Imperialismo, Cina e Russia

 

Nel Caucaso è in atto uno scontro interimperialista in cui il nano georgiano ha operato come "interposta persona" per conto degli Stati Uniti. La prevedibile e immediata reazione russa - che ha aggiudicato a Putin la prima mossa - ha solo messo in luce l'imbecillità del Presidente della Georgia il quale, da buon nazionalista, ha scelto (ancora una volta) la via della diversione bellica, contando su un aiuto statunitense che non poteva essere di intervento militare sul campo, invece di pensare alle disastrate condizioni del suo paese. Per inciso: si manifesta ulteriormente la pericolosità dell'essere alleati di Washington.

Detto ciò, passiamo al problema dell'imperialismo nell'epoca della globalizzazione. Come ben sappiamo, di imperialismo si è cominciato a parlare a cavallo tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX, in una determinata fase di sviluppo del sistema capitalista. Il più noto studio dell'epoca è di John Hobson, pubblicato nel 1902. Ma il primo approfondito approccio economico alla questione risale a Charles A. Conant, autore nel 1898 dello scritto "The Economic Basis of Imperialism", pubblicato dalla North American Review. L'imperialismo "classico" si colloca come una specie del genere storico dell'espansionismo, sulla spinta dell'accumulazione di capitale eccedente, necessariamente da "esportare" (e fermi restando i bassi livelli di consumo nei mercati interni dei paesi imperialisti); dell'esigenza di acquisire nuove fonti di materie prime a buon mercato e nuovi mercati. Cosicché l'imperialismo è stato in genere definito come l'imposizione, da parte di singoli Stati, del proprio dominio economico e politico su territori e/o Stati stranieri a vantaggio del capitale nazionale del soggetto imperialista. Questo fenomeno può utilizzare anche forme di colonialismo in senso proprio, cioè di appropriazione formale e diretta dei territori (e delle popolazioni) da sfruttare; pur tuttavia non si identifica con il colonialismo in quanto tale.

L'imperialismo, quindi, come forma di appropriazione o controllo monopolistico delle materie prime, delle fonti energetiche, e dell'esportazione di capitali; che sul piano ideologico in qualche modo si è coniugata con il nazionalismo europeo fiorito nel secolo XIX e con sentimenti, a volte mascherati da umanitarismo, di superiorità razziale - che in Europa non sono stati certo introdotti dal nazismo tedesco (sono in molti a ricordare, per esempio, il rivoltante razzismo di Winston Churchill?).

Costituisce ormai un classico l'interpretazione data da Lenin al fenomeno imperialista. Interpretazione che ha scavato nella sua essenza economica, individuandovi l'alto grado di sviluppo della concentrazione della produzione e del capitale, tanto da dare origine ai monopoli; la formazione (attraverso la fusione tra capitale industriale e capitale bancario) di un forte capitale finanziario e, quindi, di un'oligarchia finanziaria; la crescente importanza (non solo qualitativa) dell'esportazione di capitali in rapporto all'esportazione di merci; la ripartizione dei mercati mondiali fra le grandi potenze. Guardando a questa analisi, e assumendo quindi il punto di vista della fenomenologia economica, la globalizzazione attuale può essere considerata una derivazione ulteriore, in epoca di alta tecnologia informatica, dell'assetto studiato da Lenin. 

In epoca contemporanea si è poi detto che si era passati alla fase del neoimperialismo, caratterizzata da un dominio solo informale - morale e mediatico - seppure non privo di tutela militare. Alla base vi sarebbe stata una essenziale esigenza della globalizzazione. Di questo fenomeno risaltano immediatamente il ruolo (e lo strapotere) delle multinazionali, i grandi flussi di movimenti speculativi di capitali, la schiacciante predominanza quantitativa dei movimenti di capitali rispetto a quelli di merci, l'enorme circolazione di dati e informazioni. Ma taluni si sono chiesti se tutto ciò costituisca davvero tutta l'essenzialità di questo fenomeno epocale. Vale a dire, se non si debbano prendere in considerazione aspetti inerenti alla vera e propria dimensione produttiva, nel senso che rivolgersi alla sfera dei rapporti di produzione implica la considerazione del ruolo del capitale nell'attuale assetto dei livelli di "valorizzazione", in rapporto alle sfere della produzione e della circolazione. Nel persistere di sistemi di scambio ineguale, la maggiore capacità produttiva dei paesi dominanti si risolve nella fruizione di tempi medi di lavoro meno alti - per l'aspetto produttivo - e nell'acquisizione di valori monetari assai più alti per ciò che concerne la circolazione. In buona sostanza, in quest'ottica l'obiettivo reale e fondamentale (strutturale si potrebbe dire) sarebbe il mantenimento del sistema di scambio ineguale di valore-lavoro, a cui sarebbe strumentale (e non più primaria) l'esigenza di appropriarsi di questa o di quella materia prima, come era accaduto durante l'imperialismo proto-novecentesco. Il fisiologico persistere e accrescersi delle tensioni internazionali corrisponderebbe all'esigenza, per i soggetti in gioco, di difendere e accrescere le posizioni rilevanti in una gerarchia economica planetaria, al fine di fare prevalere le proprie ragioni di scambio in un sistema di disuguaglianze. Gli esiti bellici, vale a dire, non come mera espressione di una volontà di dominio (cioè non solo fenomeni "soggettivi").

