Interessi privati, pubbliche bugie

 

Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, solo l'Europa (o meglio, una parte di essa) e il centro dell'Impero sono stati immuni dalla guerra. Vi è da dire che per gli USA, questo vale sin dalla guerra di secessione. 

I famosi 50 anni di pace sono stati tali quindi solo per un ristretto numero di paesi. 

È interessante notare come sia nel discorso pubblico, sia nel "comune sentire" tale assenza di guerra sia stata rappresentata come "pace mondiale", facendo coincidere il mondo intero con l'occidente. E facendo coincidere l'occidente con l'Europa e, ovviamente, l'America.

Non sono necessarie grandi doti di analisi per accertarsi invece della situazione di "guerra permanente" che ha contraddistinto il "mondo" (inteso invece nel suo senso più ampio) dal 1945 al 1990. Praticamente ogni luogo che non appartenesse all'asse USA-Europa è stato baciato dall'attività di Marte. Tuttavia la coppia, pur se non toccata direttamente dalle attività belliche, da esse ha tratto profitto, le ha fomentate e, insomma, né è stato in qualche modo coinvolto.

Diviene privo di senso, quindi, in quest'ottica, l'atteggiamento di "verginità profanata" con cui il mitico e inesistente "occidente" autoproclamatosi guida del mondo, ha reagito di fronte agli attacchi dell'11 settembre. 

Una semplice applicazione della legge dei grandi numeri avrebbe ampiamente ridotto questo vacuo stupore. 

Tuttavia, è vero, che dalla caduta dei regimi comunisti dell'est la questione della guerra è tornata a lambire in maniera diretta la testa dell'Impero e le sue province.

Con il massacro del golfo, dove il rapporto fra soldati Statunitensi e nemici raggiungeva livelli prima inimmaginabili (100 a 100.000) il dominio globale degli USA pareva ormai certo, fra il giubilo degli intellettuali nostrani, che si rallegravano dell'ormai conquistata libertà e democrazia universali. 

In realtà la guerra del 1991, che vide la partecipazione diretta, per la prima volta dal 1940, dell'Italia in attività belliche, calpestando in maniera anche formale la costituzione italiana (dopo averlo fatto sul piano pratico per tutto il quarantennio precedente), non rappresentava né la "fine della storia" (tesi apparentemente assurda, se valutata con i consueti parametri storiografici, ma assai meno priva di logica all'interno di una visione che riduce il mondo ad "un mondo") né una misteriosa "novità". 

LA FINE DELLA STORIA?

Quest'ultimo punto merita di essere davvero approfondito perché è un aspetto nodale che coinvolge moltissimi altre forme e sfaccettature (economia, globalizzazione, condizione del lavoro ecc…). 

Infatti, mentre da una parte la ricerca storica è andata sempre più affinando e arricchendo i propri metodi di ricerca, il discorso pubblico sulla storia è precipitato verso una estrema banalizzazione delle argomentazioni. Il prodotto "storia", insomma, per poter essere venduto è stato accuratamente depurato. 

Questa "reductio" della visione dei fatti storici non è stata, con ogni evidenza, affatto casuale. Infatti, a partire dalla fine degli anni '70, con l'affacciarsi di quel fenomeno culturale definito, con parola ancora una volta onnicomprensiva "riflusso", si è iniziato un paziente e puntuale lavoro di sistematica demolizione di alcune ricostruzioni storiografiche, che dalla ricerca storica si erano diffuse nella società civile, diventando una specie di "canone" di sinistra della storia. 

Certo, neppure questa visione poteva ottenere a pieno il "marchio" della validazione scientifica, ma del resto, visto che in particolar modo nel nostro paese, è sempre mancato un diretto collegamento fra ricerca storica e divulgazione, questa diffusione di alcuni, potremmo chiamare "benefici" luoghi comuni, poteva fare perlomeno da diga, se non nelle aule delle università, perlomeno nelle piazze e nelle strade, all'avanzata di ideologie francamente reazionarie.

Tramite un'accorta strategia di "taglia e incolla" di metodologie di ricerca altrimenti assai avanzate e di una vera e propria manipolazione di ricostruzioni storiche che miravano, semmai, a fare emergere una maggiore complessità nella narrazione degli eventi del passato, la macchina mediatica, cassa di risonanza ma anche, spesso diretta emanazione degli obiettivi degli uomini politici di governo, ha iniziato a diffondere una ben precisa visione della storia. 

E' da chiarire, una volta per tutte, che non la ricerca o la cultura interessava (e interessa) in questa messa "in onda" degli eventi storici, ma essa doveva fare da tappeto, da fondamenta, da giustificazione, alle strategie politiche, economiche e militari messe in atto dagli attori politici del momento.

Ma quali erano e quali sono i nodi centrali di questa "revisione globale"?

