È possibile una teoria delle classi sociali senza una teoria del valore?

di Saverio Craparo

 

1. Premessa

Da più tempo è stato individuato come uno dei temi di teoria prioritari da affrontare, quello della definizione delle classi sociali. Ma nonostante ciò, il dibattito ha stentato a partire e, a tutt'oggi, l'unico intervento su questo argomento è quello di Alberto(1). È evidente che questa lentezza non è il riflesso di un disinteresse dei compagni di fronte a queste tematiche, ma piuttosto il frutto di una grossa carenza di strumenti, che si incontra subito nell'affrontarle. Il movimento anarchico è sempre stato povero di analisi in questo senso, ma per di più praticamente assente in questo secolo. Ma non è che le cose vadano meglio in campo marxista: rimane fondamentale il contributo di Marx, ma il recente affiorare di crescenti difficoltà di inquadramento ha contribuito solo ad una diaspora di tesi, tendenti solo a dare giustificazioni ad hoc al proprio lavoro politico, più che a riproporre in tutta la sua vastità il problema. Così da un lato una parte di Autonomia Organizzata riscopre la produzione del '68 tedesco per giustificare o la propria presenza esclusiva in ceti intellettuali(2), o per sostenere teoricamente il rifiuto del sindacalismo riformista alla ricerca di una mitica classe operaia incorrotta e genuinamente rivoluzionaria(3). Così dall'altro il PCI scopre che un paese a capitalismo maturo non funziona più secondo le regole classiche de Il Capitale, e recupera il concetto terzointernazionalista di masse popolari, per piegarlo ulteriormente alle proprie esigenze di porsi come forza interclassista di governo, sostenuta da una teoria del lavoro produttivo che ingloba i capitalisti ed esclude i lavoratori dei servizi.

Dal panorama qui brevemente tracciato, ma che preciserò meglio in seguito, appare chiaro il perché i compagni che puntano a collocarsi in quella che un tempo veniva definita un'ottica di classe, guardino con sospetto queste funambolerie e tendano a rinchiudersi nel mondo calmo e sicuro della teoria del valore di Marx; questo spiega anche perché essa vada ora così di moda tra i comunisti anarchici. In sostanza, se l'attacco a questa teoria deve servire poi a giustificare qualsiasi bieca operazione riformista (Colletti potrebbe esserne l'emblema) occorre attestarsi su quella, perché almeno offre un terreno sicuro per definire ancora una volta il concetto, per noi basilare, di centralità operaia. È questa in sostanza l'idea che ha guidato Alberto e che muoveva le perplessità di Antonio quando parlavamo di queste cose: […] i socialisti anarchici hanno il merito di aver conservato più a lungo la tradizione marxista, persino (e questo è un torto) ciò che in essa vi era di meno buono […](4), sottolineava Fabbri nel 1906, e mi pare che la cosa si stia ripetendo, anche perché non vi è un dibattito sufficientemente accorto e informato in casa marxista che non di per scontata almeno l'inservibilità della teoria del valore. Ripeto che credo che la situazione dipenda dalla paura di lasciare un terreno sicuro per definire la centralità del processo produttivo, per avventurarsi nelle sabbie mobili del revisionismo. Ebbene credo anche però che questo vada fatto.

 

2. Inadeguatezza della teoria del valore-lavoro

2.1 La teoria del valore-lavoro in Marx

Ad avere pazienza per leggersi le prime pagine de Il Capitale, si scopre senza troppa difficoltà che la teoria del valore-lavoro è priva di un suo fondamento logico. Marx l'ha mutuata dagli economisti classici (Smith, Mill e Ricardo), sembrandogli la base opportuna su cui fondare oggettivamente (misurabilmente) un'analisi dello sfruttamento che il proletariato subisce nel processo produttivo capitalistico. C'era cioè il bisogno in Marx di quantificare, rendere oggettiva e verificabile la categoria dell'alienazione (cioè il mancato controllo che il produttore ha sul proprio prodotto) da lui precedentemente introdotta(5). Si capisce infatti che l'alienazione è categoria politicamente pregnante e filosoficamente e socialmente generale (è valida per qualsiasi società non autogestita), ma un po' troppo evanescente per basarci una teoria economica che facesse da supporto reale all'azione di autoemancipazione dei lavoratori; occorreva trovare le forme specifiche dell'alienazione nel sistema di produzione capitalistico, in modo da rendere conto del concreto svilupparsi di quest'ultimo, identificando l'origine del suo perno centrale: il profitto. Questo metro di misura fu identificato da Marx nella teoria del valore-lavoro, elaborata da Ricardo, e nella conseguente teoria del plusvalore. È bene ripercorrere insieme lo sviluppo dell'argomentazione per capire meglio le critiche suaccennate.

