della Costituzione
La riforma della Costituzione attuata per via ordinaria

L'immissione dell'Italia nel circuito dell'Unione Europea e lo sviluppo delle aree del nord est del paese, il depauperamento delle aree di vecchia industrializzazione hanno creato le basi materiali per ipotizzare una macro regione che racchiude il nord del paese da inserire in modo organico nel nodo di sviluppo centro europeo. Ciò ha fatto si che si sviluppasse anche in Italia quel fenomeno di devolution dei poteri dello Stato centrale che caratterizza oggi in modo diverso ogni stato europeo, in ragione della sua storia istituzionale e politica, della composizione etnica, linguistica, religiosa.

Se inizialmente a farsi carico di questa esigenza del capitale in Italia è stata la Lega Nord ora il soggetto politico che dimostra avere le maggiori capacità di realizzarlo è il blocco di partiti riuniti intorno al centro-sinistra che ha mostrato di non avere bisogno della maggioranza parlamentare e del consenso nel paese per violare la Costituzione e preparare l'avvento del nuovo ordine.

 

Dall’attuazione dell’ordinamento regionale al progetto di riforma del titolo v della Costituzione.

Per sviluppare questo progetto nella strategia del centro-sinistra occorre prioritariamente agire sui poteri e i compiti attribuiti alle regioni. Va detto che il decollo delle Regioni italiane è stato tardivo (solamente agli inizi degli anni ’70) e sicuramente difficile soprattutto a causa delle spaccature tra le forze politiche che avevano dato vita alla Costituzione. La spaccatura già allora era provocata da due diverse volontà: quelle di dare attuazione al regionalismo voluto dalla Costituzione e quella di chi, scavalcando il modello costituzionale, avrebbe voluto che le regioni divenissero enti legislativi dotati di forti poteri in materie di grande importanza (quali ad esempio l’assetto del territorio, la sanità, l’assistenza) . Il fallimento della Commissione Bicamerale ha frustato le aspettative di questi ultimi che speravano che la riforma costituzionale creasse le condizioni di un rilancio delle regioni e, più in generale, del sistema delle autonomie. Da più di 30 anni c’è chi cerca di dimostrare che il titolo V della Costituzione sia insufficiente come "regola" dei rapporti tra Stato e sistema delle autonomie. Si dice che tali rapporti sono oggi, privi di una adeguata regolamentazione costituzionale, quasi interamente improntati dalla legislazione ordinaria dello Stato e della Giurisprudenza della Corte Costituzionale, ma questa "invasione" del legislatore nazionale non è un intervento dovuto alla mancanza di regole (ci sono e sono chiare!) bensì esprime la volontà di attuare un piano politico non previsto dalla Costituzione vigente. Alla fine della prima fase di attuazione dell’ordinamento regionale gli schemi costituzionali erano stati già decisamente scavalcati Il legislatore del 47 con l’art 117 della Costituzione aveva indicato chiaramente le materie in cui le regioni ordinarie avevano potestà concorrente e cioè: " l’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione, circoscrizioni comunali, polizia locale urbana rurale, fiere e mercati, beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera, istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica, musei e biblioteche di enti locali, urbanistica, turismo ed industria alberghiera, tramvie e linee automobilistiche di interesse regionale, navigazione e porti lacuali, acque minerali e termali, cave e torbiere, caccia, pesca nelle acque interne, agricoltura e foreste, artigianato, altre materie indicate da leggi costituzionali". Il costituente aveva anche stabilito che le Regioni in tali materie incontrassero di limiti che sono esplicitati nel 1° comma dell’art.117 della Costituzione ( "la Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, semprechè le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni").

Quindi il limite dei principi fondamentali comportava che le regioni non erano assolutamente libere di emanare la legislazione di competenza, ma dovevano attenersi al "quadro" normativo generale che sulle rispettive materie era disegnato dalle leggi statali. Su ciascuna materia indicata dall’art. 117 lo Stato poteva emanare leggi (dette "leggi cornice" o "leggi quadro") in cui si fissavano i principi fondamentali invalicabili, validi per tutto il territorio nazionale; poi le Regioni "avrebbero riempito la cornice", "avrebbero dipinto la tela dentro il quadro", emanando cioè, nella forma di legge regionale, disposizioni differentemente dettagliate, in base anche alle esigenze locali.

