La parabola del decentramento

 

Nel lontano 1975 la casa editrice "Crescita Politica" di Firenze pubblicava un opuscolo da titolo "ai compagni su capitalismo, ristrutturazione e lotta di classe" nel quale scrivemmo (1) delle tendenze di riorganizzazione del sistema delle imprese a fronte dello sviluppo dei cicli di lotte che avevano caratterizzato il decennio precedente.

Nel capitolo dedicato alla relazione tra la dinamica della struttura economica- territoriale italiana e le conseguenti operazioni di riorganizzazione del sistema di gerarchie tra le imprese, era sviluppata un'analisi del cambiamento che si stava attuando in quegli anni. In particolare veniva evidenziata la dinamica del decentramento produttivo nell'Italia centrale come risposta alla crisi delle concentrazioni industriali delle aree metropolitane del nord.

Gli esiti della strategia di riorganizzazione della grande impresa attraverso la disseminazione delle lavorazioni sul territorio portarono anche all'incremento ed alla nascita di nuovi sistemi produttivi locali specializzati o nuovi "distretti industriali".

Il modello distrettuale basato sulla dominanza della piccola e media impresa aveva già dimostrato anche nei decenni precedenti al 1975, la sua capacità di reggere meglio alle fluttuazioni del mercato grazie alla sua flessibilità ed alla proprietà di coinvolgere a piacimento la piccola azienda artigiana ed il lavoro nero come polmone da sfruttare secondo le esigenze. Di conseguenza, dagli anni '70, il processo di riorganizzazione della grande impresa promuoveva la nascita di nuovi distretti e riduceva, in molti casi fino alla chiusura, i poli industriali storici. Contestualmente alla crescita del decentramento produttivo la riorganizzazione ha spinto alla creazione di microimprese sia a fini produttivi che di servizio. Nel terziario sono state incentivate le schiere dei liberi professionisti che hanno sostituito consistentemente le funzioni tradizionalmente interne all'azienda. Il processo di precarizzazione e di liberalizzazione della forza lavoro, che oggi ha raggiunto livelli molto consistenti, trae origine anche da tale fase storica di scomposizione della fabbrica sul territorio.

A distanza di circa 30 anni è possibile articolare alcune osservazioni sulla situazione che si è venuta a creare in Italia dopo questo periodo nei distretti industriali.

Sul piano quantitativo la rilevanza del fenomeno è confermata dalla presenza di 200 circa "distretti" con dimensioni molto differenti. Essi comprendono: 25% popolazione italiana; 31% dei comuni, 30% dell'occupazione totale; 42% dell'occupazione manifatturiera e 18% se, dei distretti, contiamo i soli addetti nei settori caratteristici senza l'indotto. Se a questi sistemi produttivi manifatturieri si aggiungessero quelli terziari (turistici e culturali) la dimensione del fenomeno aumenterebbe ulteriormente.

La geografia della loro espansione è nota da anni ed ha visto la formazione dei distretti non solo nel centro Italia ma anche nel resto del paese come nel Nord-Est, nel Nord Ovest ed anche in alcune aree del Sud.

Nel resto del mondo si è assistito alla nascita di conformazioni distrettuali e gli stessi americani hanno studiato e copiato molte delle esperienze italiane. La moda distrettuale ha messo radici anche nel resto dell'Europa ed alcune recenti esperienze vogliono "clonare" distretti nelle nuove frontiere dell'est.

Dopo questa fase di forte crescita ed espansione, nell'ultimo decennio, si registrano segni evidenti di crisi in diverse realtà distrettuali che portano le stesse associazioni imprenditoriali a ridiscutere le presunte chiavi di successo del modello. Il Presidente del Club dei Distretti in diverse occasioni inviata alla riflessione gli imprenditori sugli scenari critici che si hanno di fronte che nascono da una forte preoccupazione per lo stato di salute di una parte consistente del sistema economico locale. Egli afferma che "Nelle teste degli operatori (imprenditori, associazioni...), si è insinuato il dubbio che da solo, questa volta, il distretto non sia in grado di superare le sfide che ha di fronte. Non c'è solo il problema (già abbastanza complesso) della perdita di competitività rispetto alla impetuosa concorrenza di alcuni Paesi in via di sviluppo; c'è anche una generale difficoltà a immaginare nuovi sentieri di sviluppo. Le imprese, in qualche modo, cercano di reagire ma il distretto nel suo insieme sembra agitarsi in un insostenibile stato di apnea."

Una delle cause di crisi che anche le associazioni imprenditoriali riconoscono è rappresentata dall'impatto derivante dai profondi rimescolamenti in atto nei mercati: globalizzazione, concentrazione e spostamento del baricentro delle filiere produttive verso la distribuzione. Molti distretti industriali, che fino a pochi anni fa erano riusciti a riposizionare la propria offerta nel mercato, ora sono in evidente affanno come dimostrano i dati sulle quote dell'Italia nel commercio mondiale che, negli ultimi anni, sono diminuite.