L'utilità di una cosa ne fa il valore d'uso(6). Il valore d'uso di una merce è quindi dato dalla possibilità di soddisfare dei bisogni sia che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia(7), sia che li soddisfino immediatamente come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta come mezzo di produzione(8). Questo del valore d'uso è un capitolo sempre citato, ma mai inteso fino in fondo. Spesso si sente dire, per esempio, di voler passare da una società a base di valori di scambio ad una società a base dei valori d'uso, intendendo da una società capitalistica ad una società comunista, dimenticando che l'unica società possibile basata solo sui valori d'uso e una società di autoproduttori. In realtà in Marx il valore d'uso non è la realtà buona delle cose a cui il sistema di produzione capitalistico sovrappone la distorsione dei valori di scambio (in quanto società mercantile), rendendo gli oggetti merci, ma è invece la base materiale che rende merce un oggetto; un oggetto è merce non perché viene scambiato, ma perché può essere scambiato e può essere scambiato solo in quanto è in grado di soddisfare un bisogno reale, ha cioè un valore d'uso. È quindi banalmente falso da un punto di vista marxista (s'intende) quanto sostiene Alberto che il lavoro umano [è] alla base della formazione del valore, cioè di quel qualcosa che viene aggiunto alle materie prime (o meglio al materiale grezzo) dandogli il carattere di merce, almeno in fieri, cioè di prodotto che può essere scambiato sul mercato(9). Non intendo contestare, almeno per ora, l'equazione tra lavoro umano e valore (di scambio) delle merci, ma ribadire che il processo è inverso: non si va dal lavoro al valore di scambio e quindi alla creazione della merce in quanto tale, ed infine alla sua possibilità di essere scambiata sul mercato, ma inversamente da questa possibilità di essere scambiata sul mercato, dal suo valore d'uso al suo valore di scambio; quest'ultimo, come vedremo meglio, non determina lo scambio ma la misura in cui esso avviene.

La qualità di un oggetto di essere merce è preesistente alla definizione della misura adatta allo scambio, che per essere tale necessita di un metro, di un parametro. D'altra parte è vero che non tutto quello che viene scambiato è frutto del lavoro: si pensi ai diritti di sfruttamento di un giacimento. Questa considerazione mi servirà in seguito.

Al momento di passare dalla qualità delle merci, cioè dal loro valore d'uso, alle quantità paragonabili per un equo scambio, Marx ricerca qualcosa che sia in comune tra diverse quantità di merci di diversa qualità, quel qualcosa che ne determina l'equivalenza nello scambio. Questo qualcosa di comune non può essere una qualità geometrica, fisica, chimica o altra qualità naturale delle merci. Le loro proprietà corporee si considerano, in genere, soltanto in quanto le rendono utilizzabili, cioè le rendono valori d'uso. Ma d'altra parte è proprio tale astrarre [sottolineatura mia] dai loro valori d'uso che caratterizza con evidenza il rapporto di scambio delle merci(10). A questo punto il gioco è fatto: se come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo del valore d'uso; allora rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro(11).

Tralasciamo per il momento il discorso dell'astrazione, che ci riguarderà più da vicino in seguito. Quello che mi preme sottolineare è a questo punto solo il salto logico: una merce che è tale solo in quanto è in grado di soddisfare dei bisogni, è oggetto di scambio solo in quanto si prescinda da questa sua possibilità. È evidente la forzatura che discende da un metodo di dimostrazione errato, in quanto quello che si vuole dimostrare è già contenuto nelle ipotesi, ma soprattutto da un'assunzione della categoria dello scambio come di qualcosa che sta al di fuori dei rapporti reali tra gli uomini. Marx sostiene che gli uomini stanno tra loro in rapporto tramite lo scambio nella società capitalistica, ma questo scambio è definito come una condizione necessaria ed esterna alla società: le merci devono essere scambiate al di là di ogni ragionevole perché, ed è questo stato di necessità che fa dello scambio un'idea platonica, di cui la realtà del commercio è una imitazione mal riuscita, e delle merci degli oggetti non più visti come valori d'uso. In questa contraddizione si inserirà, come vedremo meglio in seguito, la critica marginalista.

Il processo di rinvio al mondo delle idee di cui la realtà è solo un pallido riflesso non è ancora finito: il valore di scambio a sua volta è solo modo di espressione e forma fenomenica [sottolineatura mia] del valore, il quale tuttavia in un primo momento è da considerarsi indipendente da quella forma(12). Cosa sia questo valore tout court non è definito se non in questi termini; qui Marx è veramente schiavo della filosofia idealistica tedesca.

