Seminario sui comunisti anarchici e l'organizzazione di massa

Firenze, 24-25 novembre 1984

Organizzato dall'ORA-UCAT

 

Intervento di Franco Salomone

Vorrei innanzitutto esprimere, a nome del Comitato Nazionale Unitario dei Comunisti Anarchici, il nostro ringraziamento ai compagni dell'Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica e dell'Unione dei Comunisti Anarchici della Toscana per aver organizzato questo seminario che per il tema all'ordine del giorno riveste un momento di estrema importanza per l'intervento e per l'unitarietà del Movimento Comunista Anarchico.

Questo nostro intervento è rappresentativo del livello, inevitabilmente minimo, di dibattito e di omogeneità raggiunto dai compagni della Federazione Comunista Libertaria Ligure e del Partito Anarchico Italiano che unitamente compongono il Comitato Nazionale Unitario dei Comunisti Anarchici, struttura di dibattito e di collegamento verso la costruzione dell'Organizzazione Politica dei Comunisti Anarchici nel nostro Paese.

L'intervento nel mondo del lavoro e la concezione che i lavoratori siano il motore della storia sono i dati che da sempre hanno contraddistinto i Comunisti Anarchici.

La vecchia, ma sana, affermazione della I Internazionale: "l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi", intesa come espressione della capacità dei lavoratori, indipendentemente dalle opinioni ideologiche e religiose, di autogestire unitariamente le lotte e la loro organizzazione dalla fabbrica al territorio, dall'economico al politico, è quello che lega indissolubilmente l'esperienza storica della classe con le lotte e l'intervento di oggi.

La separazione del politico dal sociale, della presa del potere dall'autogestione proletaria della società ha trasformato e diviso il Movimento Operaio, usato nelle strategie delle avanguardie politiche come massa di manovra o come semplice cassa di risonanza.

Con questa logica, negli anni '70, si è liquidata l'ipotesi di rifondare il sindacato attraverso i Consigli; oggi si tenta di liquidare il Movimento dei Consigli stesso, che tanta e tale vitalità ha saputo esprimere soprattutto in questo ultimo periodo.

Processi di ristrutturazione, licenziamenti e progressiva istituzionalizzazione e burocratizzazione delle strutture sindacali hanno fatto il resto.

Si va affermando in questo senso, pur con contraddizioni e contraccolpi un progetto che prevede la cementazione dei ceti produttivi sul piano politico.

Ciò determina un processo di separazione del lavoro tutelato dagli strati sociali marginali, recuperando un controllo sulle tensioni e sul conflitto sociale, attraverso politiche assistenziali da un lato e di restringimento degli spazi di democrazia dall'altro.

I risultati possiamo intravederli analizzando la realtà degli altri Paesi industrialmente avanzati.

Alla frantumazione del ciclo produttivo prodotta dal decentramento diffuso, si accompagna la scomposizione della classe lavoratrice: infatti dalla sua capacità di produrre accumulazione dipende la possibilità per il sistema di espandersi sul territorio, sfruttando la combinazione tra stato del benessere e civiltà dell'informatica.

Per i padroni si tratta di arrivare all'appuntamento avendo recuperato margini di profitto e fette di mercato, smantellando la "società operaia" in fabbrica, in breve riaffermando il loro potere sull'uso della forza lavoro e ridefinendo una nuova stratificazione gerarchica nell'impresa.

Per i partiti si tratta di riconquistare un ruolo di mediazione tra società civile e Stato, in vista di mutamenti istituzionali e sociali che li vedano protagonisti attraverso la programmazione economica.

La condizione che questo disegno si realizzi è la totale integrazione del sindacato nelle regole del gioco.

Solo la proposta di una programmazione concertata tra organizzazioni sindacali, Stato e padroni rende possibile la ristrutturazione del sistema produttivo senza eccessivi livelli di conflittualità.

Appare evidente la scelta di campo: il passaggio dalla democrazia operaia alla democrazia corporativa, dall'unità di classe ad un nuovo interclassismo, dall'autonomia contrattuale alle compatibilità economiche.

