Note su LA QUINTA GUERRA MONDIALE

0. Una cronologia

0.1 Prima Guerra Mondiale: 1914-1918, cosiddetto inizio del XX secolo

0.2 Seconda Guerra Mondiale: 1939-1945, cosiddetta continuazione della Prima

0.3 Terza Guerra Mondiale: 1947-1989, cosiddetta Guerra Fredda (lettura proposta dal subcomandante dell’EZLN del Chiapas, Marcos), considerata fine del XX secolo

0.4 Quarta Guerra Mondiale: 1991-2000, cosiddetta guerra di aggressione economico-militare neoliberista alle risorse naturali, ai mercati, al patrimonio culturale del mondo (sempre lettura proposta da Marcos)

0.5 Quinta Guerra Mondiale: 2001-……, che sembra essere militarmente iniziata tra l’11 settembre ed il 7 ottobre 2001, ma forse no…..

 1. Questa guerra

1.1 L’inizio

Il 17 gennaio 1991 l’O.N.U. –visto lo schieramento di truppe USA in Saudi Arabia nel mese precedente- autorizzava l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait. Alleati degli USA erano allora anche Stati quali la Libia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, la Siria, il Kuwait. Il coinvolgimento di Stati arabi in un attacco ad un altro Stato arabo da parte di potenze NATO sembrò un notevole successo politico-militare per quello che allora venne definito il "nuovo ordine mondiale" mentre avveniva l’eutanasia dell’URSS (conclusasi in dicembre). In realtà, quella guerra –apparentemente locale- segnò una profonda cesura negli equilibri politici dei paesi arabi e islamici, e se gli interessi americani ne uscivano vincenti, lo stesso non si può dire per la stabilità stessa del Medio Oriente e dell’area turanica. Infatti, da allora, e contemporaneamente a quella che Marcos ha efficacemente chiamato la 4^ Guerra Mondiale, si è avviato un conflitto vero e proprio a cui vanno ascritti eventi significativi.

 

1.2 Alcune date

Nel 1993, viene sventato un attentato alle Twin Towers a New York; sempre nel 1993 a Mogadiscio 18 marines muoiono in seguito agli scontri armati con gli islamisti oppositori dell’operazione Restore Hope in Somalia, da cui Bush senior si disimpegna; nel 1996 viene colpito l’accampamento americano a Khobar in Arabia Saudita; nel 1998 a Nairobi e Dar-es-Salaam vengono colpite le ambasciate USA e nel 2000 una nave da guerra USA nel porto di Aden. Dal 1995 al 2000, 77 cittadini americani muoiono durante attentati internazionali e 651 vengono feriti.

Nel 1992 il Fronte Islamico di Salvezza algerino uccide il presidente Boudiaf: è l’inizio del massacro degli "infedeli" in Algeria. Nello stesso anno gli ulama sauditi emettono il "memorandum di rimprovero" verso re Fahd per aver partecipato a Desert Storm.

Nel 1993 in Tagikistan scoppia una guerra civile per ragioni etniche e politiche, in cui è protagonista il gruppo islamista Harakat-ul-Ansar (Hua) del Pakistan che si batte per la secessione del Kashmir indiano.

Nel 1994 in Bosnia, tra le milizie di Izetbegovic, erano presenti mille unità musulmane non bosniache, fra cui l’Hua. A Zenica sono segnalati circa 200 combattenti islamici non bosniaci. Vengono chiamati "afghani" perché facenti parte delle unità addestrate dalla SAS inglese nella guerra contro l’URSS in Afghanistan, ma sono di nazionalità diverse.

Nel 1995 ad Addis Abeba, attentato al presidente egiziano Mubarak ad opera dei militanti della Jama’a islamiyya del Sudan.

Nel 1996 bin Laden lancia il proclama per il jihad contro gli americani.

Dal 1998 è accertata la presenza di unità del jihad egiziano ed iraniano nell’Uck albanese che opera sia in Kosovo che in Macedonia. Mentre le operazioni finanziarie di bin Laden in Albania risalgono al 1994.

