L’ebbrezza del dominio

 

Il quartiere ebraico di Praga offre due immagini invitanti, atte a descrivere il passo attuale del capitalismo internazionale: la sinagoga vecchio-nuova ed il suo orologio.

Mai come nella fase attuale si sono miscelati elementi di galoppante innovazione tecnologica con ricette sociali appartenenti, almeno tale era la speranza, ad un passato spesso remoto. E da un certo punto di vista, l'orologio della storia sembra procedere con passo retrogrado, come in senso antiorario girano le lancette dell'orologio simbolo di Judesov.

Occorre fare un passo indietro per comprendere come nell'ultimo ventennio del XX° secolo siano ricomparse proposte di assetto sociale obsolete da almeno cinquant'anni, perché esse abbiano avuto fortuna ed applicazione, e quali siano ora le loro prospettive di perpetuazione.

L'affermarsi negli anni trenta e quaranta delle politiche economiche keynesiane e fordiste, l'affacciarsi delle gestioni programmatiche di piano, cadono in un contesto storico che le rende accettabile e, forse, irrinunciabili per la sopravvivenza del capitalismo internazionale. La combattività delle classi subalterne, lavoratori della fabbrica in primo luogo, è in costante crescita: il movimento dei consigli ha dilagato come un presagio di sovvertimento per tutta Europa, ed è stato sconfitto con fatica; il sindacalismo statunitense in forte crescita è stato domato con metodi violenti, ricorrendo all'aiuto della delinquenza organizzata; l'ultimo schermo all'esplodere della rivoluzione sociale, il socialismo riformista, appare un velo fragile ed insicuro. In alcuni paesi europei la classe imprenditoriale non trova di meglio, per arginare l'onda d'urto del proletariato, che ricorrere alla dittatura, affidandosi ai regimi fascisti.

Ma un altro evento turba i sonni del padronato: la nascita del primo Stato che si dichiara comunista ed il cui richiamo dilaga anche in Sud America e nei lontani paesi orientali, oltre che nella vecchia Europa, costituendo un antagonista temibile, la competizione con il quale si protrarrà per circa settanta anni, dopo il fallito tentativo di schiacciarlo sul nascere. La ricerca di fiduciari nei paesi terzi, in grado di arginare il fenomeno, produce quel dilagare di dittature di destra che proliferano nel mondo tra gli anni quaranta e settanta del secolo, tutte nate sotto gli auspici e mantenute dal supporto di quelle nazioni democratiche che oggi promuovono guerre allo scopo, dichiarano, di eliminare feroci despoti per il bene delle popolazioni loro soggette.

Le nuove teorie economiche e sociali avanzate e adottate negli anni venti garantivano un duplice obiettivo. Da un lato offrivano una prospettiva reale di miglioramento economico alla classe lavoratrice, integrandola nel sistema, anche grazie a quello che veniva chiamato salario sociale, ovverosia servizi che garantivano una certa sicurezza nella vita: scuola, sanità, pensioni, etc. Questo primo aspetto doveva contribuire a smorzare la volontà di lotta delle classi subalterne, rendendo credibile un passaggio se pur lento, ma progressivo verso una società più egualitaria.

Da un altro punto di vista, l'incremento di reddito reale inseriva a pieno titolo la classe lavoratrice nel circuito del mercato (il modello T della Ford ne è l'esempio più classico), aprendo alle merci un'area di diffusione precedentemente preclusa. Il volano, che così si veniva a creare per la produzione capitalistica, apriva la serie dei miracoli economici che sono venuti caratterizzando le varie aree tra gli anni quaranta e settanta del secolo.
Per mezzo secolo il modello ha funzionato egregiamente, poi è stato rapidamente abbandonato, persino deriso o indicato come causa di tutti i mali delle economia avanzate. È vero che all'inizio degli anni settanta il paese guida del capitalismo internazionale, gli USA, è entrato in una crisi economica da cui non è mai del tutto uscito, nonostante periodi anche non brevi di sussulti positivi nella produzione; la bilancia commerciale è entrata in rosso e sempre più profondamente vi si è immersa, indice di una sofferenza del sistema industriale, tant'è che si è persino teorizzata la deindustrializzazione, la società postmoderna, la fine del lavoro e così via ipotizzando. Le cause del declino sono state molteplici (disavanzo pubblico susseguente all'impegno bellico in Vietnam, scarsa competitività delle merci sia per la forza del dollaro sia per la qualità non eccelsa, etc.), non del tutto indagate a fondo, non correlate in un quadro di spiegazione esaustivo, non contrastate da un'efficace politica economica. Tutto ciò ha giustificato, forse, una ricerca affannosa di nuove teorie economiche di riferimento, in grado di recuperare la situazione, facendo infine cadere la scelta sul monetarismo friedmaniano; ma non giustifica l'adozione generalizzata, che ne è conseguita, delle teorie neoliberiste in tutti i paesi che facevano riferimento all'universo capitalistico, ed anche in quelli che precedentemente agli anni novanta non ne facevano parte.