UNA STORIA IMMATERIALE

Con la divulgazione spicciola e deformata di analisi storiche nostrane e d'oltralpe e la messa in primo piano di quelle caratteristiche che all'interno della globalità della ricerca storica andavano invece a comporre un panorama assai più ampio e complesso, veniva fatta scomparire la concezione materiale ed economica della ricostruzione dei fatti storici, che le nuove scuole di pensiero e le nuove ricerche non intendevano in realtà eliminare ma solo integrare per comporre una tavolozza più ampia del lavoro dello storico.

Sono così. tornate sulle scena pubblica, assai poco contrastate dalle consuete forze di sinistra che in altre epoche e luoghi avrebbero avuto perlomeno una "visione condivisa", le classiche parole d'ordine del capitalismo quando quest'ultimo, oltre che sistema di produzione, diviene anche "produttore" esso stesso di cultura.

Questa tabula rasa problematica, che in molti casi ha riportato in auge parole d'ordine prettamente ottocentesche, ha fatto così da vero e proprio brodo di coltura, per il ventennio 1980-2000 e coinvolgendo sempre più ampie fette della società (si sa che "i luoghi comuni" venduti attraverso l'accattivante forza dell'economia di mercato, hanno una capacità di convincimento assai elevata, essendo presentati sotto la forma della "libertà di pensiero"). 

Così, proprio mentre il capitalismo assurgeva ad uno dei suoi massimi gradi di sviluppo, dove i governi (con l'avvio dell'era Thatcher e Reagan) rinunciando a qualunque, sia pur fasulla "terzietà", collaboravano a distruggere per ogni dove, culture, ambiente, e producendosi in guerre sempre più feroci per il controllo delle risorse, abbattendo e frantumando resistenze (basti ricordare la vertenza dei minatori in Inghilterra), la visione di una storia depurata dai suoi connotati economici e materiali si diffondeva al suo massimo grado attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

E' sotto gli occhi di tutti che questa "nuova" ideologia ha prodotto nel decennio passato dei frutti notevoli. Si sono avviati massacri come quello contro l'Iraq del 1991, presentandoli come "guerre di liberazione", quasi che il Kuwait esistesse davvero come stato sovrano e non rappresentasse invece un'invenzione geografica inglese per controllare uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo; si è addirittura convinta (costretta?) nel 1999 un'Europa governata all'epoca da coalizioni di centro-sinistra, a partecipare ad una guerra di aggressione contro la Serbia, colpendone soprattutto le strutture civili (con migliaia di morti fra donne e bambini) con una "incredibile" giustificazione umanitaria.

E' evidente che nessuna spiegazione di tipo culturale o "spirituale" possa invece essere addotta per comprendere questo, in fondo ovvio, atteggiamento degli stati capitalistici predominanti. Tali costruzioni ideologiche non sono però "utili" solo per "vendere" guerre e stragi, da sempre le armi più utilizzate dal capitalismo nella lunga marcia per la propria sopravvivenza.

La stessa lotta al terrorismo, ad esempio, viene presentata come uno scontro fra civiltà e non per quello che, con ogni evidenza, almeno in parte rappresenta: lo scontro per il controllo delle risorse e per una ridislocazione strategica in vista dei conflitti futuri.

La stessa unità dell'Europa è sintomo e simbolo di questo dualismo: quello che appare un grande evento culturale si presenta in realtà come la creazione di un grande mercato: ne è simbolo clamoroso il fatto che, in occasione dell'allargamento di questi giorni, si siano garantiti i transiti delle merci ma non delle persone. 

IL DUCA VALENTINO 

Tuttavia, tra la volontà di dominio e la reale applicazione, spesso ci si mette in mezzo la "realtà effettuale" che, sia pur sempre più occultata dalla società dello spettacolo, emerge spesso nei momenti più impensati.

Il potere che rappresenta il mondo attraverso i propri mezzi a volte finisce per credere davvero in quella rappresentazione. Così il riflusso e la diminuzione dell'azione pubblica degli anni '80 sono stati scambiati per definitiva messa in mora di ogni istanza collettiva e di ogni contrasto tra potere e opinione pubblica. Il capitalismo si è assai riorganizzato in quest'ultimo ventennio: ha conquistato mezzi e genti e si è introdotto nei cuori e nei cervelli di molte persone.

Ma le clamorose manifestazioni di massa degli ultimi quattro anni hanno fatto emergere quelli che appaiono come veri e propri "fiumi carsici" della conflittualità e dell'azione politica, la mitica "vecchia talpa". Le nuove forme di lotta apparse a Melfi, e le vecchie forme di repressione messe in atto per tacitarle, ci ricordano che sotto il sole del capitalismo quel che appare nuovo è in realtà vecchio e quello che si da' per morto spesso ricompare.

Come avrebbe detto il politico fiorentino per eccellenza:

"et a tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire".

Andrea Bellucci
Studioso di Storia contemporanea