All’inizio le "cornici" di principi entro le quali la legge regionale avrebbe potuto dispiegarsinon furono individuate subito. Per questo la legge Scelba introdusse il divieto per le Regioni di legiferare nelle materia di cui all’art.117 (con eccezioni per quelle minori) prima che la legge cornice fosse stata emanata.

Anche la cosiddetta legge finanziaria del 1970, che pure abrogò il divieto introdotto dalla legge Scelba (condizionando l’esercizio della potestà legislativa regionale all’emanazione non più delle leggi cornice, ma dei decreti di trasferimento delle funzioni amministrative statali o al decorso di due anni dall’emanazione della legge n. 281), dispose che l’emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione dovesse aver luogo nei limiti dei principi fondamentali, quali risultano dalle leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti. Quindi con l’affermazione del principio introdotto dall’art 17 della 281/70 si dava via libera all’esercizio della potestà legislativa concorrente delle Regioni, senza dover previamente attendere l’emanazione delle "leggi cornice" da parte dello Stato. Prima dell’emanazione delle leggi cornice, l’intera gestione del delicato compito di individuare i principi della materia" è stato svolto dal contenzioso Stato- Regioni. Purtroppo già da questo momento è stato evidente che le Regioni cercavano di forzare le competenze loro attribuite dalla Costituzione, i rinvii erano la prassi e le mediazioni erano difficili e molto spesso ci si doveva rivolgere alla Corte Costituzionale che in ultima istanza derimeva il conflitto insorto accreditando i principi.

A partire dalla l. 22/7/1975 n. 382, il Parlamento incominciò a emanare le prime leggi cornice, in cui erano inserite molte norme di dettaglio.

Lo Stato, emanando leggi di disciplina concreta della materia, aveva lo strumento tecnico per imporre le proprie scelte alle Regioni, le cui leggi precedenti venivano ipso facto abrogate, poi, le Regioni, potevano esercitare la loro potestà legislativa, emanando nuove leggi capaci di sostituirsi alle norme di dettaglio poste dallo Stato. L’adozione delle leggi cornicedi certo rendeva più difficile la possibilità per la Regione di scavalcare le proprie competenze e per questo furono subito contestate ed avversate dalle Regioni.

C’è da aggiungere che a garanzia delle parti la legge statale non è affatto libera di indicare come principio quella o quell’altra norma: la Corte si riserva il potere di accreditare i principi, al di là di ogni qualificazione, e non può essere altrimenti, dato che la Costituzione le affida il compito di garantire le distribuzioni regionali proprio contro le invasioni perpetrate dal legislatore ordinario. Tale limite, cui soggiace il legislatore statale, è necessario se non si vuole accettare l’idea che la linea di ripartizione delle attribuzioni tra Stato e Regioni sia, non già fissata dalla Costituzione, ma liberamente modellabile dalle leggi ordinarie.

Le continue lamentele delle Regioni che vorrebbero più competenze sono poco giustificate; in questi ultimi venti anni gli sono state trasferite moltissime funzioni amministrative in materie riservate dal Costituente allo Stato (vedi il trasferimento operato con il d.P.R. 616/1977).

La funzione di indirizzo e coordinamento è stata pesantemente criticata dalle regioni nonostante la Corte cost. abbia affermato che il fondamento di tale funzione risiede in un nucleo fondamentale di principi dell’ordinamento costituzionale in cui primeggia il principio unitario sancito dall’art. 5 Cost. Tale funzione non costituisce il limite "ulteriore" dell’autonomia legislativa regionale, ma piuttosto ricopre il ruolo di pura espressione dei limiti costituzionali prefissati, con i quali sta in rapporto di "essenziale strumentalità".La funzione, limita sia l’attività amministrativa che la legislazione regionale. Questo spiega l’attenzione della Corte per i requisiti formali dell’atto di indirizzo e coordinamento. A garanzia del rispetto delle competenze regionali la Corte giudicherà se tali atti governativi sono legittimi, formulando un giudizio di "bilanciamento fra gli interessi contrapposti", basato sul criterio di ragionevolezza: la Corte esaminerà le prescrizioni di questi atti per valutare se e in quale misura corrispondono ad "interessi unitari non frazionabili", che porzione di autonomia essi lascino al legislatore regionale, in che misura essi corrispondono al principio di leale cooperazione, ecc.