Sempre nel 1998 si costituisce il Fronte Internazionale Islamico (F.I.I.), a cui aderiscono i gruppi al Qa’ida di bin Laden, i taliban afghani del mullah Omar, l’Hua pakistano di Maulana Masud Azhar, la Jihad islamica egiziana di Ayman al Zawahry, il Gruppo Islamico egiziano di Omar Abdel Rahman, l’Avanguardia della conquista egiziana di Yasser al Sirri, l’Esercito di Maometto giordano, con l’obiettivo di dar vita ad un unico Stato islamico (la Umma). Ma all’interno della struttura militare sono state convogliate (pur non essendo membri del F.I.I.) le organizzazioni islamiche jihadiste nazionaliste che si limiterebbero ad una guerra santa di liberazione nazionale. Si tratta dello Hizbullah libanese di Hassan Nasrallah, del palestinese Hamas di Ahmas Yassin, della Jihad islamica palestinese di Ramadan Abdallah Shallah; del pakistano Laskar-e-Taiba di Maulana Al Hafez Mohammad Said, del movimento islamico uzbeko, di Abu Sayyaf di Mindanao nelle Filippine. Probabilmente anche il GIA algerino di Antar Zouabri, che aveva programmato nel 1994 l’esplosione della Torre Eiffel con un aereo dirottato e poi fermato a Marsiglia.

Nel 2000 inizia la seconda intifada palestinese. Al nemico invasore sionista vengono sempre più spesso accomunati gli USA.

Nel 2001 vengono distrutte le Twin Towers di Manhattan a New York.

 

1.3 Falsi obiettivi della guerra

L’attacco all’Afghanistan non punta a sconfiggere il terrorismo o a catturare bin Laden.

L’attacco agli USA non punta a punirli per aver occupato luoghi sacri dell’islam o corrotto i governi arabi.

L’attacco all’Afghanistan non punta ad una liberazione del paese dalla dittatura talibana.

L’attacco agli USA non punta ad una restaurazione fondamentalista islamica nei paesi musulmani.

L’attacco all’Afghanistan non punta a liquidare le varie bande armate finanziate dagli USA per 10 anni negli anni ’80,

L’attacco agli USA non punta a punirli per la situazione palestinese, per l’embargo all’Iraq o per lo stato di povertà del proletariato di religione musulmana.

 

1.4 La posta in gioco

 

1.4.1 Le risorse energetiche e i "corridoi"

Nell’area (non in Afghanistan) sono disponibili ingenti risorse energetiche, quali petrolio e gas. Il loro trasporto verso ovest (Mar Nero, Mar Mediterraneo), verso est (distretti industriali della Cina sud-orientale), verso nord (Russia), verso sud (Golfo Persico, Oceano Indiano) avviene attraverso scali e corridoi già esistenti, in costruzione o in corso di appalto. Le risorse sono disponibili all’interno di territori controllati da autorità governative o da opposizioni a base etnico-religiosa. I corridoi attraversano diversi territori, con la moltiplicazione del medesimo problema. La contesa per il controllo finora avveniva a colpi di finanziamenti in tecnologie e in armi a questa o a quella élite a seconda delle leggi di mercato e degli interessi in gioco. Russia, Cina ed USA non hanno lesinato risorse ed uomini in questa decisiva guerra di predominio.

Senza dimenticare potenze regionali come Israele, la Turchia, il Pakistan, l’India, l’Iran e lo stesso Iraq.