Questa ulteriore astrazione è il pendant di un'analoga astrazione che partendo dalla constatazione che non tutti i lavori sono eguali e non tutti i lavoratori sono eguali, va a definire il lavoro socialmente necessario come media del lavoro astrattamente [sottolineatura mia] umano(13).

Non mi interessa qui seguire il processo; mi basta solo rilevare l'inconsistenza della dimostrazione. Un'utile esercizio è quello di leggere il primo capitolo sostituendo al lavoro umano i costi di produzione e constatare come tutto fila, senza alcun bisogno di ricorrere a definizioni metafisiche quali il fluido(14) lavoro, sostanza vivificante(15), che si congela(16), cristallizza(17) in modo che, in diretta contrapposizione all'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell'oggettività del valore delle merci stesse(18). Altra lettura interessante è l'esempio che Marx stesso fa sul prezzo dei diamanti(19), dimenticando che proprio questo era uno dei controesempi più citati all'epoca contro la teoria del valore-lavoro; certo quella di Marx è una non soluzione: infatti mi chiedo quanto sia verificabile in concreto il discorso del molto lavoro medio necessario (socialmente?) per il loro reperimento.

Quello che mi interessa è fare solo alcuni rilievi di fondo. La teoria del valore-lavoro ha una sua dignità solo in una società in cui lo scambio sociale è eguale, ovverosia dove le merci si scambiano in regime di libera concorrenza: un produttore scambia il proprio prodotto con un altro ad equivalenza di lavoro speso perché quello è (o meglio sarebbe) l'unico punto di livellamento e di confronto tra valori d'uso differenti e lo scambio avviene quando le richieste si equilibrano sul punto comune; tale meccanismo è automatico e possibile solo presupponendo la concorrenza tra i produttori. C'è però un punto più profondo: il valore è individuato nel lavoro solo presupponendo una società in cui lo scambio avviene in maniera primitiva tra i produttori. Vi è un'ottica di mercato medievale in cui il sabato i produttori si incontrano sulla piazza principale e si scambiano i loro prodotti, attestandosi su di un punto comune: il lavoro speso. Riducendo troppo al nocciolo l'essenza dello scambio la logica che inevitabilmente ne esce è questa: è uscita dalla porta l'utilità delle merci ed ogni acquirente è visto astrattamente come un produttore in grado di scambiare qualcosa indipendentemente dai bisogni, cui sembra poter soddisfare col proprio lavoro; infatti lo scambio si attesta sul tempo di lavoro in quanto se un produttore richiedesse più del valore, l'acquirente o potrebbe trovare un altro produttore disposto a scambiare al giusto valore o potrebbe soddisfare da sé al bisogno in eguale tempo lavoro.

È chiaro che via via che procede la stesura de Il Capitale, il quadro che Marx va facendo si complica, assumendo in sé tutte le complicazioni di una società moderna (della meta del XIX° secolo) capitalistica; quello che io contesto è che il metodo delle complicazioni successive sia valido, quando il punto di partenza è in contraddizione col punto di arrivo per eccessive banalizzazioni.

2.2 Successivi sviluppi della teoria del valore

Come già detto, Marx non ha proposto per primo la teoria del valore-lavoro, ma l'ha sviluppata, adattandola alla quantificazione dello sfruttamento nella società capitalistica, dopo averla desunta dagli economisti classici (Smith, Ricardo, etc.). per tutta la prima metà del XIX° secolo la teoria del valore-lavoro era universalmente accettata, come era universalmente accetta la fiducia nel lassaiz faire, ovverosia la fiducia che le spinte diverse presenti nella società tendessero ad equilibrarsi naturalmente, producendo sviluppo. Fanno parte di questa fiducia nel naturale equilibrio nelle leggi di sviluppo economico della società, la teoria della regolazione demografica di Malthus e la legge bronzea dei salari di Lassalle. Tutto ciò è inscrivibile in un quadro di positivismo dominante, in un atteggiamento che vede nella natura (e nella società) un mondo esterno all'uomo; questi ne investiga le leggi immutabili, i cui frutti sono l'ordine naturale delle cose. Questa fiducia nella bontà dell'ordine naturale delle cose, nel naturale riaggiustarsi degli equilibri, fiducia nata a meta del XVIII° secolo con i Tableaux economiques di Quesnay, subì dei duri colpi nella seconda metà del secolo successivo.

Il regolare ripetersi di crisi di sovrapproduzione sempre più violente, come lucidamente previsto da Marx, rese evidente la crescente difficoltà ad uscirne ogni volta e pose con forza il problema di aggirare il meccanismo spontaneo del mercato, per avviare i primi timidi tentativi di programmazione. Dopo il 1866 inizia un periodo noto come lunga depressione, che segna il nascere dei primi cartelli, minando il principio della libera concorrenza.