Ma la liquidazione negli anni '80 dell'esperienza del sindacato della contrattazione per un sindacato "soggetto di programmazione", la distruzione del filone della teoria e della pratica autogestionaria per un modello "neocorporativo" è un processo irreversibile?

Siamo convinti che non lo sia, soprattutto se sapremo rinforzare l'unità di classe e la sua autonomia, rivitalizzando le sue strutture di base portanti, i Consigli di Fabbrica.

Non avrebbe senso parlare dei Consigli di Fabbrica e di Zona, del ruolo che in essi possiamo svolgere senza analizzare come e perché sono nati, quali esigenze li hanno prodotti, quale è stato l'atteggiamento delle Confederazioni, quali cambiamenti hanno indotto al loro interno e viceversa.

In primo luogo i Consigli non sono stati il parto di una minoranza illuminata della classe, ma un'esigenza politica ed organizzativa che si imponeva alla fine degli anni '60 per i cambiamenti avvenuti nella composizione della forza-lavoro.

In quel periodo si affermava compiutamente la "centralità" dell'"operaio-massa", di quella forza-lavoro in buona parte estranea all'attività sindacale e politica del ciclo storico precedente, cioè quello degli anni '50 caratterizzato dalla figura dell'"operaio di mestiere".
La figura sociale dell'"operaio-massa" è il prodotto dell'immigrazione meridionale, dell'esodo dalle campagne, dell'ingresso in fabbrica di giovani estranei sia alla sconfitta dei sindacato negli anni '50, sia alla ideologizzazione politica dei vecchi quadri sindacali.

Questa tendenza ci viene confermata da un dato: la massima espansione di questa figura operaia (anni '67/'68) coincide con la minima sindacalizzazione in assoluto della CGIL, CISL e UIL.

Pur in presenza di una nuova composizione di classe, i sindacati confederali divisi e deboli sul piano contrattuale, continuavano a tutelare prevalentemente gli interessi dei loro associati.

Infatti, i contenuti delle rivendicazioni sindacali (aumenti in percentuale, classificazione dei lavoratori in base al mestiere ed alle responsabilità gerarchiche, accettazione del modello organizzativo aziendale, ecc.) erano legate ad una logica che escludeva l'area dequalificata dei lavoratori.

La spinta alla costruzione di forme rappresentative autonome e di classe, autenticamente unitarie, nasce la questa contraddizione a cui si somma il fatto che nella nuova generazione operaia le divisioni ideologiche e sindacali hanno uno scarso peso.

A queste considerazioni dobbiamo aggiungere l'evoluzione radicale, in quegli anni, di settori del sindacato (particolarmente la FIM-CISL tra i metalmeccanici del Nord), che da tempo sostengono il radicamento dell'organizzazione nelle fabbriche per poter svolgere pienamente il proprio ruolo di sindacato contrattuale ed autonomo dalle forze politiche (dando in questo modo una lettura di sinistra al tradeunionismo cislino).

Dalla interazione di tutti questi fattori si sviluppa il ciclo di lotte '68-'72, la spinta all'unità di classe, le assemblee, i CUB, i delegati di reparto, lo scavalcamento degli apparati sindacali, i parziali mutamenti nella struttura del sindacato.

Le nuove strutture di rappresentanza dei lavoratori, nate per coordinare le lotte, per dare sbocchi organizzativi e di partecipazione alla maggioranza della classe operaia, sono in larga parte il superamento nei fatti più che nella consapevolezza teorica, sia del sindacalismo marxista (subalterno ai partiti di sinistra), sia del sindacalismo tradeunionista (del modello americano della CISL e di quello socialdemocratico della UIL).

I comportamenti di classe, le strutture consiliari, l'unità dal basso, l'azione diretta, la riscoperta delle assemblee è nei fatti qualcosa di molto simile all'esperienza sindacalista rivoluzionaria ed anarcosindacalista dei primi decenni del secolo.