 

1.4.2 La stabilità nell’area

Fino al 1989-‘91, la stabilità nell’area era tutta giocata sul bilanciamento degli interessi degli USA, dell’URSS e delle potenze regionali. Ai vantaggi dei paesi finanziatori (USA ed URSS) corrispondevano i vantaggi delle borghesie e delle caste di potere locali finanziate, in uno spericolato gioco di accordi economico-militari che davano poi origine a guerre lunghe e sanguinosissime come quella tra Iraq ed Iran o quella dell’Alleanza Islamica contro l’URSS invasore dell’Afghanistan, oppure alla proliferazione nucleare in Pakistan ed India, in seguito ai conflitti per il controllo del Kashmir o, ancora, al massacro dei curdi operato contemporaneamente da Turchia, Iraq ed Iran. La strategia riassumibile con "il nemico del mio nemico è oggi mio amico, poi domani si vedrà", ha reso perennemente instabile l’area e quindi perennemente plausibili gli interventi militari, diretti o per procura, finalizzati ad un predominio chiamato stabilità. Con il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan nel 1989 e la fine della potenza dell’URSS, i problemi di destabilizzazione si aggravano. Il notevole flusso di aiuti militari e finanziari degli USA agli Stati musulmani ed alle guerriglie islamiche in chiave anticomunista era stato ripagato con l’eliminazione di migliaia di attivisti di sinistra e sindacalisti e con l’attivazione di una florida coltivazione e traffico dell’oppio fino alle rive del Mar Adriatico (Albania), ma aveva reso possibile sia il rafforzamento delle borghesie arabe dominanti da un lato che il consolidarsi ed allearsi dei gruppi armati islamici dall’altro: questi, liberatisi della minaccia sovietica, puntano ora a mettere in crisi il giogo americano ed a sfidare qualsiasi altro competitore, con una guerra non convenzionale, che viene definita terrorismo. Il gruppo di Shanghai, costituitosi nel giugno 2001, con Russia, Cina, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, Kazakistan ha come scopo proprio la lotta al terrorismo (ovviamente islamico).

 

1.4.3 Il comando sull’area di crisi

Senza stabilità e senza un garante di essa, lo sfruttamento di risorse e corridoi diviene problematico. Si pone perciò l’esigenza di stabilire un comando sull’area attualmente in crisi. L’avversario degli USA non è più però l’URSS. Né la Russia, afflitta da medesimi problemi di controllo e stabilità in Cecenia e nelle ex-repubbliche centro-asiatiche. Né la Cina, neo-ammessa al WTO dal 2002, benché ridefinita paese competitore anziché partner dalla amministrazione Bush, perché anch’essa afflitta da problemi di controllo e stabilità nel musulmano Xinjang (al confine con l’Afghanistan). Né le economicamente potenti borghesie e caste arabe e musulmane al potere, divise da interessi contrapposti (da quelli religiosi a quelli di sub-potenze). Il nuovo aspirante avversario, competitore economico, nonché nemico militare, è il Fronte Internazionale Islamico (F.I.I.), fondato nel 1998 da noti leaders clandestini arabi e musulmani, fra cui Osama bin Laden, protetto da servizi segreti di Stato, con basi militari operative sovranazionali, con flussi finanziari globalizzati, con fortissime capacità mediatiche e di ricatto nei confronti dei governi arabi e musulmani.

 

2. Pretesti e natura di classe del Fronte Internazionale Islamico

 

2.1 L’onta del 1991

Se all’origine della confluenza di vari soggetti fondamentalisti islamici nel F.I.I. c’è la sacrilega invasione della penisola araba da parte USA & Co., non ebbe maggior peso la devastazione che colpì il popolo iracheno, bensì la politica di sottomissione e sudditanza dei governi arabi agli USA. I problemi di comando su un’area decisiva per il controllo del petrolio, slittavano dal piano commerciale a quello meramente militare, e la risposta non poteva che essere militare.

 

2.2 La questione palestinese

La tragica situazione dei palestinesi compare tra le priorità del F.I.I. e dei suoi militanti solo recentemente ed in modo fortemente strumentale, sostenendo militarmente più la tradizionale jihad contro Israele, piuttosto che una soluzione politica che porti all’instaurazione di uno Stato palestinese moderato nelle mani dell’Autorità Palestinese. La specularità delle azioni militari tra esercito israeliano e combattenti palestinesi è tale da sospettare un forte e reciproco interesse a NON trovare più soluzioni politiche, pena la non ulteriore giustificabilità dell’origine violenta dello Stato ebraico e della degenerazione terroristica della lotta palestinese.