Contemporaneamente nascono in economia le teorie marginaliste. Queste sono importanti per due motivi, ai fini del nostro discorso, anche se ben presto si riveleranno inadeguate. Il primo è che furono veicolo dell'introduzione nello studio dell'economia di un uso massiccio di tecniche matematiche di calcolo, preciso riflesso del bisogno di controllo sul processo produttivo e sul mercato, non più visti come entità autoregolementatesi. La cosa più interessante è comunque il riapparire dell'utilità, quale elemento fondamentale di formazione del valore; invece di partire dallo scambio come attività centrale dell'esistenza dell'uomo per l'altro, dell'esistenza sociale dell'uomo, i marginalisti partono dall'utilità che l'acquirente vede nell'oggetto di scambio. Non è più uno scambio tra produttori, uno scambio tra merci in cui il denaro funge solo da equivalente che media lo scambio, ma l'acquirente fa continuamente un confronto tra il costo degli oggetti ed i bisogni che essi possono soddisfare: nel punto di ottimizzazione di questi due aspetti si colloca la scelta dell'acquirente, nel punto cioè in cui più alta è l'utilità marginale del fruitore rispetto al costo che offrono le merci. Nelle teorie marginaliste scompare il mondo della produzione e domina il mercato, lo scambio, cioè quello che in Marx era solo un momento meccanico che registrava i valori delle merci acquistati al momento della loro trasformazione per mezzo del lavoro.

Mi pare comunque evidente come le teorie marginaliste rispondessero, o tentassero di rispondere, all'esigenza di conoscere meglio il mercato per programmarlo e registrassero l'affacciarsi delle classi subalterne al ruolo di consumatori; ed è interessante notare come lo svincolare lo scambio da regole meccaniche di fatto non in grado di influire nello sviluppo sociale, comporti una reintroduzione dei valori d'uso.

La nascita dei cartelli ed in seguito dei trusts, pur garantendo alla fine del XIX° secolo un nuovo ciclo espansivo durato fino al 1929, quello che va sotto il nome di seconda rivoluzione industriale, non risolse completamente i problemi. Le crisi non erano più violente e generali come prima, ma si verificavano con preoccupante frequenza, fino a che gli anni trenta non mostrarono l'impossibilità di un nuovo rilancio espansivo. Ancora una volta in corrispondenza di questo periodo mutano le teorie economiche. Sraffa nel 1922 scrive un articolo in cui rifiuta il concetto di valore. Con J. M. Keynes la circolazione delle merci acquista un ruolo determinante; le crisi non si risolvono con manovre recessive, ma sostenendo il mercato mantenendo i salari a spese della collettività. Le classi sfruttate non sono più solo produttori, ma divengono principalmente consumatori: nascono la produzione di massa e la pubblicità. Da qui in poi la teoria del valore scompare e se ne perde ogni traccia negli sviluppi più recenti delle teorie economiche.

2.3 La teoria del valore-lavoro nella storia della sinistra

Se nell'evoluzione delle teorie economiche borghesi la teoria del valore perde progressivamente d'interesse, ben diverso è il suo destino nello sviluppo delle organizzazioni di classe. Proprio per il meccanismo accennato all'inizio, cioè la sua immediata capacità di fornire un cardine per l'individuazione oggettiva delle classi sfruttate, la storia di questa teoria è un continuo tentativo di salvarla dalle critiche (sempre tendenti ad una revisione delle modalità della lotta di classe, in verità) mossele, arrampicandosi sugli specchi di un suo improbabile adattamento. Le insufficienze della teoria del valore-lavoro furono subito presenti e a poco valsero i tentativi di Marx di replicare alle critiche, anzi i successivi passi furono peggiori della primitiva dimostrazione(20).

Nel 1906-1907 L. Von Bortkiewicz(21) ha dimostrato irrefutabilmente che la legge del valore-lavoro è incapace di rendere conto della formazione dei prezzi di mercato in una società (e mi pare che non si possa dubitare che questo sia il caso di una qualunque società capitalistica) in cui convivano produzioni a diversa composizione organica di capitale; ora una teoria economica che non spieghi la formazione dei prezzi è come una teoria dell'evoluzione che non spieghi le caratteristiche delle specie esistenti: totalmente inservibile.

Nello stesso periodo un anarcosindacalista olandese, attivo all'interno della CGT francese, veniva proponendo un'articolata teoria economica in più volumi, il primo dei quali dedicato alla teoria del valore. In questo lavoro Cornelissen tentava un'integrazione tra la teoria del valore-lavoro e la teoria dell'utilità marginale, un'integrazione tra produzione e mercato, tra il valore di scambio marxiani ed il valore d'uso, che solo giustifica l'acquisto da parte del consumatore.