Bisogna infatti tornare a quel periodo storico per osservare organismi di rappresentanza e forme di lotta vicine a quelle dell'autunno caldo, per ritrovare le stesse spinte unitarie e la teorizzazione coerente dei C.d.F. come strumento unitario e decisivo per la lotta di classe.
Questa fioritura di lotte a partire dalle fabbriche ha in sostanza chiari obiettivi egualitari ed antiautoritari che mettono in forse non solo la struttura del salario, ma anche l'organizzazione gerarchica del lavoro.

Sarebbe comunque ingenuo da parte nostra avere una visione di questi fenomeni completamente staccata da quello che è il sindacato ufficiale: da una parte una base spontaneamente rivoluzionaria, dall'altra i dirigenti cattivi e riformisti.

La realtà è molto più complessa in quanto nel ragionamento vanno inserite altre varabili: l'interazione tra la classe, i suoi organismi di base e l'organizzazione sindacale.

Il fatto che le strutture di base, a causa di un ritardo teorico sui propri compiti, non si pongano fino in fondo il problema di un collegamento esteso sul territorio, facilita paradossalmente, al di fuori della fabbrica prima ed all'interno dopo, il mantenimento del controllo della classe da parte del sindacato confederale.

Essendo il sindacato la sola struttura a livello nazionale, esso garantisce i collegamenti, dispone dei mezzi e ha la capacità di gestire la mobilitazione generale.

La mancanza di una prospettiva sindacalista autogestionaria di classe facilita il rifluire delle lotte all'interno degli obiettivi imposti dai sindacati confederali e mediati con gli interessi dei partiti politici.

Le lotte spontanee, i collettivi di base, gli stessi C.d.F., in mancanza di un organismo nazionale autogestito, che sedimenti realmente questa rinascita operaia, sono in buona parte assorbiti negli equilibri interni e mutevoli della CGIL-CISL-UIL.

In un primo momento sembra quasi che la spinta operaia abbia ragione delle vecchie forme organizzative burocratiche.

In alcune federazioni industriali, in modo particolare tra i metalmeccanici, nasce il "sindacato dei Consigli".

La cosa sembra ormai fatta: dalle fabbriche si sta passando, almeno nelle interpretazioni più coerenti e generose, ad una organizzazione nazionale che si basa su questi strumenti di democrazia operaia, i Consigli appunto.

Col senno di poi, possiamo valutare l'ingenuità di questa aspettativa, proprio nel momento in cui non si aveva ben chiaro che una organizzazione nazionale autonoma e di classe, malgrado le dichiarazioni ufficiali, era in stridente contrasto non solo con il potere economico e politico di allora, ma anche con le "rappresentanze" politico-istituzionali della classe operaia.

Nei fatti, tutti i partiti avvertivano questo grosso rischio di caduta della loro rappresentanza e forza sociale nel momento in cui si fosse compiutamente affermato un sindacato diverso che dalle lotte di fabbrica passasse a lotte sociali generalizzate, unificando lotte economiche e politiche.

Agli ostacoli frapposti dall'"esterno" del sindacato dobbiamo aggiungervi altri che derivano dal modello organizzativo, cioè problemi che provenivano dall'interno dell'esperienza sindacale.

Vengono sottovalutati i problemi di natura interna: il ruolo degli apparati a tempo pieno, la non rotazione delle cariche, una concezione organizzativa (e quindi politica) basata su dirigenze più o meno illuminate delle quali non si mette n discussione coerentemente il ruolo.

La contraddizione dirigenti/diretti non viene affrontata realmente.

Da una parte, perché gli apparati più o meno lucidamente avvertono il pericolo che questo significherebbe per la loro autoconservazione, dall'altra perché nell'entusiasmo di quel periodo questi problemi sembravano secondari.

In sostanza, benché all'inizio non ci se ne rendesse conto, si dava continuità anche nei nuovi organismi sindacali a quei concetti di delega, di divisione rigida dei compiti, di gerarchia (ad esempio l'esautorazione dei C.d.F. da parte degli esecutivi) che vanificavano i livelli di democrazia che, sui posti di lavoro, il movimento di classe aveva direttamente espresso.

