I MAESTRI DEI NODI.
IMMAGINI E CORPI DELLE GUERRE POST-MODERNE

 

Lo stato in cui viviamo dall'11 settembre in poi si è definito ormai come uno stato permanente e globale di eccezione, uno stato immanente di necessaria eccezione rispetto alle garanzie degli ordinamenti giuridici e politici in materia di libertà e di rispetto dell'individuo. In uno stato di emergenza permanente, che deve essere giustificato continuamente, gli individui perdono lo statuto giuridico della loro integrità, neanche più apparentemente garantita dalla legalità, e si trovano alla mercé delle regole dettate dall'eccezione (esempio ne è il Patriot Act approvato negli USA nel 2001 e ricordato nell'editoriale). Questo stato di cose che investe le maggiori e più blasonate democrazie del mondo non è una novità, almeno per chi, come anarchici/e sia della critica del potere istituzionalizzato sia della critica al potere tout court ha fatto oggetto di prassi politica. 

Ma non è inutile ribadire che la questione delle identificazioni rigide e della costruzione delle nuove identità, fenomeno tipico della situazione attuale, è strettamente connessa con questo stato di eccezione.

Appare scontato affermare che questa guerra nella quale siamo immersi, non è una guerra tra occidente e oriente. Anche perché il concetto stesso di oriente come polo opposto all'occidente, che lo pensa da secoli come tale, non esiste se non per la cultura occidentale e per la polarità stessa di cui questa cultura ha bisogno.

Ma perché l'immagine della guerra tra culture e tra tradizioni diverse, tra loro e noi, è così facile da essere ingoiata e digerita e assimilata in modo acritico? In questa guerra mediatica e apparentemente disincarnata, in cui tutti siamo quotidianamente gettati come spettatori, può essere utile tornare a riflessioni che partano dai corpi, i corpi come soggetti primariamente coinvolti in essa. Corpi uccisi, violati, dispersi, rapiti, esibiti o nascosti, con tutti i rispettivi contrari (uccisori, violentatori, ecc), senza dimenticare i corpi e gli occhi di chi osserva, dall'altro capo della diretta di guerra. I corpi rimangono centrali nell'immagine della guerra, nella visione bellica e post-bellica, nella rappresentazione del potere e del corpo segnato sessualmente e culturalmente fatto oggetto di potere e portatore di potere. Il corpo porta su di sé il marchio dell'identità e la questione dell'identità e dell'identificazione in una identità diventa sempre più centrale.

Ripartiamo quindi dai corpi e dall'immagine dei corpi. La comunicazione immaginifica della guerra ha una linea propria in cui si mostrano alcune vittime privilegiate. Basta pensare alla ex Jugoslavia, dove la violenza è stata attribuita quasi solo ai macellai stupratori serbi, o in Rwanda dove la carneficina è divenuta nota al grande pubblico solo a partire da un certo punto della catena incrociata dei genocidi. 

Occorre costruire il consenso tanto più quando, come nel caso dell'Iraq, chi vede è coinvolto come cittadino/a in guerra. Come si situa in questa linea lo shock mediatico delle foto delle violenze che si sono svolte e sono state riprese (e divulgate) nel carcere di Abu Graib? Un incidente di percorso dovuto all'espansione democratica? Queste foto hanno sconvolto l'occidente e hanno a più riprese suscitato lo scandalo soprattutto delle donne che hanno visto altre donne militari stare dalla parte degli aguzzini e dei violentatori. Ma, se facciamo una disamina di queste foto chiedendoci anche le finalità della loro divulgazione e del perché quelle e non altre sono state pubblicate, possiamo comprendere meglio come si gioca la partita mediatica delle identificazioni in questa guerra. Le foto mostrano quasi esclusivamente uomini iracheni nudi o seminudi soli o insieme a formare mucchi di corpi dal forte significato sessuale. I carcerieri che sono ritratti con questi corpi sono per lo più uomini o donne vestiti, soli, in posizione e in atteggiamento dominante nei confronti dei carcerati che sono anche costretti a fare sesso tra di loro e a subire scene di riduzione all'animalità in uno scenario fortemente sadomasochista. Scene di cani che leccano il cibo dei carcerati, scene di soldati che orinano sul cibo dei carcerati, scene in cui i soldati si esprimono con frasi del tipo "Vedete il mio cane è più civilizzato di voi, puttane irachene" (Le monde 29/06/04 trad. nostra) si mescolano nei racconti delle vittime con racconti di violenze sessuali su sorelle dei carcerati perpetrate di fronte ai fratelli, cui però stranamente non è stato dato alcun risalto nella stampa occidentale, che anzi continua contro ogni evidenza a negare la presenza nel carcere di detenute irakene. I civilizzatori e stupratori utilizzano l'immaginario di genere e la divisione culturale tra maschile e femminile in maniera da rendere passivo e femminile, svilito, il nemico. Per fare questo occorre che siano gli uomini ad essere resi passivi attraverso il meccanismo fantasmatico che li rende tutti, donne comprese, che però spariscono sullo fondo, private anche del loro classico ruolo di vittime, tutti "puttane irachene". Non c'è da stupirsi se donne soldato si sono spese per rendere passivo l'uomo carcerato iracheno, fanno parte della milizia che ha posseduto la terra e che deve possedere in senso culturale anche chi vi abita. Diverso l'uso del genere sessuato in altri episodi recenti di questa serie di guerre post-moderne: in ex Jugoslavia occorreva dividere le persone e costruire un nemico interno, quindi la terra e immaginariamente il corpo della donna, doveva essere o difesa o conquistata (attraverso stupri detti etnici); in Iraq occorreva rendere passivi e docili, femminili e "accoglienti" i cittadini di uno stato sovrano, quindi era necessario rappresentarli come una massa indistinta, amorfa, di "puttane" pronte ad accettare tutto ciò che proviene dall'immaginario sadico e pornografico tipico della nostra cultura. E in tutto questo ha giocato un ruolo non secondario la questione della costruzione sociale dell'oriente che proviene da secoli che hanno visto la colonizzazione di questi territori del medio oriente. L'orientalismo manifesto nella cultura europea ha costruito un'immagine di popoli orientali "arretrati" "dispotici" "non civilizzati" "mollemente privi di etica" "lascivi sessualmente" in cui le donne erano passive e disponibili. Queste atmosfere hanno animato romanzi pornografici fin dall'ottocento, come ci ricorda Said. 