È ben vero che tale adozione invasiva ha consentito agli USA di conservare, anzi di rafforzare, auspice il controllo sugli organismi di gestione economica supernazionale come il FMI, il proprio ruolo di stato guida del capitalismo internazionale, ruolo vacillante sul piano dei risultati produttivi e delle bilance commerciali; ma anche questa giustificazione non è in grado di rendere conto della vastità, simultaneità e gradibilità da parte delle borghesie nazionali, del fenomeno di sostituzione dei punti di riferimento teorici di politica economica.

È infatti inequivocabile che nell'arco di poco più di un decennio si è assistito ad un autentico ribaltamento delle principi base che avevano guidato l'economia mondiale per il mezzo secolo precedente. Si è partiti dal disavanzo pubblico, prima visto come virtuoso e subitaneamente indicato come la scaturigine di ogni male, per demonizzare poi ogni intervento pubblico, prima considerato come volano dell'economia e poi individuato come fonte di spreco e di distorsione del libero dispiegarsi delle forze economiche, e per finire con l'attaccare l'idea stessa del welfare, sviluppato come regolatore del malessere sociale e pilastro del diritto di cittadinanza per divenire ben presto un pozzo senza fondo che assorbe risorse distraendole dagli investimenti produttivi. Anche la tassazione è passata nel gergo dominante da strumento di equità sociale a iniquo impedimento della libera imprenditorialità.

Di fatto quella che si è venuta applicando a partire dai primi anni ottanta non è neppure identificabile come una neppur parziale immagine delle teorie della scuola di Chicago, ma solo come uno sfrenato ritorno a ricette di puro stile liberista, con una fiducia, tanto conclamata quanto irrazionale, nelle capacità risolutive del dispiegarsi delle forze del mercato, quella mano invisibile tanto cara agli economisti classici e che l'esperienza successiva ha bollato irrimediabilmente come una pura e semplice fola teorica.

Il successo internazionale di questa ubriacatura di pure formule meccanicistiche, prive di un qualsiasi fondamento scientifico, deve corrispondere a qualcosa di ben radicato nella mentalità del ceto imprenditoriale mondiale. Un qualcosa che ha fatto passare in secondo piano la convinzione che le politiche di piano erano in fin dei conti una garanzia per tutti, ceti più o meno abbienti, per avventurarsi nel mare ignoto della concorrenza, altra idea taumaturgica priva dei famosi lacci e lacciuoli.

È un fatto che nello scorcio del secolo ventesimo la classe operaia internazionale subisce una sconfitta che ha pochi precedenti. Frana definitivamente l'utopia di una rivoluzione che si estenda a macchia d'olio a partire dai paesi del terzo mondo. Simbolicamente la cattura del Che in Bolivia segna la svolta delle speranza dei movimenti terzomondisti, che si era accesa con l'affermarsi dell'anomalia cubana, dove per la prima e l'ultima volta i dannati della terra si sono fatti artefici del proprio riscatto. I lavoratori del mondo industrializzato, oscillando tra integrazione e protesta, cadono vittime del ricatto occupazionale e la crisi, utilizzata come arma politica, li spinge, auspice il sindacalismo tradizionale, alla compressione salariale ed alla precarizzazione del posto di lavoro; la tecnologia degrada la prestazione professionale, risparmia forza di lavoro e produce un esercito di generici senza potere contrattuale e privi di sicurezze. I paesi di nuova industrializzazione (le famose tigri asiatiche, il Brasile, la Spagna) adottano modelli sociali privi persino di una forza sindacale tradeunionista, o per assenza di una tradizione di lotta o per la sua avvenuta cancellazione; non a caso il primo atto della Spagna postfranchista è il patto della Moncloa, siglato dalle maggiori centrali sindacali del paese, che lega definitivamente le mani al movimento dei lavoratori.