Naturalmente stiamo parlando delle categorie industriali ed in modo particolare dei metalmeccanici del Nord.

Nelle altre categorie ed in altre aree territoriali quasi nulla era cambiato nel modo di intendere l'azione sindacale e gli organismi di rappresentanza dei lavoratori.

I nodi incominciano, infatti, a venire al pettine con la costituzione dei Consigli Unitari di Zona, che sarebbero dovuti essere la proiezione conseguente di un movimento che torna ad essere soggetto politico "dalla fabbrica al sociale".

Il fatto che i CUZ abbiano avuto vita stentata, che invece di essere un necessario coordinamento sul territorio dell'azione sociale del Movimento Operaio e degli sfruttati siano diventati palestre di sterili lottizzazioni di apparati, la dicono lunga sulle potenzialità di questi organismi e sul timore esistente nei confronti di essi da parte delle organizzazioni politiche istituzionali.

Anziché essere terreno di ricomposizione proletaria sul territorio e aggregazione di occupati, disoccupati, precari, pensionati ecc., i CUZ vengono sviliti e svuotati dalle lottizzazioni partitiche che li immobilizzano e nei fatti li soffocano.

L'unità di classe, non potendo espandersi fuori dalla fabbrica, unica condizione per un suo irreversibile consolidamento, arretrerà anche dentro di essa.

Si assisterà al ritorno di pratiche che si credevano superate: buona parte dei delegati saranno più attenti agli ordini di scuderia delle centrali sindacali (le quali non volendo un'unità reale, tornavano a svolgere un ruolo di divisione), che non alle indicazioni dei gruppi omogenei che li avevano eletti.

In questo periodo hanno buon gioco quelli che imputano la situazione di stallo, se non di arretramento, alla mancanza di un "quadro politico avanzato".

E così la politica torna in fabbrica, ma non più come ne era uscita, sull'onda dell'unità di classe, del rifiuto della delega, sull'autogestione delle lotte.

Essa ritorna sulle ali del partitismo tradizionale da un lato e dell'ideologia gruppettara dall'altro.

In questo sembrano riacquistare valore fondamentale, guarda caso in un periodo di riflusso delle lotte, le elezioni, gli equilibri più "avanzati", il vecchiume della politica partitica.
Questa illusione di cambiare il mondo con il voto, perché "le lotte non bastano", sarà in gran parte alla radice dello spostamento a sinistra del 20 giugno 1976.

Da quel momento fino ad oggi si vive la grande parata delle larghe intese e del governo.

Il cambiamento sembra alle porte, una classe operaia "angelicata" tramite le sue "elite" al parlamento sembra ormai al potere.

Potere naturalmente inteso come riconoscimento istituzionale, non come capacità reale di contare.

Ma, guarda caso, mai come in questo periodo gli spazi di azione si sono ristretti, ed è stato messo il bavaglio alle residue tendenze di classe dei lavoratori.

Il governo di unità nazionale, sorta di compromesso tra i rappresentanti delle correnti politico-partitiche e di mediazione tra differenti interessi economici, non può tollerare l'esistenza di un'area di opposizione sociale.

Da una parte, quindi, si rinsaldano all'inverosimile i legami tra i partiti e le burocrazie sindacali, dall'altra si criminalizzano le lotte utilizzando, in questo senso, il terrorismo.
Gli anni de governo di "unità nazionale" hanno dimostrato però che le sinistre al governo non solo non risolvono i problemi della "questione operaia", ma anzi tendono invece a riproporre conflitti laceranti quando si proclama che la classe operaia si è fatta Stato.

L'ipoteca del quadro politico nel movimento sindacale ha determinato il fenomeno degenerativo dell'idea e dell'azione dei Consigli.

All'inizio degli anni '70, dicevamo, si è liquidata l'ipotesi di rifondare il sindacato attraverso i "Consigli", per la stessa ragione negli anni '80 stiamo assistendo al tentativo di liquidare il Movimento dei Consigli stesso ed ogni residua forma di democrazia sindacale.

