ISRAELE/PALESTINA NON E’ UN BEL POSTO IN CUI VIVERCI... E’ ZONA DI GUERRA!

di Ilan Shalif, del collettivo comunista libertario israeliano Matzpen

 

In quest’area si è sviluppato gradualmente un progetto, definibile come sionista, che è iniziato circa 120 anni fa col sostegno delle potenze occidentali e che di queste ha cercato di copiare il modello statuale nelle colonie. Questo progetto presupponeva l’immigrazione nell’area di Ebrei provenienti da tutto il mondo, soprattutto dai paesi meno sviluppati, e di conseguenza l’espulsione della popolazione indigena, cioè i Palestinesi.

Nonostante tutti gli sforzi del potere sionista, nonostante il sostegno dell’imperialismo, dopo tutti questi anni, nei territori il numero dei Palestinesi è ancora maggiore dei 5 milioni di Ebrei. In seguito agli accordi firmati alla fine della guerra del 1948, Israele non ha potuto liberarsi di tutti i Palestinesi residenti nei Territori allora occupati, e la cosa non gli è riuscita nemmeno dopo la guerra del 1967. Circa 1 milione di Palestinesi vivono come cittadini israeliani di serie B; un altro milione e mezzo vive nella stretta striscia di Gaza occupata nel 1967; circa altri 2 milioni e più vivono sulla riva ovest del Giordano, ugualmente occupata nel 1967; ancora altri 2 milioni e oltre vivono sulla riva est del Giordano (nel regno di Giordania); ed infine più di mezzo milione di loro sta nei campi profughi di Libano e Siria.

Ancora oggi la maggioranza degli Israeliani è e rimane sionista e sogna la grande Israele. Alcuni sognano di tornare ai confini di cui si parla nella Bibbia, che includevano la riva orientale del Giordano e le alture del Golan…, ma la maggioranza si accontenta di sognare "solo" confini che includano la riva ovest del Giordano, naturalmente…..senza i Palestinesi.

E prima della pace con l’Egitto, c’era tra loro chi addirittura sognava confini fino alla penisola del Sinai! Anche se con l’amaro in bocca, la maggioranza degli Israeliani è disponibile ad un "doloroso compromesso", che preveda uguali diritti per quei Palestinesi che sono cittadini israeliani, ma senza tornare ai confini precedenti al 1967; un compromesso che non preveda alcuna responsabilità per il problema dei profughi (che risale alla guerra del 1948), né un accordo per uno stato palestinese sovrano ed indipendente da qualsiasi autorità israeliana.

Gli accordi di Oslo avevano per Israele una duplice finalità: quella di incentivare e garantire il diritto al ritorno della leadership palestinese dall’estero, e quella poi di affidarle una certa autonomia di governo insieme alla èlite rimasta nei territori occupati, al fine di spegnere le fiamme della rivolta all’interno della parte di Palestina occupata nel 1967.

Ma la strategia delle potenze imperialiste non aveva fatto i conti con l’aumento della resistenza palestinese e con il diffondersi globale del fondamentalismo islamico.

Con gli accordi di Oslo si intendeva fare dello stato palestinese una sorta di neo-colonia dei capitalisti israeliani, dove trovare forza lavoro a basso costo ed un mercato succube. Si supponeva quindi che si sarebbero fermati i progetti di insediamento di coloni israeliani nei territori palestinesi occupati. Certo è che gli accordi di Oslo avevano promesso più di quanto si volesse realizzare, ed infatti Israele li ha applicati con le pressioni economiche e la soppressione della libertà di movimento, proprio al fine di ottenere ulteriori concessioni dai Palestinesi in vista di un qualche accordo definitivo. Il rifiuto di Israele a rispettare gli accordi nei tempi previsti e le sue condizioni per una definitiva risoluzione del conflitto ha fatto sì che l’élite palestinese non potesse reggere un simile accordo e così nell’ottobre 2000 è iniziata la seconda Intifada.

In questi 18 mesi, Israele ha aumentato costantemente la pressione sui Palestinesi e sui loro leaders nei territori occupati. Ha poi percepito che non potendo costringere i Palestinesi ad accettare le sue condizioni per un accordo, occorreva un salto di qualità sia sul piano militare che su quello politico. Ma Israele è pure consapevole che una lunga durata dell’attuale situazione deve fare i conti con 2 principali processi interni, che alimentano sentimenti di opposizione alla guerra. Il primo fattore è la divisione esistente all’interno della élite israeliana tra il vecchio potere sionista ed un emergente capitalismo che soffre il declino dell’economia a causa della guerra. L’industria del turismo è in pieno collasso. I mercati dove collocare i prodotti israeliani si sono ridotti a quello interno, i territori occupati ed i paesi arabi confinanti. Il "bonus per la pace" per i capitalisti israeliani sta lentamente riducendo i suoi effetti. I contatti commerciali soffrono dello scarso movimento delle esportazioni a causa della mancanza di commesse. La guerra nei territori sta sopprimendo centinaia di Palestinesi, con una conseguente riduzione di forza lavoro a basso costo.