Ma per il capitalismo internazionale c'è un altro evento capitale: il crollo dell'antagonista sovietico. Oppresso da una competizione economica, tecnologica e soprattutto militare che non è in grado di reggere, corroso dall'inefficienza burocratica che rende impossibile seguire l'andamento reale dei piani programmati di sviluppo, l'impero si disfa in un tempo che da un punto di vista storico appare irrisorio e senza alcuna reazione di vitalità, a conferma della propria putrescenza interiore. Il problema non è tanto quello di stabilire se il campo economico sovietico fosse più o meno comunista, quanto quello di comprendere che la sfida con esso hanno ha impegnato per sei decenni le borghesie occidentali lo aveva reso, per ciò stesso, un simbolo di alternativa al sistema dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Perito quello il movimento dei lavoratori, che per lungo, troppo tempo si era cullato sul mito della patria sovietica, è rimasto cieco e non ha trovato validi punti di riferimento. Nel contempo il capitalismo ha perso il contrasto che lo ha limitato per tanto tempo è ha pensato di poter dilagare senza più ostacoli, anche perché venivano a mancare fonti di finanziamento per i movimenti alternativi e di opposizione.

L'assenza, almeno nell'immediato, di un'alternativa ha convinto la borghesia internazionale che il tempo del compromesso era terminato, che non era più necessaria la regolazione sociale fordista e si poteva pertanto tornare a modalità antecedenti di estrazione del profitto, relegando i lavoratori al puro ruolo di fornitori di forza lavoro, senza diritti, senza garanzia; anzi sottoposti di continuo al ricatto occupazionale, perché senza più un mestiere e ridotti all'eterno precariato. Degradando costantemente la qualità della prestazione lavorativa, riducendo al minimo le conoscenze necessarie ad intraprendere un lavoro, omologando ogni tipologia di lavoro ad un unico semplice standard, relegando in sostanza la professione ed il mestiere nella soffitta dei reperti storici, la tecnologia ha fornito le basi materiali perché il disegno di dominio e di ipersfruttamento che si veniva delineando nelle strategie capitalistiche si potesse realizzare nella pratica.

Come spesso accade, nell'euforia della vittoria un particolare è stato trascurato, o forse più di uno. Il salario operaio crescente in termini di potere d'acquisto non era solo un modo per calmierare la lotta proletaria montante all'inizio del secolo scorso, non serviva soltanto a cointeressare i lavoratori al sistema di produzione e di riproduzione sociale del capitalismo, ma costituiva anche un volano per l'economia, ampliava in termini indefiniti il mercato interno dei paesi a capitalismo avanzato, ossigenando continuamente i polmoni dei profitti industriali.

La compressione salariale, cui è stato sottoposto il lavoro dipendente ovunque, ha teso a deprimere il mercato ed ha creato una strozzatura alla vendita dei prodotti. Conseguentemente il ritmo di crescita delle economie capitalistiche ha conosciuto un rallentamento, quando non si è attraversato a volte un vero e proprio periodo di stagnazione. L'impoverimento dei paesi terzi, costretti ad indebitarsi per seguire le rigide terapie liberiste imposte dal FMI, ha aggravato la situazione degli sbocchi di mercato, che certo non potevano essere sostenuti dai consumi delle poco numerose borghesie parassitarie, militari e burocratiche, in essi presenti.

L'investimento produttivo diveniva così più insicuro e la sua redditività resa dubbia e troppo differita nel tempo. Masse enormi di capitali hanno cercato quindi vie più rapide e sicure di profitto: frammentazione di colossi industriali, speculazioni, vorticose compravendite di materie prime, cambi monetari, telecomunicazioni, web-economy, borsa, etc. Le conseguenze sono palesi: ipertrofia finanziaria, bolle speculative, crolli improvvisi di borse e di economie più fragili.

I margini sempre più ristretti, che il potere di acquisto decrescente consente alle famiglie, riducono la propensione al risparmio, anche se le incertezze del futuro spingerebbero in senso contrario. D'altra parte, l'alto tasso di rischio cui sono sottoposti gli accantonamenti dei singoli, rovinosamente bruciati da crisi di borsa o da fallimenti di banche e aziende od anche dai crolli finanziari di intere nazione indicate come sbocco sicuro di redditività (tigri asiatiche, Argentina, ecc,), disorienta i risparmiatori; certamente la fine che la crisi Enron ha fatto fare ai mitici fondi pensione degli Stati Uniti non ha teso a migliorare il clima. L'affievolirsi della vena del risparmio è all'origine della concentrazione senza precedenti che si sta verificando nel sistema bancario e del peggioramento delle condizioni praticate dalle banche ai propri clienti depositari.