Altro requisito di validità è il rispetto del principio di legalità sostanziale, essi infatti devono fondarsi su una specifica previsione di legge, che deve indicare anche i criteri guida per l’esercizio dei poteri attribuiti, in quanto spetta al legislatore individuare le esigenze unitarie. Di frequente accade che la Corte sia già stata chiamata in sede di giudizio di legittimità a dichiarare se la previsione legislativa possa essere fondamento legislativo sufficiente per emanare l’atto governativo, cosicché nell’eventuale conflitto di attribuzione, applicherà il suo precedente specifico.La forma dell’atto è quella, di regola, della delibera del Consiglio dei Ministri (la Corte richiama spesso tale requisito come motivo di dichiarazione di illegittimità oltre che dell’atto governativo anche della legge istitutiva).

Le Regioni sembrano oggi ritenere che se nell’opera di "sfondamento" delle competenze statali prevalesse un disegno organico e coerente che osasse innovare molte scelte della legislazione attuale, forse la Corte non avrebbe motivo di censurare le leggi regionali e di farle adeguare ai rilievi governativi . A loro avviso è compito del legislatore regionale produrre innovazioni legislative intelligenti che possano essere migliori di principi ormai invecchiati, ciò va fatto a prescindere dalle leggi cornice di 20 anni fa che sono oggi sorpassate, svaporate. Insomma leggi regionali forti e coerenti capaci di superare le censure del Governo e quelle della Corte Costituzionale.

Il problema è che le Regioni vogliono realizzare un progetto politico che nella Costituzione non è permesso e, invece di attendere le riforme costituzionali, hanno pensato bene di servirsi di una tecnica molto più veloce ma indubbiamente alquanto pericolosa. Essa consiste nell’interpretare le norme costituzionali e nel forzarle fino al punto di "voler vedere" in esse cose che realmente non sono scritte. Tal modo di operare è certamente rischioso sul piano del diritto, perché mina la base delle istituzioni e della legittimazione aggirando la Costituzione e rendendo possibile una "riforma della Costituzione a Costituzione invariata".

 

La riforma della Costituzione attuata per via ordinaria

Ma è poi vero che la Costituzione non è stata variata. La nostra tesi è che la Costituzione è stata modificata sia attraverso la legge ordinaria, ricorrendo ad una legislazione diffusa e a cascata, sia attraverso la legge costituzionale n. 1 del 1999 che cambia molte più cose di quando potrebbe sembrare.

Sul primo punto:

Come si è detto in altra parte, Governo e Parlamento sono riusciti ugualmente a far entrare il principio di sussidiarietà (principio proprio del federalismo) nell’ordinamento italiano utilizzando il metodo delle riforme a Costituzione invariata, cioè si è inserito il principio di sussidiarietà attraverso la legislazione ordinaria:

  1. Legge 59/1997 all’art. 4 comma 3 sancisce infatti: " I conferimenti di funzioni di cui all’art 1 e 2 avvengono nell’osservanza dei seguenti principi fondamentali: a) il principio di sussidiarietà, con l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati." Tale principio è stato ripreso e reso operativo, come vedremo, attraverso i D. Lgs attuativi, primo tra tutti il D. Lgs. 112/1998.
  2. Legge 3 agosto 1999, n. 265 ("Disposizione in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142") all’art. 2 comma 5 sancisce: " I Comuni e le Province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà. I Comuni e le Province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali".