 

2.3 Iddio & potere

Le varie fazioni alleate jihadiste scese in guerra contro gli USA hanno obiettivi piuttosto evidenti:

- colpire gli USA e di riflesso i suoi alleati perché si scateni l’irrazionalità militarista

- indebolire i governi arabi moderati per sostituirli con una nuova classe dominante che instauri lo Stato islamico;

- strumentalizzare le condizioni di miseria del proletariato arabo ed islamico per creare un’opposizione di massa al dominio economico della globalizzazione (alcuni gruppi fondamentalisti islamici erano a Seattle!!), ma NON al dominio delle vecchie o delle eventuali future borghesie islamiche al potere;

- porsi come unici finanziatori di servizi di protezione per il popolo (ospedali, scuole,…) per catturarne benevolenza, appoggio di piazza e reclute per il jihad;

- utilizzare una lettura stragista dell’islam per alimentare uno scontro di civiltà, un serrare le fila contro l’impuro "occidente", ma anche contro quegli "infedeli" ancorché islamici che si battono per liberare le società islamiche dalla dittatura e dallo sfruttamento di caste e dalle oligarchie che governano, e vorrebbero governare, sotto la protezione dell’islam.

 

3. Pretesti e natura di classe dell’intervento militare USA & Co.

 

3.1 Il terrorismo

La lotta al terrorismo, dopo la tragedia dell’11 settembre, restituisce agli USA un supposto compito di difensore della libertà e della democrazia, che si era fortemente impallidito negli ultimi decenni e li pone al centro di una vasta alleanza che sta materialmente spostando equilibri di vecchia data, coinvolgendo Russia e Cina. Ma non è altro che terrore la duratura guerra che è stata scatenata contro il capro espiatorio Afghanistan; non è altro che terrore quello che gli USA hanno finanziato per decenni e che continuano a fare ancora oggi. Continua ad essere terrore lo stato di crisi economica endemica che essi inducono in tutto il mondo.

 

3.2 Il militarismo

La tattica militare usata contro New York e l’uso della guerra biologica comportano un ripensamento della struttura militare degli USA e della NATO. Per un paese che si avvia a superare i 310 miliardi di dollari all’anno per la spesa militare, si tratta di operare scelte difficili sul piano tecnologico e numerico, riposizionando il futuro delle forze armate americane e della strategia militare americana al centro degli interessi nazionali.

Lo Scudo Stellare (anche se non basteranno i 4 anni di presidenza Bush per realizzarlo) ha quindi più possibilità di essere realizzato come deterrente contro missili facilmente disponibili sul mercato delle armi; ma alle innovazioni tecnologiche potrebbe essere preferito o affiancato un rilancio dell’armamento convenzionale ed un dispiegamento di truppe che darebbe al militarismo un primato tale da rendere gli anni della Guerra Fredda quelli più sicuri dopo la 2^ G.M.

 

3.3 L’Unione Europea e la NATO

Dal momento che non sono coincidenti e che la seconda prevale per paesi membri sulla prima, sono evidenti i problemi di gestione della crisi bellica che angustiano tutti i governi dell’UE, tranne la Gran Bretagna.. La crisi bellica compromette i progetti di ripresa economica europea e chiede più impegno verso le spese militari ed il finanziamento di missioni militari in territorio extracomunitario. La vergognosa politica di copertura delle "guerre umanitarie" o delle operazioni di "peacekeeping" sembra avviarsi al tramonto e costringere i governi europei ad andare "à la guerre comme à la guerre", a colpi di art.5 del Trattato NATO e suoi aggiornamenti (1999) in chiave "anti-terrorismo". Inoltre, il ruolo dell’UE sembra indebolirsi irrimediabilmente con il nuovo "feeling" tra USA e Russia, tra USA e Cina.