La decadenza del movimento anarchico, da una parte incapace di proseguire la ricerca, ed il precipitare dell'ortodossia marxista, dall'altra, nella cristallizzazione terzinternazionalista, bloccarono questi fermenti. Fino agli anni sessanta il dibattito non riprese neppure in campo marxista e la teoria del valore-lavoro fu acquisita come un dato non suscettibile di essere rimesso in discussione; così mentre il capitale veniva elaborando teorie più congeniali al suo sviluppo, la sinistra perseguiva un continuo riaggiustamento della teoria alle situazioni in perenne cambiamento. Venne così inventata la soluzione prospettata anche da Alberto, dell'automazione, con il valore incorporato nelle macchine che da queste si trasmette ai prodotti; così il lavoro originario, come un fluido incompressibile, si espande dai suoi prodotti ai prodotti dei suoi prodotti, così che ogni derivazione, anche la più lontana, mantiene in sé un minimo della favilla originaria, come l'ultimo dei cieli conserva un po' del moto del primo mobile, con l'operaio nella veste del dio, motore immoto, che infonde alle merci l'elain vitale. È ben difficile trarre da questa metafisica assurdità una teoria quantitative applicabile.

Altra spiacevole conseguenza è che, in questo quadro, è ben difficile anche controbattere la teoria dell'operaio sociale sostenuta da Autonomia Organizzata: se è vero che è il lavoro che dà valore, non si può negare che il lavoro di ricerca fornisce conoscenza tecnologicamente sfruttabile nel processo produttivo, come è vero che il lavoro domestico contribuisce alla riproduzione della forza lavoro e quindi anch'esso entra a buon diritto nel processo produttivo; ne consegue, altrettanto a buon diritto, il concetto di fabbrica diffusa e di operaio sociale che fa smarrire ogni idea di lavoro produttivo e di centralità operaia.

2.4 Alcune indicazioni di lavoro

Credo di aver spiegato perché i problemi sulla teoria sul valore-lavoro non si concentrano solo sull'incongruenza dell'automazione, non risolvibile comunque con la trasmissione del valore dal prodotto macchina al prodotto oggetto, che comporta la spiacevole conseguenza di un singolo atto produttivo valorizzante che si perpetua o può perpetuarsi all'infinito. Occorre quindi riaprire il dibattito sull'impostazione di una teoria economica che prescinda dalla teoria del valore-lavoro, o meglio da una qualsiasi teoria del valore, ente astratto e privo di contenuto euristico. Non credo infatti che il capitale ragioni più da tempo in termini di valore. Iniziare questo dibattito non è il compito che mi sono prefisso in questo articolo, ma forse è opportuno fornire alcuni spunti che necessitano di verifica ed approfondimento, con una lettura seria ed attenta di gran parte dei libri che indicherò in bibliografia e di altri ancora.

Certo è che l'essersi attestati sulla difesa di una teoria inaccettabile, ha permesso ai revisionisti, partendo da questi aspetti indifendibili del marxismo, di attaccare anche i suoi presupposti validi, come il materialismo storico; una base debole favorisce le fughe a destra di chi già a destra vuole andare(22).

Uno dei punti di forza della teoria del valore-lavoro è quello di implicare automaticamente l'essenzialità del lavoro nella società. Certo è che è difficile credere che il lavoro sia essenziale per dare valore alle merci, altrimenti prive di questo attributo essenziale che le rende scambiabili. Mi sembra più realistico partire da un altro punto di vista e cominciare a considerare essenziale il lavoro per il semplice e banale motivo che gli oggetti fruibili per il soddisfacimento dei bisogni sono scarsi in natura e che generalmente occorre una serie di operazioni per rendere le materie prime che si trovano in natura adatte ad essere adoperate per i più svariati scopi; si dà il caso che queste operazioni siano raramente piacevoli e vadano sotto il nome di lavoro e finché non saranno escogitati altri metodi difficilmente potremo fare a meno di esso. Appare evidente che per una certa parte di umanità è più conveniente far svolgere ad altri queste operazioni. Il lavoro è dunque essenziale non per la sua capacità di vivificare le merci, fornendo loro valore, ma per produrle, per produrre quelli che in sostanza sono sempre e solo valori d'uso. Le leggi economiche fondamentali mi paiono, quindi, essere ancora quelle più semplici dell'utilità dei beni, che devono pur soddisfare qualche bisogno per essere acquistati da qualcuno, quindi il loro valore d'uso, e la legge della domanda e dell'offerta. Proprio su queste due molle si è mosso il capitale. Da un lato ha cercato di allargare la cerchia dei valori d'uso, creando nuovi bisogni tramite la pubblicità, dall'altro ha cercato di vanificare la legge della domanda e dell'offerta con la creazione dei monopoli, tesi a forme di controllo del mercato, riducendo la concorrenza e quindi la pressione verso il basso dei prezzi a causa dell'eccessiva offerta.