Ma torniamo ai corpi di questa guerra. 

Quasi nessuno ha visto immagini di corpi straziati dai bombardamenti dei carri della coalizione e di stupri perpetrati da parte delle forze occupanti (e non che non ce ne siano stati, perché fonti e qualche immagine di violenze sessuali sono trapelate pur non avendo l'onore dei titoli dei giornali). Ci sono state poche immagini di morti tra i civili e quasi solo occidentali, giornalisti, e poi è esplosa la questione angosciante dei sequestrati, dei loro appelli e delle loro morti filmate, se vogliamo "normale" nell'ottica della guerra di propaganda. E poi le due Simona, ostaggi che hanno saputo superare con il loro coraggio e la loro coerenza l'immagine preconfezionata della guerriglia culturale reciproca tra le tante parti in gioco. Dall'inizio i corpi delle due volontarie italiane sono stati oggetto della più retriva propaganda popular-nazionalista-patriarcale (valga per tutti il "È la prima volta che i bravi ragazzi della resistenza irachena mettono le mani su carni femminili, e il destino ... ha voluto che fossero carni nostre, italiane" dell'impareggiabile Feltri, con schiaffoni "educativi" annessi), con canea corale di accompagnamento da parte di buona parte degli altri media, con il sottinteso messaggio "stessero a casa loro". Confidando nel vecchio adagio che recita che "le brave ragazze vanno in paradiso e le cattive dappertutto", loro dopo, se ne sono andate, giustamente, in vacanza, forse per compensare con bikini occidentali, prontamente fotografati, lo scandalo di quei foulard così arabi che le avevano caratterizzate nelle immagini di repertorio. Ma indimenticabile resta il momento della liberazione, quello sciogliersi dal velo nero che le avvolgeva, sotto lo sguardo della telecamera di Al Jazeera, con cui sembrava quasi che l'islamismo moderato, che tanta parte ha avuto nella vicenda, volesse proclamare che le rendeva così, libere, all'occidente, e con loro promettesse apparentemente la liberazione di tutte le donne musulmane, vittime non di Allah, che le donne le protegge, ma di qualche retrivo fondamentalista. E poco importa che tutto questo, questa guerra in primis, abbia completamente cancellato le donne afgane, bombardate per "liberarle", e i loro corpi sotto i burka che continuano a nasconderle.

Nella costruzione di identità duplici e speculari tra occidente e oriente che viene rimescolata da questa guerra non è insomma indifferente né neutro il motivo di fondo sessuale, a giustificazione di motivazioni economiche e religiose, politiche e di scontro tra culture. Per questo è utile uno sforzo di disidentificazione, cui il concetto di genere fornisce una base di lavoro e chiavi interpretative in questo gioco dialettico tra maschile e femminile, una decostruzione delle immagini che ci bombardano che ci permetta di leggere correttamente tra le righe della propaganda bellica, che ci sappia preservare dalle identificazioni fantasmatiche tra maschio occupatore o padre di famiglia e donna preservata o violentata, che metta in discussione radicalmente il quid della costruzione del potere. Occorre decostruire pazientemente la riconfigurazione continua del potere che passa anche per l'identificazione della divisa militare come elemento sociale di protezione ancor prima di essere strumento di morte, per rifiutare la logica della polarizzazione e poter scegliere non da che parte stare, ma chi sono i nostri compagni e chi i nostri nemici, al di qua e al di là, in una guerra che sembra infinita ma serve a mascherarne una che davvero dura da molto tempo, quella che il dominio e il capitale conducono tutti i giorni contro di noi. 

Commissione di etiche e politiche di genere della Federazione dei Comunisti Anarchici