L’Italia, in particolare, inizialmente completamente marginalizzata nel quadro internazionale a causa dei passi falsi del suo governo, dalla repressione a Genova alle dichiarazioni sulla superiorità della civiltà occidentale (sic!), dalla legge sulle rogatorie internazionali al falso in bilancio a quella sull’immigrazione, ha recuperato un macabro posticino nelle operazioni militari in Afghanistan, proseguendo quel "rinascimento" militarista iniziato con l’intervento in Libano (1982).

 

3.4 La recessione economica

Il tempismo attribuito all’azione militare contro New York e Washington nulla aggiunge ad una crisi economica ormai endemica, se non un probabile processo di concentrazione di capitali ed investimenti su settori quali quello dell’industria bellica, dei sistemi di sicurezza, dell’industria chimica e farmaceutica, delle nuove tecnologie, con giubilo delle borse depresse da continui perdite del Nasdaq. Sostenuta da massicci e mirati interventi pubblici (sicurezza, sanità, trasporti), la recessione potrebbe avere, come è capitato nell’ultimo lustro, il duplice aspetto di killer fuori degli USA (a cominciare dagli alleati del sud-est asiatico e del sud-america) e quindi di volano negli USA.

 

4. Macchine da scontro (di civiltà)

 

4.1 Superior stabat lupus

Militaristi, guerrafondai, politici e religiosi fondamentalisti cattolici, cristiani, ebrei e islamici, conservatori di ogni latitudine, sono convinti e propagandano che ciò che guasta, contamina e rende impura la fonte delle loro civiltà sia la presenza immonda dell’altro, del diverso, dell’infedele, del portatore non-sano di veleni nocivi per la stabilità culturale e religiosa data.

Questa sindrome potrebbe seriamente aggravarsi in questa crisi bellica internazionale che vede l’una e l’altra parte accentuare toni da "crociata" vs "jihad", modernità vs oscurantismo. Pescando, poi, in acque già torbide, visto che molto prima dell’attuale crisi bellica internazionale, questa sindrome è andata diffondendosi sull’onda dei massicci flussi migratori. Da est verso ovest, da sud verso nord, sostenuti dal sacrificio spesso letale di migliaia di profughi in fuga da scenari di guerra, di repressione, di miseria, di indigenza lunga e prolungata. Laddove il neoliberismo e la globalizzazione portavano le regole del Fondo Monetario e delle Banca Mondiale, si producevano le condizioni per emigrazioni di massa verso l’origine degli "aiuti"; laddove il neoliberismo armava i nazionalismi e le caste di potere, si organizzavano massicce emigrazioni a pagamento verso l’origine delle armi.

Mano d’opera a basso prezzo e non sindacalizzata per le produzioni del capitalismo a ovest/nord-ovest da opporre ai lavoratori sindacalizzati da decenni; mano d’opera a basso prezzo e non sindacalizzata per le produzioni del capitalismo a est/sud/sud-est grazie alle delocalizzazioni. Sfruttamento ed emarginazione. Nient’altro. Donne e uomini spinti a fuggire dalle sofferenze provocate dalle politiche economiche e militari dei loro governanti, per essere attirati dai paesi governati dai complici e finanziatori dei loro governanti.

Il sospetto e la diffidenza prendono così il posto dell’ascolto e del confronto, il rifugio etnico-religioso prende il posto della cittadinanza universale, il risentimento e la differenza socio-economica prendono il posto della solidarietà di classe. Dall’una e dall’altra parte.

Lanciati gli uni contro gli altri come macchine da scontro. In nome di supposte superiorità di civiltà.