Il problema centrale del capitalista non è quello di acquistare forza lavoro per dare valore alle merci e ricavare il plusvalore, ma quello di massimizzare i profitti: l'affermazione è banale e si potrebbe obiettare che poco importa la psicologia individuale del capitalista, rispetto alle leggi che regolano in concreto la sua accumulazione di profitto. Invece proprio da questa banalità occorre ripartire, perché le leggi dettate sono impotenti a rendere conto proprio della formazione del profitto e vincolano lo sviluppo del capitale ad una logica ferrea che non ha riscontro storico: dalla legge del valore-lavoro, reiterando l'assunzione di un regime di mercato a libera concorrenza (ribadisco che questa assunzione equivale ad una ininfluenza del mercato nel meccanismo di formazione del profitto) si giunge automaticamente alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Se la molla centrale del capitalismo non è la produzione, come vorrebbe il marxismo, ma il profitto, è necessario partire dai costi di produzione in generale come input e dal controllo del mercato come output produttivo, scoprendo che ciò che conta, in realtà, è da una parte la minimizzazione dei primi, e dall'altra la massimizzazione dei prezzi di mercato. Ed è chiara anche da questo punto di vista la centralità del lavoro ed anche quella del salario, visto che nei costi di produzione la parte più elastica è proprio questa, mentre tutte le altre sono soggette alla spinta al ribasso del capitalista acquirente, ma contemporaneamente alla spinta al rialzo di chi immette i beni sul mercato per realizzare il massimo di profitti: i salari sono la lotta di classe, gli altri costi di produzione divisione di profitti.

 

3. Individuazione delle classi sociali

3.1 Teoria del valore lavoro e classi sociali

Dicevo all'inizio che la riluttanza ad abbandonare la teoria del valore-lavoro è legata alla immediatezza rassicurante con cui fornisce l'identificazione della classe sfruttata (connessa alla quantificazione scientifica di questo sfruttamento), con la centralità del lavoro produttivo (di fabbrica), cioè della classe operaia. È così che si spiega come Del Monte dopo aver a lungo disquisito sulle inefficienze della teoria dal valore-lavoro per la determinazione delle modalità di scambio tra le merci, finisce per salvarla come punto di riferimento essenziale per la comprensione e negazione del processo di accumulazione capitalistico(23), dove non è chi non veda la contraddizione, ma nel contempo il bisogno di un nodo saldo dal punto di vista ideale. Anche Cini(24) in un articolo, che già dal titolo lega la teoria del valore-lavoro alla realtà dello sfruttamento capitalistico e la sua negazione al relegamento dello sfruttamento nel mondo delle apparenze, ha tentato di salvarla, cercando di mostrare come da essa si possano ricavare i reali prezzi di mercato, con un procedimento analogo alla teoria delle perturbazioni in fisica teorica; ma la dimostrazione non regge, perché la teoria delle perturbazioni per essere applicabile, presume anche, cosa che i fisici teorici in realtà dimenticano bellamente, questo non del tutto trascurabile particolare, che i risultati calcolati prima delle sua applicazione siano già sufficientemente vicini ai dati reali, e quindi nella fattispecie, che i prezzi ottenuti con la semplice applicazione della teoria del valore-lavoro siano vicini ai prezzi reali di mercato, cui si arriva con una serie di aggiustamenti successivi: in pratica quindi la dimostrazione dell'applicabilità della teoria del valore-lavoro presuppone la sua validità. A che questo sforzo scientista, se non per mantenere fisso il piede su quella che sembra essere l'unica teoria in grado di rendere dimostrabile e tangibile lo sfruttamento capitalistico?

3.2 La teoria classica delle classi sociali

La struttura classica delle classi sociali, incernierata sulla teoria del valore-lavoro, è tale che può definirsi a stella (Fig. 1.). La classe operaia, il proletariato urbano, quale strato produttivo e

fig. 1

producente valore, sta al centro e da esso si diramano tutti i ceti potenzialmente alleati; per ognuno di essi va individuata una strategia delle alleanze ben determinata, ma non vi sono strumenti per individuare alleanze privilegiate o prioritarie. Inoltre è scontato il rapporto di alienazione dei lavoratori nei confronti dei mezzi di produzione (il capitalismo basa la sua esistenza sulla proprietà privata dei mezzi di produzione) e riesce difficile individuare le differenze che si trovano nell'unificare classe e coscienza di classe tra i lavoratori di fabbrica ed i lavoratori a domicilio.