La Bassanini I ha fatto del principio di sussidiarietà il principale motivo ispiratore del vasto e lungo processo di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia: l’ha indicata come il principio che deve ispirare i decreti delegati, le conseguenti leggi regionali di conferimento delle funzioni agli enti locali, i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse alle Regioni e agli enti locali. Vi è chi ha rilevato che l’affresco è seducente ma non troppo promettente, quando il legislatore scrive un principio in una legge, ci si dovrebbe aspettare che questo principio opererà in termini normativi. Ciò vale anche per i principi, spesso generalissimi, enunciati nelle costituzioni, come il principio di eguaglianza, la laicità dello Stato o il diritto alla salute; tali principi trovano ogni giorno applicazione nelle aule giudiziarie. Ma tutto questo non vale per la sussidiarietà, anche in Germania nessun giudice ha ritenuto che la sussidiarietà potesse essere uno strumento giuridico di cui avvalersi, e in Italia ci si è posti l’interrogativo se il criterio della sussidiarietà potesse essere un parametro giuridico da invocare di fronte alla Corte costituzionale per lamentare atteggiamenti eccessivamente "centralisti" del Governo ( o delle stesse regioni nei confronti degli enti locali). E’ importante rilevare che la sussidiarietà nel Trattato di Maastricht ha un significato completamente diverso. Nel Trattato di Maastricht si utilizza la sussidiarietà con evidente finalità garantista per limitare il potere dell’Unione al posto dello Stato membro nelle competenze concorrenti; in Italia si usa la sussidiarietà in maniera inversa. Infatti qui la sussidiarietà non è vista come l’occasione per garantire alle Regioni la possibilità di esercitare i loro poteri, costituzionalmente previsti, senza subire ingerenze statali, bensì per affermare una originaria priorità della società sullo Stato. Esso dovrebbe intervenire in modo residuale, cioè solo quando le Regioni, gli enti sociali, i privati e i corpi sociali organizzati non avessero la capacità di risolvere i problemi e le loro specifiche esigenze. Appoggiare questa interpretazione della sussidiarietà significa affermare un diritto di precedenza delle Regioni e degli enti locali sullo Stato e riconoscere che le comunità o i gruppi sociali possono svolgere un intervento su piani e livelli originariamente riservati alla gestione dello Stato(come scuola, sanità, ecc.) con diritto e dignità di soggetti pubblici. Possiamo concludere che la sussidiarietà che si vuole "far entrare" in Italia è una evidente forzatura di quella proposta nel Trattato di Maastricht, è un attacco senza precedenti ai valori proposti dal dettato costituzionale che si tentano di "disarticolare" attraverso la progressiva attuazione di atti legislativi incostituzionali. Se si guarda alla proposta formulata durante i lavori della Bicamerale o ancor più alle leggi e ai provvedimenti citati si nota che si adotta la formulazione cattolica di sussidiarietà privilegiando l’azione delle formazioni sociali e poi dei comuni delle province delle regioni per lasciare allo Stato le attività "residuali" che le altre entità non riescono a svolgere a causa della carenza di risorse o degli ambiti di azione limitati. Si va così al di là di quanto previsto in Costituzione nella direzione di un "federalismo forte" del tutto estraneo al vigente profilo di stato per come emerge dal nostro ordinamento.

Sul secondo punto:

La modifica del capo 5 sella Costituzione la dove introduce l'elezione diretta del presidente della Regione, lo dota del potere di nominare la giunta regionale e conferisce alle regioni il potere di darsi nuovi statuti senza che essi possano essere sottoposti al vaglio del commissario di governo trasforma di fatto tutte le regioni in regioni a statuto speciale, dotate di una propria "Costituzione" e pone le premesse di un disordine istituzionale che apre la strada a nuovi inevitabili interventi razionalizzatori. Se il processo di riforma sembra registrare oggi una battuta d'arresto a causa del mutamento di maggioranza all'interno della conferenza Stato-regioni e delle cresciute richieste del Polo in materia di trasferimenti per i settori dell'istruzione e della sanità il processo è destinato certamente a ripartire dopo le elezioni politiche nazionali che si svolgeranno il prossimo anno, subendo una forte accelerazione.

L'analisi del punto e delle conseguenze va definita in sede di dibattito politico generale, più che nella fase della definizione della strategia sindacale. Quel che qui serve sottolineare che è che il processo di federalizzazione apre comunque la strada a una contrattazione sindacale decentrata a livello regionale, produce effetti sulla struttura delle stesse OO. SS., mina definitivamente il ruolo e la funzione del CCNL, fa crescere il ruolo della contrattazione aziendale, frammenta gli stati giuridici, contrattuali, le garanzie legislative delle prestazioni di lavoro.. Il ruolo dello Stato centrale e dei poteri locali in materia di contrattazione va interamente ripensato.