 

4.2 Vittime sacrificali

Chi agita ed aizza lo scontro di civiltà o quanto meno l’incompatibilità fra civiltà, da entrambe le parti, sa bene cosa vuole:

- impedire, nei paesi riceventi, qualsiasi processo di trasformazione e contaminazione infraculturale che –superando i limiti dell’integrazione e passando per uno stadio di multiculturalità- punti ad una cittadinanza piena di diritti in cui la solidarietà di classe superi, come già si scriveva nel 1864, le differenze di razza, sesso e religione;

- impedire, nei paesi di emigrazione, qualsiasi processo di trasformazione che porti ad una progressiva laicizzazione, parità di diritti uomo/donna, organizzazione ed opposizione di classe non solo agli sfruttatori "occidentali", ma anche a quelli islamici;

- attivare ancestrali quanto infondate appartenenze di "sangue" o religiose a livello planetario, incuranti delle tragedie che questa scelta ha già provocato e sta provocando, al fine di oscurare qualsiasi tentazione di dialogo, di cooperazione, di solidarietà.

 

5. La nostra posta in gioco

 

5.1 L’antimilitarismo

Occorre sedimentare e diffondere sempre di più una forte coscienza antimilitarista, soprattutto di fronte alla crescente occupazione militare –fisica e mediatica- della società civile ed al diffondersi di una aberrante convinzione di "stato di necessità" della presenza militare in ogni angolo del pianeta a garanzia (sic!) della sicurezza. L’allargamento e la globalizzazione di alleanze militari su un fronte (USA+NATO+Russia+Cina) e sull’altro (F.I.I.+Stati islamici militaristi) impone la crescita e l’attività politica di un altrettanto movimento globale nettamente antimilitarista ed antibellicista che sveli e denunci l’indissolubile legame tra militarismo e capitalismo. Infatti:

- le guerre scoppiano sempre a causa dello scontro di enormi interessi economici e di potere geopolitico; la verniciatura antiterroristica, umanitaria, nazionalista, etnica, religiosa, tribale che gli viene data –a seconda dei casi- serve solo a nascondere la vera posta in gioco ed a sedimentare sentimenti di odio al fine di mettere le une contro le altre le classi più deboli e più povere;

- il nazionalismo e l’appartenenza etnico-religiosa sono le ideologie usate sempre di più dagli Stati nazionali (spesso si tratta di paesi in via di sviluppo e di paesi molto poveri) e da caste di potere economico-militare per ottenere consenso sociale a politiche economiche protezioniste, tese a ritagliarsi nicchie di mercato o controlli su giacimenti e corridoi strategici all’interno della globalizzazione, con costi sociali molto alti sulle classi lavoratrici; lottare contro il nazionalismo significa lottare contro il capitalismo;

- il militarismo e la militarizzazione della società sono le forme di controllo e costrizione sociale che si affiancano alle ideologie nazionaliste; costituiscono il mercato globale del business delle armi; lottare contro il militarismo significa lottare contro il capitalismo;

- l’intervento militare anti-terroristico o "umanitario", contro caste e dittatori vari o a sostegno di interessi nazionalistici guerriglieri, non porta liberazione e democrazia, ma uno stato di guerra endemica. Accanto ad uno stanziamento semiperenne di eserciti e basi militari (NATO e non solo) nelle zone di guerra e nei paesi vicini, a protezione degli interessi economici del capitalismo internazionale, si alimenta un ipocrita mercato degli "aiuti umanitari" in cui vengono compiuti speculazioni e riciclaggi tutt’altro che umanitari. Lottare contro gli interventi militari significa lottare contro il capitalismo;

- il movimento pacifista e non-violento si deve battere per l’uscita dell’Italia dalle operazioni militari, per il cessate il fuoco ovunque e per la pace, contro lo scudo spaziale e l’aumento delle spese militari, per gli interventi umanitari pacifici e per la solidarietà internazionale, per l’aiuto e l’accoglienza dei profughi e dei disertori, per il ritiro degli eserciti, il disarmo e la smilitarizzazione del territorio e della società; per la valorizzazione della società civile, perché la pace serva alla ripresa del conflitto sociale e di classe, pacifico e non-violento se possibile, ma certamente anticapitalista; lottare per la pace significa lottare contro il capitalismo;

- le strutture che il movimento si può dare sono a carattere federalista, orizzontale, antiautoritarie, con particolare attenzione alla diffusione di comitati contro la guerra e contro le basi militari, di osservatori sulla militarizzazione del territorio e della società;

- le discriminanti sono quelle dell’anticapitalismo e del rifiuto del militarismo (da quello istituzionale a quello dei movimenti in piazza).