Il secondo fattore è il crescente stato di insoddisfazione della working class. Il tasso di disoccupazione sia tra gli Ebrei (10%) che tra i Palestinesi d’Israele (20%) è cresciuto negli ultimi anni in seguito ai processi neoliberisti di globalizzazione (riduzione delle tariffe, delocalizzazione di lavoro industriale intensivo, più del 10% di lavoratori formalmente impiegati da agenzie interinali), nonostante un gigantesco numero di altri "lavoratori ospiti" a basso costo a tutto vantaggio dei capitalisti israeliani. L’effetto della rivolta palestinese sulla crisi economica israeliana è quindi evidente. Sullo sfondo di una generale recessione internazionale e del grave quadro economico a livello locale, il livello di terrore e di guerriglia portato dalla resistenza palestinese è tale da rendere la vita quotidiana di molti israeliani insopportabile. Il fatto che nonostante le violente rappresaglie di Israele, la rivolta palestinese continui, fa sorgere qualche dubbio nella gente sulla linea del governo a tutti i livelli.

La natura pluralistica degli Ebrei cittadini di Israele ed un suo recente sviluppo può essere apprezzata da questo esempio.

Il fallimento degli accordi di Oslo, a causa degli inutili sforzi di Israele per estorcere alla leadership palestinese ulteriori concessioni, ha dato origine alla seconda intifada. La rivolta dei Palestinesi si è aggiunta alla crisi economica mondiale, con serie conseguenze su Israele, e la fallimentare politica di Sharon per sottomettere i Palestinesi con i mezzi più violenti ha avuto il solo risultato di far aumentare l’intensità delle azioni di terrorismo e la guerriglia. Tutto ciò è sempre più evidente ed ha prodotto le prime forme di dissenso. Una di queste è la petizione dei riservisti che si rifiutavano di andare nei territori occupati nella guerra del 1967. Questa petizione ha avuto centinaia di adesioni di militari che si rifiutano di partecipare ad un crimine quale l’occupazione dei territori.

Le azioni terroristiche di Israele nel gennaio 2002, verificatesi in presenza di una ridotta intensità di attività di resistenza palestinese, avevano il solo scopo, raggiunto, di impedire una ripresa dei colloqui di pace. Nello stesso periodo i media israeliani avevano previsto questo comportamento di Sharon, sulla base del suo atteggiamento nei mesi precedenti. Gli Israeliani che ne avevano già qualche sospetto o che già lo avevano capito, hanno colto al volo l’occasione per far decollare l’opposizione. Sui media borghesi sono passati servizi sui crimini di guerra di Israele, e sul maggiore quotidiano borghese del paese, come pure nei supplementi del sabato, hanno cominciato a comparire gli appelli a rifiutare di farsi coinvolgere nei crimini di guerra. Quello alla diserzione arrivato in Italia non è stato il primo a circolare, ma è rimasto unico per 2 ragioni: perché è stato sottoscritto da riservisti dei reparti speciali dell’esercito e perché un terzo degli alti costi di inserzione sono stati pagati dal più famoso chirurgo di Israele. Inoltre, un’inchiesta tra i lettori ha registrato una percentuale dal 15 al 32% di sostenitori dei riservisti firmatari della petizione. Alla fine di marzo 2002, alcune migliaia di persone hanno partecipato a due grosse manifestazioni di solidarietà ai disertori e per la fine della guerra.

Ad ogni modo, gli interessi dei capitalisti israeliani e dei lavoratori israeliani a far finire questa guerra costosa non sono abbastanza influenti da oscurare gli interessi di coloro che rifiutano qualsiasi compromesso con i Palestinesi e che scommettono sull’effetto militare per un accordo più vantaggioso per Israele.

La gente continua a chiedersi quando finirà il conflitto tra i coloni sionisti che si insediano nella regione ed il popolo arabo palestinese. La vecchia soluzione di una nazione palestinese laica che offriva uguali diritti per tutti i cittadini con diritto al ritorno per i profughi delle guerre di occupazione del 1948 e del 1967 poteva risolvere il conflitto.

Lo scenario previsto dai Comunisti Libertari di Israele (sia ebrei che palestinesi) nel 1962 auspicava una rivoluzione sociale in tutto il Medio Oriente in cui venga rispettata l’autodeterminazione della classe lavoratrice di origine ebrea, perché dia il suo contributo alla rivoluzione, per sconfiggere l’espansionismo coloniale sionista, per risolvere il conflitto tra i cittadini ebrei di Israele ed i Palestinesi.