3.3. Spunti per una nuova teoria delle classi sociali

3.3.1 Un primo approccio

Cercherò ora di tratteggiare una teoria delle classi sociali totalmente a prescindere da una qualsiasi teoria del valore. Per far questo occorre innanzi tutto distinguere tra lavoro storicamente necessario e lavoro socialmente necessario. Il primo è il lavoro necessario al funzionamento di una società come storicamente essa si presenta. Il secondo è il lavoro necessario in linea di principio in una società utopica, ideale o comunista anarchica. Cerchiamo di capirci meglio con un esempio pratico. Il capitale ha bisogno per il suo funzionamento di una serie di lavori (amministrazione, pubblicità, intermediazione distributiva, ricerca finalizzata al suo tipo di organizzazione del lavoro) che sono essenziali per il suo corretto sviluppo, ma non sono prevedibili in forme analoghe in una società autogestita. D'altra parte in una società autogestita i servizi sociali (scuola, sanità, trasporti, ecc.) mantengono una loro validità, anzi devono tendere ad espandersi migliorando in qualità. È chiaro cioè che alcuni lavori sono produttivi per il capitale, che tende ad espanderli, mentre altri sono per lui improduttivi e quindi tende a limitare la spesa in essi, per quanto essi siano socialmente essenziali. Il capitale tende ad espandere il lavoro che gli è storicamente necessario, limitando l'impegno nel lavoro socialmente necessario, nei servizi come salario sociale. la parte comune tra lavoro storicamente necessario e lavoro socialmente necessario (Fig. 2.) rappresenta quella parte di

fig. 2.

lavoro che è necessaria per il capitale, ma sarà altrettanto necessaria in altri modelli sociali e produttivi: lo chiameremo lavoro produttivo e, rappresentando la parte incomprimibile del lavoro sociale, coloro che vi sono impegnati rappresenteranno il nucleo centrale della nostra teoria delle classi sociali. È chiaro che questo lavoro è quello che riguarda la produzione di beni e di merci. Tutto ciò ovviamente prescinde dalle considerazioni circa la reale utilità sociale dei beni prodotti, problema che riguarda solo la riconversione delle forze produttive. Cioè la loro utilizzazione in funzione del soddisfacimento dei bisogni sociali collettivamente espressi e programmati; riconversione che deve vedere protagonisti i lavoratori in tali attività produttive impegnati, e che ne fa strategicamente il nucleo della trasformazione sociale.

Detto A il lavoro storicamente necessario e B il lavoro socialmente necessario, allora la parte comune di A e B rappresenta la classe propriamente detta, il proletariato, mentre le parti non comuni di A e di B la classe periferica. Ognuna delle due sezioni della classe periferica è suscettibile di una politica delle alleanze, ma mi sembra che questa impostazione dia indicazioni di priorità e di metodo. Infatti se A è un alleato immediato della classe e se è evidente che essa tratta col capitale da posizioni di forza, questa alleanza non può essere vista strategicamente in una prospettiva di conservazione del ruolo di questi ceti e quindi in ultima analisi si rivela essere un'alleanza difficile. Al contrario B è debole nella trattativa col capitale, ma rappresenta l'alleato strategicamente più vicino al proletariato. Questo ragionamento è antagonista a quello dei ceti medi produttivi ed al contenimento della spesa pubblica, e punta su di un'alleanza stretta con i lavoratori dei servizi ed ad un'alleanza dal punto di vista proletario con i ceti medi, ad un'impostazione che punta sul loro reale sfruttamento, piuttosto che sulla coscienza di questo; coscienza che anzi il capitale tende ad impedire con parziali e spesso fittizi privilegi.

È chiaro che restano valide in questo schema tutte le considerazioni fatte da Alberto sulla non identità tra classe e coscienza di classe, e sulla necessità di individuare oggettivamente la centralità proletaria, al di fuori della reale coscienza che il proletariato ha del suo stato in una determinata fase storica.

3.3.2 Un tentativo di raffinare lo schema

A questo punto propongo quello che potrebbe essere chiamato modello a piramide, un tentativo di migliorare i fattori di cui lo schema è in grado di rendere conto. La proposta è schematica perché per ora questo è solo un tentativo che aspetta di essere approfondito, dopo una prima verifica di discussione con i compagni.

fig. 3.