5.2 Lo scambio + sicurezza = meno libertà

La guerra che si combatte sul fronte interno è pronta a sacrificare quei residui spazi di libertà che sopravvivono alle devastazioni autoritarie del neo-liberismo. I provvedimenti anti-terrorismo inaspriti da diversi governi occidentali vengono giustificati con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini. Ma in realtà l’aspetto emergenziale dei provvedimenti, tesi a "sospendere" alcune libertà e diritti o ad estendere i controlli sulle nostre vite, è soverchiato dalla tendenza ed endemicizzare questo e altri conflitti. Una sorta di stato di guerra perpetua con un fronte esterno geograficamente lontano ma mediaticamente presente, ed un fronte interno ugualmente militarizzato, non solo come retrovia (basi militari, servizi di sicurezza, informazione "depurata"), ma anche come prima linea contro il "nemico" interno (immigrati, pacifisti antimilitaristi, antiglobalizzatori, sindacalisti contro la guerra e relative organizzazioni).

 

Il movimento sociale, politico, sindacale, culturale che si batte contro la globalizzazione e per la pace deve opporsi fermamente ai provvedimenti liberticidi, mascherati da antiterrorismo, che il governo ed il parlamento vorrebbero far passare. Si introducono così nella nostra legislazione elementi di autoritarismo, difficilmente reversibili (vedi il fascista codice Rocco o la legge Reale degli anni ’70), allo scopo di blindare la società civile e consegnarla nelle mani di un potere esecutivo con le mani libere contro qualsiasi opposizione sociale, politica e sindacale che voglia contestare e contrastare le scelte politiche nazionali ed internazionali del governo.

5.3 L’economia di guerra

La legge finanziaria per il 2002 è fortemente condizionata dalla congiuntura bellica. Quale occasione migliore per tenere fermi o tentare di ridurre gli stipendi dei lavoratori pubblici, mentre ci si rende disponibili a stanziare ingenti risorse per un ampliamento dell’ intervento militare nei Balcani o a fianco degli USA-GB in Asia centrale?! Quale occasione migliore per effettuare drastici tagli agli organici, avviandosi a quello snellimento della spesa pubblica tanto caro al governo, quando si ha la scusa per autorizzare incrementi di organici e di spesa solo per le Forze Armate e la "stabilità" del Paese?

Politiche di depressione della domanda e quindi dei consumi, contemporaneamente ad una anacronistica lotta ad una inflazione ampiamente fisiologica, lungi dallo stimolare interventi di sostegno strutturali (keynesismo di guerra, sic!) o congiunturali (riduzione dei tassi), strizzano l’occhio ad infiniti processi di flessibilità, mobilità, riduzione di organici, esternalizzazioni che producono un costante impoverimento salariale ed una progressiva attenuazione di diritti sindacali e sociali. E le prime vittime di queste politiche sociali eugenetiche sono i lavoratori immigrati e clandestini.

Inoltre, in un contesto che si accinge a mutare caratteristiche, lasciandosi alle spalle le politiche monetarie, per avvicendarle con politiche di bilancio, il ruolo della spesa pubblica assume importanza decisiva per garantire livelli di cittadinanza fondati su diritti, garanzie e tutele uguali per tutti. Il movimento sociale, politico, sindacale, culturale che si batte contro la guerra e per la pace deve decisamente opporsi alla Finanziaria 2002 per ottenere incrementi di spesa per lo stato sociale e per i contratti di centinaia di migliaia di lavoratori/trici del Pubblico Impiego. Deve sostenere tutte le lotte per il rinnovo dei contratti e la tutela dei diritti sindacali nel settore privato. Deve puntare ad una redistribuzione della ricchezza, ad una estensione dei diritti sindacali a tutte/i le/i lavoraratori/trici, precarie/i, cittadine/i italiane/i o immigrate/i che siano..