A questa causa è possibile associarne una seconda derivata dalla maturazione del modello distrettuale e della qualità della vita sociale che le conquiste degli ultimi venti anni hanno perfezionato. Le condizioni di sfruttamento della forza lavoro sono cambiate e la nuova scarsità di lavoratori ha imposto la ricerca di immigrati e l'aumento del rapporto di forza dei lavoratori. In alcune aree si sono create nuove diseconomie distrettuali come la congestione (traffico, prezzi delle aree edificabili...); la pressione sull'offerta di lavoro (rarefazione di figure professionali...) ed il cambiamento nel sistema dei valori (appannamento delle energie imprenditoriali, giovani che orientano le proprie carriere professionali verso altri settori), diversificazione produttiva del sistema locale che crea minore concorrenza tra i lavoratori. Per le economie distrettuali derivanti dal mercato del lavoro, occorre registrare una carenza di manodopera che viene compensata anche con l'assunzione di personale proveniente da Paesi extracomunitari. La grande disponibilità di forza lavoro, che determinò la tipica flessibilità di queste economie locali, è venuta meno e il quadro complessivo ha cambiato la propria connotazione. Altri mutamenti sono intervenuti nelle economie esterne socio-culturali dove, con il succedersi delle generazioni, con il cambiamento dei livelli di vita e con lo stemperarsi della cultura contadina, si è scalfito il tradizionale senso di dedizione al lavoro. Le maggiori trasformazioni, tuttavia, intervengono nelle economie esterne territoriali e ambientali che, per la loro caratteristica di limitatezza e irriproducibilità, si riducono gradatamente e, a volte, mutano, trasformandosi in diseconomie (inquinamenti, costi di urbanizzazione, limiti di disponibilità di terreni, ecc.).

Le strategie che le imprese nei distretti avevano portato avanti per reggere la competizione internazionale erano basate sulla delocalizzaizone, sulla introduzione di elevati investimenti in tecnologia a sostituzione della forza lavoro o sulla chiusura delle imprese manifatturiere e il mantenimento delle sole attività commerciali acquistando i prodotti dai paesi produttori a basso costo.

Il fenomeno della delocalizzazione si è sviluppato in modi abbastanza diversi tra i distretti (dove si distinguono quelli del Nord Est) perseguendo una prima fase di rilocalizzazione in aree del Sud Italia (tessile in Puglia, ecc.) per poi sviluppare una seconda fase che vede gli investimenti migrare all'Est Europa. Ciò ha comportato un forte impatto sociale in termini di chiusura aziendale della subfornitura locale e lo sviluppo di un terziario di servizio alla nuova organizzazione multinazionale basata su consulenti e precari.

Tale strategia di delocalizzazione ha dimostrato, però, diversi casi di insuccesso a causa della difficile riproducibilità della capacità professionale dei lavoratori e della bassa qualità produttiva che ne è derivata.

La seconda strategia che è stata portata avanti in alcuni sistemi distrettuali è basata sulla introduzione di elevati investimenti in tecnologia a sostituzione della forza lavoro. Tramite i processi di robotizzazione dei cicli, si sono ridotte le quote di costo del lavoro per ogni unità di prodotto come nel caso del distretto della calza (Mantova-Brescia). In esso, il peso di tale costo varia tra il 10 ed il 15% e rende centrale la capacità delle figure altamente professionalizzate nella gestione di fabbrica. Tuttavia, anche sulla base di tale strategia, si vedono distretti in crisi a causa o dalla sovrapproduzione o dalla presenza di competitori che usano il lavoro nero (cinesi, ecc.).

Nel caso del distretto di Carpi (MO), dal 1990, si è registrato un pesante ridimensionamento del numero delle imprese e degli addetti; ma si è anche assistito a segnali di tenuta complessiva. Le imprese finali locali hanno migliorato la qualità della propria produzione, investendo su marchi propri, sulla diversificazione della rete distributiva e sui mercati esteri. Sul versante delle imprese di subfornitura oltre alle difficoltà, emergono segnali dell'innalzamento della qualità della produzione. In questi ultimi anni il sistema produttivo ha dovuto affrontare problemi nuovi - la concorrenza dei laboratori cinesi localizzati in quest'area che operano troppo spesso con modalità fuori dalla legalità - e restano alti i rischi legati a prezzi non sempre competitivi, ad elevate esposizioni finanziarie, a difficili ricambi generazionali, alla mancanza di professionalità adeguate.

Infine, tra le strategia del sistema delle imprese vi è sta anche quella basata sulla chiusura delle aziende manifatturiere ed il mantenimento delle sole attività commerciali, acquistando i prodotti dai paesi produttori a basso costo. In questo caso il distretto è scomparso e si è ridotto a mero centro commerciale e di distribuzione. Gli effetti sociali sono stati devastanti non solo sul versante occupazionale ma anche su quello dell'impoverimento complessivo della società.

Tuttavia, anche questa strategia ha mostrato ben presto la sua limitatezza di vedute e si è assisto alla morte anche delle stesse imprese commerciali, sconfitte dalle stesse aziende con le quali trattavano nei paesi fornitori [vedasi il caso del vecchio distretto della bambola di Canneto sull'Oglio (MN-CR) ormai scomparso].

In conclusione il modello distrettuale italiano sta mostrando segni di crisi anche se è prematuro pensare alla sua completa sostituzione. La globalizzazione ha prodotto meccanismi distruttivi anche tra coloro che l'hanno praticata e promossa. Il goffo richiamo al neoprotezionismo della Lega Lombarda rende ancor più evidente le contraddizioni interne al modello capitalistico, incapace di sostenersi con i soli meccanismi di mercato che propaganda.

I decenni di lotte dei lavoratori hanno dimostrato come il tentativo di distruggere il movimento di opposizione tramite il decentramento produttivo non abbia raggiunto il suo obbiettivo. Nuovi segmenti sociali si sono formati e la forza lavoro immigrata che ha preso il posto nei distretti sta ereditando la storia di conquiste avviata. La stessa rilocalizzazzione dei distretti nei paesi dell'Est ha solo parzialmente risolto il problema del controllo della forza lavoro. Anzi, cominciano ad emergere nuovi segni di ricomposizione degli sfruttati, anche nelle nuove realtà dei paesi emergenti. 

Francesco Siliprandi

 

1. Gli autori erano G. Di Lembo, S. Craparo, G. Leoni, M. Masciotra, M. Paganini e G. Cimbalo