Come si vede (Fig.1.) i due cerchi sono stati sostituiti da due triangoli parzialmente sovrapposti. È stata aggiunta una base e sono state tirate due linee orizzontali. Andando dal basso verso l'alto ho aggiunto una dimensione, che è quella del rapporto dei lavoratori con i mezzi di produzione. Al di sotto della prima linea ci sono i lavoratori che possiedono solo la loro forza lavoro e non hanno nessun controllo sul ciclo produttivo; al di sopra ci sono quei lavoratori che sono proprietari di almeno una parte dei mezzi di produzione che usano o che controllano almeno in parte la collocazione del proprio lavoro nel ciclo produttivo: l'ho chiamata linea della proprietà-controllo. La seconda linea, che ho chiamato della sussistenza-autonomia, lascia al di sopra di sé quei lavoratori che possiedono i mezzi di produzione che usano ad un livello tale da ricavarne tutto il necessario o che svolgono mansioni autonome e non subalterne nel ciclo produttivo. La base bianca rappresenta i disoccupati.

Entrando nel merito dei singoli spicchi abbiamo la seguente legenda:

0 disoccupati;
1 operai, braccianti;
2 piccoli contadini, ritorno integrativo alla campagna, la parte più povera dei lavoratori a domicilio;
3 artigiani, la parte più elevata dei lavoratori a domicilio;
4 impiegati statali (non dei servizi sociali), impiegati di fabbrica, impiegati di ditte di servizio;
5 capi di fabbrica, dirigenti intermedi;
6 commercianti, pubblicitari, dirigenti;
7 lavoratori dei servizi sociali;
8 tecnici ed intellettuali;
9 professionisti.

È ovvio che ognuno di questi settori abbisogna di una particolare impostazione della politica delle alleanze, in relazione alla diversità di impostazione del loro rapporto tra la loro collocazione di classe e la coscienza di tale collocazione, in derivazione della loro diversa collocazione nel ciclo produttivo, del loro diverso grado di controllo-autonomia su di esso, del diverso reddito che sale ovviamente andando verso la cima della piramide. Da questo schema possiamo anche ricavare anche delle priorità, tenendo conto delle considerazioni svolte alla fine del paragrafo 3.3.1. I più immediati alleati del nucleo forte e centrale di classe, cioè del numero 1, sono i numeri nell'ordine, 2, 7 e 4 e solo successivamente i numeri nell'ordine, 3, 8 e 5, potendosi a mio avviso del tutto trascurare i numeri 9 e 6.

Un discorso a parte meriterebbero i disoccupati, che, pur essendo oggettivamente vicinissimi al proletariato, per la loro collocazione e per l'uso che ne fa il capitale di esercito di riserva, hanno una funzione antagonista, che pone problemi notevoli di lavoro politico di non facile soluzione.

 

Note:

1. STEFANEL ALBERTO, Analisi delle classi sociali, in BM, n° 5, pp. 20-23.
2. KRAHL H. J., Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 19782.
3. ROTH KARL HEINZ, L'altro movimento operaio, Feltrinelli, Milano 1977.
4. FABBRI LUIGI, L'organizzazione operaia e l'anarchia, CP, Firenze 1975, p. 4.
5. MARX KARL, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1970, pp. 69-86.
6. MARX KARL, Il Capitale, Libro I°, Edizioni Rinascita, Roma 19564, p. 48.
7. Ivi, p. 47.
8. Ibidem.
9. STEFANEL ALBERTO, cit., p. 20.
10. MARX KARL, Il Capitale … cit., p. 49.
11. Ivi, p. 50.
12. Ivi, p. 51.
13. Ibidem.
14. Ivi, p. 64.
15. Ivi, p. 51.
16. Ivi, p. 52.
17. Ivi, p. 57.
18. Ivi, p. 60.
19. Ivi, pp. 52-53.
20. Cfr. DEL MONTE C., Scambio ai valori e legge del valore, in Monthly Review, a. XII, n° 11-12, novembre-dicembre 1979, pp. 33-41; in particolare pp. 33-34.
21. VON BORTKIEWICZ L. La teoria economica di Marx, Einaudi, Torino 1971, pp. 6-125.
22. Sono debitore di questa osservazione a Giulio (p.c.).
23. C. DEL MONTE, Scambio … cit., p. 38.
24. M. CINI, Lo sfruttamento capitalistico: apparenza e realtà, in Sapere, n° 777, dicembre 1974, pp. 42-52.

Oltre ai testi citati nelle note, bisognerebbe consultare la seguente

BIBLIOGRAFIA

7 gennaio 1981


(Da "U.C.A.T. - Bollettino interno", n. 10, gennaio 1981, pp. 112-125. Originale ciclostilato presso l'archivio storico di Saverio Craparo - Firenze.)