5.4 Il laicismo e l’antirazzismo

La nostra battaglia sul piano culturale è fondamentale. Quando si strumentalizzano le diversità religiose per farne schieramenti contrapposti e belligeranti, si cerca deliberatamente la caccia al diverso, si persegue la pulizia etnica, si chiudono le culture all’interno di confini invalicabili dal forte odore di sangue.

I tentativi ostentatamente espliciti di cavalcare lo scontro fra religione cristiano-cattolica e religione musulmana devono trovare la nostra forte opposizione e la nostra determinata risposta, ricorrendo alla mai morta pratica del laicismo. Occorre disattivare la convinzione che l’appartenenza di religione sia esaustiva dell’esperienza umana, sociale e politica degli individui, come delle società organizzate; occorre praticare la convivenza sociale ed attivare l’unità di interessi di classe, dimostrando l’inutilità della religione, se si vogliono perseguire obiettivi di cittadinanza e di libertà propri degli individui indipendentemente dalla provenienza geografica; se si vuole dare corpo alla dimensione solidale degli sfruttati, indipendentemente dalla religione professata. Occorre conquistare il diritto alla libertà di e dalla religione. In ogni paese del mondo.

5.5 L’anti-sessismo

L’ipocrita "scoperta" della drammatica condizione delle donne afghane e di altri Stati islamici ha scatenato i benpensanti del cosiddetto "occidente", indignati per l’imposizione del burqa e per una certa applicazione della shar’ja. Che, dopo 10 anni, la sofferenza delle donne afghane diventi lo scandalo da sradicare e quindi una valida ragione mediatica per giustificare la guerra, svela il profondo maschilismo radicato nell’attività militarista, per cui la "liberazione" delle donne afgane dall’oppressione dei talebani costituisce bottino di guerra. La condizione di migliaia di donne immigrate e trattate come schiave non costituisce però un’altrettanta buona ragione per la loro liberazione dall’oppressione di "talebani" nostrani o in affari con sfruttatori immigrati. Come denuncia la rete delle donne afghane RAWA, non ci si aspetta la liberazione dagli americani, o dall’Alleanza del Nord, o dalla restaurazione monarchica, senza una reale garanzia di parità nel lavoro, nella vita pubblica, nella vita privata. Occorre demistificare ogni tentativo di strumentalizzare la dura condizione delle donne afghane per avallare massacri e distruzioni ai danni di quelle stesse donne e dei loro figli.

5.6 La società civile

Come fu per le guerre in Bosnia e Kosovo, riteniamo importante che esistano soggetti organizzati della società civile che si collochino fuori e contro la guerra. E in essi riconoscere le possibilità di una alternativa sociale e di una pratica di solidarietà internazionale. Se per un paese dilaniato dalle guerre da oltre 20 anni sembra molto difficile poter parlare di pezzi di società civile sopravvissuti ai continui conflitti, allora dobbiamo dare valore, solidarietà e visibilità politica a quelle realtà che in Afghanistan cercano di far resistere un tessuto di relazioni sociali solidali e di costruire un’alternativa a partire dall’emergenza bellica e dalla segregazione delle donne. Per le iniziative ben note di Emergency e per quelle clandestine del gruppo di donne RAWA, deve svilupparsi tutta la nostra solidarietà e la nostra capacità di far sapere che fra la pace armata e la guerra economico-militare, scegliamo la lotta per la libertà, la dignità, la pace senza sfruttamento.

 

RITIRO DEL CONTINGENTE ITALIANO
CESSARE IL FUOCO
IMPEDIRE L’ESPANDERSI DELLA GUERRA
SMILITARIZZARE L’AREA
DISARMO MULTILATERALE
AIUTI E SOLIDARIETA’ AI PROFUGHI
LIBERTA’ PER LE DONNE AFGHANE

Novembre 2001