Qualsiasi ragionamento sulla democrazia sindacale non può limitarsi alla proposta di rifondare le strutture di base (garantendo l'elezione del delegato unitario per gruppo omogeneo e la rotazione degli incarichi, i gruppi di lavoro per obiettivi, il rifiuto della designazione dei delegati e degli esecutivi da parte delle segreterie del sindacato, ecc.) che, se pur fondamentale, in questa fase non è decisiva.

Infatti, va garantita una "democrazia minima" nel sindacato che consiste in una definizione di procedure, di responsabilità, cioè un insieme di regole liberamente accettate che rendano trasparenti i modi con cui si formano i gruppi dirigenti, come funzionano gli organismi, come si fa la contrattazione, come si garantiscono il dissenso e la partecipazione al formarsi delle decisioni.

Queste considerazioni costituiscono solo una traccia di lavoro, su cui possibilmente produrre cultura di classe, iniziative e lotta politica.

Non si può pensare certo di aver risolto il problema, tanto meno di aver indicato la chiave di volta per risolverlo, ma riteniamo utile inserire ulteriori elementi di riflessione, guardando al nuovo, a ciò che è cambiato e sta cambiando nel sindacato e nei Consigli.

In questa luce non possiamo fare a meno di considerare, nel nostro ragionamento sulle forme di democrazia operaia e sindacale, anche i mutamenti indotti dalla ristrutturazione aziendale e dai processi di riorganizzazione della produzione e dei servizi.

La ristrutturazione non si è configurata solo come riorganizzazione dell'assetto produttivo e sociale del capitale, attraverso il ridimensionamento di interi settori produttivi (siderurgia, chimica, metalmeccanica, ecc.) e la crescita di altri (elettronica, elettromeccanico, comparto bellico, ecc.), ma in primo luogo come attacco ai livelli di aggregazione, organizzazione e forza operaia e sindacale.

Ciò ha comportato una scomposizione-ricomposizione dei gruppi omogenei, una diversa stratificazione di classe, ma soprattutto l'espulsione di larghi settori di forza-lavoro dalla produzione (permanentemente o temporaneamente), attraverso la cassa integrazione, i licenziamenti; mentre nel contempo la lascia del lavoro precario e la sottoccupazione sono diventati fenomeni massicci e parte integrante del processo produttivo.

A questo punto non possiamo porci il problema di rimanere legati a vecchie centralità (l'operaio-massa) e a ricercarne di nuove (l'operaio sociale) o di fantastiche (l'operaio UFO), ma di tentare di cogliere le diverse sfaccettature di un universo variegato e complesso.

Una cosa sì, possiamo considerarla certo: come l'operaio delle linee di produzione e montaggio trovò nei C.d.F. lo strumento per emergere e nell'organizzazione del lavoro (limitazione dei ritmi, pause, contrattazione, carichi di lavoro, organici, rifiuto della monetizzazione del rischio e della nocività, inquadramento unico, salario sganciato dal rendimento, ecc.) trovò il terreno principale della sua lotta; così i lavoratori dispersi nelle piccole aziende, nei laboratori e in tutta l'area del precariato e del lavoro nero, dovranno trovare espressione e motivo di aggregazione a livello territoriale, nelle leghe, nei Consigli di Zona e nella lotta per affermare se stessi come soggetto politico e contrattuale per l'occupazione, per l'autogestione del lavoro e dei servizi sociali, per la flessibilità e la riduzione dell'orario, per la salute e la difesa dell'ambiente.

Quello che importa è avere coscienza della inevitabile parzialità delle analisi e della diversità delle situazioni: infatti come l'operaio di linea della FIAT all'inizio degli anni '70 non raffigurava tutta la classe, pur costituendone un segmento decisivo, quanto meno nelle lotte di quel periodo, così oggi non possiamo identificare l'insieme delle figure presenti nel mondo del lavoro con l'apprendista operaio dell'officina artigiana o con il lavoratore della fabbrica robotizzata, ricercando presunte centralità.