Ma gli effetti di lungo periodo delle scelte operate in campo economico, non facilmente prevedibili, iniziano a dispiegare i propri guasti. La restrizione del potere di acquisto dei lavoratori e la riduzione delle prestazioni sociali del welfare, volte a recuperare margini di profitto e soprattutto a rendere del tutto subalterno il proletariato privato di ogni sicurezza, hanno reso necessario l'adozione sul mercato del lavoro di forme di assunzione tendenzialmente sempre più effimere e precarie. Sono nate così tipologie di impiego sostitutive dei vecchi contratti di lavoro, che permettessero la ricattabilità degli assunti, soggetti ad una rapida turnazione ed ad un continuo ricambio.

Se ciò ha fornito la possibilità di un immenso controllo sociale, minando l'esistenza stessa di un'organizzazione sindacale di qualsivoglia tipo e la permanenza di un contratto nazionale che faccia da quadro alle forme d'impiego della manodopera, ha aperto però anche un fronte imprevisto sul versante della qualità della prestazione d'opera. Quale adesione alla finalità produttiva dell'azienda può avere un lavoratore che sa che da lì a poco tempo dovrà mutare dislocazione? Se è vero che in poche ore è possibile predisporre un nuovo assunto all'esecuzione di una prestazione sempre meno specializzata e sempre meno necessitante di una pregressa professionalità, quale soddisfazione ricaverà il neoassunto nello svolgimento del proprio mestiere? Come sarà possibile controllare la quantità e soprattutto la qualità della prestazione di una maestranza in perenne mutamento?

La fase del mito della deregolazione sta conoscendo pertanto un appannamento. Negli Stati Uniti gli alfieri della riproposizione dello sfrenato liberismo, che avevano occupato i posti chiave della propaganda economica, hanno progressivamente perso terreno in campo universitario ed anche nei giornali economici di più vasta tiratura, a favore di nuove proposte teoriche. In molti paesi l'intervento statale non è più visto come il male assoluto da cui guardarsi, la costruzione di regole per impedire, o almeno ostacolare, gli eccessi verificatisi non è più riguardata come un laccio al libero fluire dell'economia verso luminosi traguardi di sviluppo vertiginoso.

A ciò non è estraneo la perenne empasse della produzione internazionale. La guerra è sempre stata un modo per sopperire ad uno sviluppo stagnante, spingendo la produzione di beni destinati ad un rapido consumo ed accendendo i ricchi affari della ricostruzione; così è stato per le due grandi guerre mondiali. La fase attuale di guerra continua, ma limitata, non è che un linimento per la congiuntura internazionale; rende meno aspre le difficoltà, crea sentori di ripresa nella nazione più attiva in esse, ma in realtà soddisfa solo gli appetiti di alcuni settori produttivi e soprattutto tende ad imporre al mondo una leadership che non trova più giustificazioni su pure basi economiche.

Ma un ruolo nel tramonto del neoliberismo rampante gioca anche il rinascere di un'opposizione in molti paesi, dai caratteri ancora confusi ma il cui profilo anticapitalista si sta progressivamente mettendo a fuoco. Ed infine, se non dal punto di vista politico, almeno da quello economico si sta profilando per i paesi a più antica industrializzazione un concorrente temibile sui mercati: la Cina che doveva essere, nei sogni degli imprenditori occidentali, un pozzo senza fondo in grado in un non lontano futuro di assorbire qualsiasi quantità di merci, si sta invece rivelando un produttore competitivo, che sta recuperando a rapidi passi il divario tecnologico da cui è partita solo pochi decenni fa.

L'affacciarsi sui mercati di un nuovo competitore economico, la rinascita della conflittualità sociale frutto di un eccessivo inasprimento delle condizioni di sfruttamento, l'impossibilità di un reale controllo sulla forza di lavoro assoggettata socialmente ma ingovernabile nella produzione per il puzzle diabolico delle infinite tipologie di forme contrattuali coesistenti nel medesimo luogo produttivo, sono tutti fattori che spingono i ceti imprenditoriali a rivedere le strategie e a risalire le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Globalizzazione, mercato e liberismo sono termini che conosceranno profonde revisioni in tempi molto prossimi.

SAVERIO CRAPARO
Ufficio Studi della Federazione dei Comunisti Anarchici

 

Sacrificava Tindaro
agli dei; si scordò solo di lei, di Cipride
dolce di doni. E lei con le figlie di Tindaro
si sdegna, e le fa bigame,
trigame, fuggitive …


Stesicoro, Frammenti, Einaudi,
Torino 1968, p. 53, DIEHL 17.