Ma l’evoluzione degli ultimi 10 anni di lotta sembra puntare verso uno scenario di pace capitalista. E ciò è dovuto sia ai mutamenti negli equilibri di potere nella regione, sia al collasso dell’URSS ed al coinvolgimento di tutta la regione nelle dinamiche del capitalismo globale. Cosa che vale soprattutto per il capitalismo israeliano, ma riguarda anche le emergenti borghesie di Egitto, Giordania, Libano e persino la Siria. La pace capitalista è condizionata dal compimento del processo di avvicendamento al potere, nella regione, delle borghesie espressioni del capitalismo più moderno, sia sul versante israeliano che su quello dei paesi limitrofi. Un fattore dominante è dato dalla crescita della potenza relativa del capitalismo classico israeliano, che ha sempre tratto vantaggio dallo sfruttamento del lavoro palestinese. Fin dall’inizio del progetto sionista, i lavoratori palestinesi hanno percepito salari pari alla metà o ad un terzo di quelli dei lavoratori ebrei organizzati. In tutti questi anni i padroni israeliani hanno quindi preferito sfruttare i palestinesi, anziché espellerli dal paese come avrebbero voluto i loro zelanti connazionali sionisti.

La privatizzazione dell’industria e dei servizi, in base alla ricetta neoliberista, ha contribuito in grande misura a diminuire il potere della vecchia èlite borghese, della burocrazia legata agli insediamenti coloniali e agli interessi capitalisti, sia locali che esteri, a questa connessi.

Un altro fattore è l’incremento di attivismo sindacale dei lavoratori israeliani spinti dal desiderio di avere livelli di vita più dignitosi al pari della classe operaia europea.

All’affacciarsi sulla scena politica e sociale della seconda e terza generazione discendente dagli immigrati ebrei trasferitisi in Israele, corrisponde una speranza di compromesso con i palestinesi e che i lavoratori abbandonino l’ideologia della falsa coscienza nazionalistica.

Questo processo tiene conto anche del fatto che la classe operaia israeliana è sottoposta ai pesanti attacchi del neoliberismo, con alta disoccupazione, incertezza occupazionale, impoverimento delle precedenti condizioni di vita.

Un terzo fattore sta nell’effettivo assorbimento di una significativa parte dei profughi palestinesi all’interno del sistema capitalistico, e di un’estensione di questo processo qualora il conflitto si risolva. In questo caso sarebbero coinvolti sia gli operai e gli agricoltori radicati nei territori, che non saranno più costretti a essere isolati nei campi profughi, sia una ri-nascente borghesia palestinese.

Si tratterebbe di scambiare il sogno nazionalistico con la possibilità di vivere in uno stato capitalistico relativamente moderno. A sostegno di un certo ottimismo, agiscono alcuni fattori:

Come in altri stati, potrebbe verificarsi che il tanto vituperato sistema degli insediamenti dei coloni venga sostituito da un altrettanto disprezzabile, ma un po’ meno, sistema capitalistico più moderno.

A sostegno di quanto detto si può addurre come nella società israeliana stia aumentando la consapevolezza che i cittadini palestinesi-israeliani non possono più essere considerati cittadini di seconda categoria; inoltre si sta ugualmente diffondendo la percezione che gli sforzi di costringere i Palestinesi all’interno di un Bantustan sottomesso ad Israele, non hanno possibilità di successo.

Ma soprattutto è forte la sensazione che la continuazione del conflitto ha un costo troppo alto.

Con questi recenti attacchi Israele potrebbe aver tirato i dadi per l’ultima volta: ci potrebbe essere una dura risposta sia dal versante palestinese che dall’opposizione interna ad Israele. Se solo Israele consentisse che la borghesia palestinese abbia il suo stato da gestire all’interno dei confini del 1967 magari con qualche minimo ritocco, anche il problema dei profughi palestinesi vi troverebbe una soluzione magari col sostegno dei paesi più ricchi.

Finora la resistenza alla guerra all’interno di Israele è stata minoritaria. Poche centinaia di militanti in tutto. Poche decine all’interno delle manifestazioni, per un massimo di 500 ebrei in quelle più grosse. Persino gli atti più efferati commessi dall’esercito di Israele non hanno mobilitato più di tanto. I disertori per motivi politici, finora, non sono mai stati più di 20 all’anno tra i riservisti e addirittura meno di 5 tra i giovani di leva.

Ma il punto di frattura è stato finalmente raggiunto nel mese di marzo.

 

(traduzione di Donato Romito)