Ed è proprio la ricerca e la comprensione degli effetti indotti dalla trasformazione nella realtà sociale e produttiva che non ci fa ritenere esaurita la funzione dei C.d.F.; semmai si tratta di estenderla recuperandone la natura originaria e lottando per superarne limiti e contraddizioni non separabili dal funzionamento complessivo della macchina sindacale.
Che la funzione dei C.d.F. non sia esaurita è stato ampiamente dimostrato dagli stessi Consigli e dalla classe da essi rappresentata nel primo semestre di quest'anno.

Le trattative triangolari iniziate lo scorso autunno tra governo e parti sociali, per la verifica dell'applicazione dell'accordo del 22 gennaio, invece di approdare ad un legittimo recupero salariale da parte di chi aveva rispettato l'accordo, hanno subito messo in evidenza la filosofia del padronato e del governo Craxi: gestire questo periodo (caratterizzato dal binomio crisi-trasformazione) senza il confronto con le masse lavoratrici.

La strada, del resto, era già spianata dai cedimenti fin qui succedutisi: dal blocco delle liquidazioni alla pratica dell'EUR, alla istituzionalizzazione del sindacato e della contrattazione stabilita con l'accordo del 22 gennaio.

Il sindacato non aveva capito fino in fondo che i cambiamenti economici e sociali che stanno avvenendo impongono analisi rigorose sulle contraddizioni che gli stessi vanno producendo.

La crisi di lungo periodo che stiamo attraversando è caratterizzata dall'intreccio tra alta inflazione, diminuzione del prodotto interno lordo e dell'occupazione, grandi trasformazioni tecnologiche e sociali.

L'aggressione di questa crisi, quindi, doveva passare obbligatoriamente da parte dell'Esecutivo, attraverso una politica di bilancio e di programmazione rigorosa nei confronti di tutti i redditi.

Da parte sindacale invece si doveva porre come finalità una coerente politica rivendicativa per il sostegno all'occupazione, la lotta all'inflazione oltre alla difesa del potere d'acquisto dei salari.

Le tendenze autoritarie che già si andavano evidenziando da alcuni anni, quali la legislazione sui pentiti, il condono fiscale ed il disegno di legge sull'abusivismo edilizio, la mancata riforma istituzionale, in un contesto sociale soffocato da migliaia di scandali e di delitti non puniti, accompagnata da un processo di decadenza della D.C. e dalla perdita di rappresentatività sociale di partiti e sindacati, hanno indotto Craxi a giocarsi una carta assai rischiosa: la carta della "democrazia governante".

I lacci ed i laccioli di una coalizione formata da cinque partiti concorrenti al centro, tesi ad accaparrarsi fette di elettorato emergente, il gioco dei numeri parlamentari che non garantiscono una maggioranza diversa, il ricatto sempre presente delle elezioni anticipate hanno portato Craxi ed il suo partito a scegliere lo scontro frontale contro le organizzazioni sindacali, che pur tra mille difficoltà manifestavano ancora una certa robustezza, il movimento operaio ed il P.C.I.

Alcuni risultati (grazie anche alla CISL ed alla UIL) Craxi li ha ottenuti: la spaccatura, comunque ormai matura, della Federazione Unitaria e la messa in discussione dei C.d.F. come struttura omogenea dei lavoratori sul territorio nazionale.

Ma il tentativo di isolare la più grossa forza di opposizione ha elevato lo scontro sociale nel Paese e nel Parlamento in maniera tale da non essere più sopportato in un certo periodo nemmeno dal blocco moderato-conservatore che fa capo alla D.C. ed al P.R.I.

Il sindacato e la CGIL, in particolare, non hanno ancora capito completamente che non è possibile portare avanti le vecchie politiche dei due tempi o le nuove teorie dello "scambio politico", se non si ricreano i margini ed i presupposti per ridiventare "autorità salariale" e per rappresentare il movimento dei lavoratori.

La forza dei lavoratori, sviluppata con la criticabile ma pur grandiosa manifestazione del 24 marzo a Roma, non può essere considerata (come taluni hanno fatto) sola forza della CGIL o del PCI, anche se questi hanno dato un contributo preponderante.

Le istanze di democrazia sindacale, di protagonismo, di progettualità politico-sindacale sviluppata dal Movimento degli Autoconvocati nelle sue assemblee nazionali e durante i tre mesi di lotte succedutesi al Decreto, erano ben presenti a Piazza San Giovanni e si sono sentite chiare e forti nonostante i tentativi di soffocamento del PCI.

Un segno pesante di questa presenza, oggi indesiderata, è vivo in tutto il movimento operaio e soprattutto tra il popolo comunista.

Questa esperienza ha determinato la priorità delle battaglie degli anni '80; priorità imposteci dalla trasformazione e dall'esigenza di contrattare e di controllare questi processi, di spostare cioè il baricentro della contrattazione dal centro alla periferia (luogo di lavoro, settore, categoria e territorio).

Occorre passare dalla massima centralizzazione alla massima articolazione della contrattazione.
Rilanciare ed articolare la contrattazione è possibile solo rivitalizzando i C.d.F., unico strumento realmente unitario dei lavoratori, o meglio come veniva precisato nella relazione all'Assemblea Nazionale Autoconvocata dei CdF del Pallido a Milano: "...i Consigli sono la sola struttura unitaria rimasta in un sindacato che può esistere solo in quanto unitario, per cui la rottura dell'unità che si è oggi verificata ha azzerato le possibilità di direzione politica in un momento in cui il padrone sta attaccando pesantemente.

In questa situazione il ruolo fondamentale dei Consigli è quello di garantire la direzione politica unitaria del sindacato.

L'unità può essere ricomposta solo assieme ai lavoratori, nel loro dibattito.

Una unità fuori o contro i lavoratori non può essere vera unità.

Per questo non è possibile accettare qualsiasi compromesso che ponga in discussione il futuro del sindacato sulla base dell'unità dei Consigli di azienda e di zona e che non cerchi di rilanciare il processo di rifondazione del sindacato unitario anche ai livelli superiori, diffondendo i Consigli anche nei settori dove sono mancati sinora, mettendo in discussione la pariteticità ed i voti di sigla.

E' indispensabile sviluppare una forte battaglia politica per il rilancio dell'unità, dell'autonomia, della democrazia.

I Consigli devono assumere l'intera linea sindacale sul terreno della politica economica, indicando strade alternative, fondate sugli interessi dei lavoratori, costruite assieme a loro, ponendo obiettivi di solidarietà, unificazione ed interesse generale.

Per questo occorre:

Riconfermiamo la natura dei Consigli: lo strumento consiliare non è contrapposto alla battaglia nelle strutture, ma è uno strumento di battaglia politica per spostare i rapporti di forza anche nelle strutture confederali, sulla base di una forte spinta unitaria.

I Consigli devono essere un soggetto capace di stimolare e di raccogliere l'aggregazione di un ampio blocco sociale, rapportandosi ad altri strati popolari, come i pensionati, gli studenti, i disoccupati, i cassaintegrati, impegnandosi in battaglie per la pace, per l'ambiente, la democrazia, che non sono terreni separati, ma intimamente connessi al modello di società, di politica economica, di relazioni sociali.

Siamo convinti che l'intervento dei comunisti anarchici debba andare in questo senso, oggi, per arginare l'offensiva padronale e domani in una prospettiva rivoluzionaria i Consigli non possono rimanere confinati nella fabbrica, con il compito di semplice difesa della forza-lavoro, ma devono sedimentarsi sul territorio e nel sociale, creando una rete articolata di centri di potere e decisione, espressione di forme di democrazia diretta, intelaiatura portante di qualsiasi progetto credibile di autogestione.


(Trascrizione dattiloscritto, originale presso il Centro di Documentazione Franco Salomone, Fano.)