Oggi, però, in epoca caratterizzata dal ritorno dell'imperialismo anche in termini di guerre senza apparente motivazione e di brutali occupazioni militari, nonché dal trovarsi in primissimo piano gli interessi petroliferi delle potenze capitaliste - e questa materia prima, che sta alla base di ben oltre il 40% del consumo mondiale di energia)[1] non appare più l'illimitata risorsa di un tempo - non sembra condivisibile la tesi che vede come obiettivo essenziale il mero mantenimento del sistema di scambio ineguale di valore-lavoro. La prospettiva, a mio modo di vedere, va ribaltata: sono le risorse energetiche ad assumere un carattere vitale e primario. D'altro canto c'è da chiedersi se lo scambio ineguale non sia altro che la modalità necessaria al conseguimento del dominio, e non già l'obiettivo del dominio stesso.

L'imperialismo degli Stati Uniti al di fuori del continente americano si è sviluppato in fasi diverse. Dopo la II Guerra Mondiale era associato con l'intenzione di minare il sopravvissuto sistema coloniale europeo per realizzare un insieme di Stati clienti di Washington, ma formalmente indipendenti. E questa fase in genere è stata definita di neocolonialismo, con i governi locali al servizio delle multinazionali statunitensi e degli interessi politico/militari degli Usa. Si creò una area di dominio avente come supporti fondamentali - oltre alle forze armate degli Stati-clienti - l'intervento militare, le operazioni di intelligence e soprattutto l'azione di istituzioni finanziarie internazionali (come il FMI) e statunitensi. Col crollo del sistema satellitare dell'URSS, e poi dell'URSS medesima, per gli Stati Uniti si è aperta la possibilità di estendere di gran lunga il proprio dominio mondiale, grazie anche al diffondersi dell'ideologia neoliberista della globalizzazione e al sentimento di impunità totale subentrato alla grande paura per il nemico d'oltre cortina. Dall'avvento al potere di George W. Bush è diventata "lobby" determinante per la politica imperialista (ma sempre insieme al complesso militare/industriale) la lobby petrolifera, e dalla linea conservatrice di Clinton si è passati a quella di ultradestra dell'attuale presidenza Usa, propugnatrice della guerra permanente e delle occupazioni militari, nonché teorizzatrice del diritto degli Stati Uniti a non sentirsi vincolati da alcun trattato internazionale quando siano in gioco i propri interessi.

Oggi gli Stati Uniti hanno come nemici - oltre all'integralismo musulmano, da essi stessi favorito nella fase genetica - la Cina e la Russia, al di là del carattere formale più o meno cordiali dei rapporti diplomatici.

La Cina - che resta il paese più popolato del mondo - in prospettiva appare oggi l'unico Stato capace di rivaleggiare con gli Usa tra quindici o vent'anni, a parità di condizioni. Una grande disponibilità di liquidità finanziaria consente alla Cina di porsi come paese investitore in grado di giocare sugli scenari internazionali, sostenendo progetti industriali in Sud Africa come in Venezuela, in Sudan come nell'Indocina, entrando in accordi di gestione dei corridoi delle materie prime dal Mar Caspio alle sue aree industriali del sud-est, e ponendosi in quell'area come grande competitore al pari di Russia, Usa e potenze locali come Iran ed India, come gendarme anti-islamico del Patto di Shanghai. Il gigantesco surplus finanziario cinese è stato anche il frutto di decenni di accumulazione assicurata da quella seconda via dello "sviluppo parallelo" (i profitti dell'agricoltura investiti nella industrializzazione), seguita dai dirigenti cinesi tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, che è consistita nello sfruttamento dei lavoratori cinesi, e di determinazione, appropriazione e gestione del sovrappiù da parte dello Stato cinese, che non ha disdegnato di usare e pratica ampiamente oggi la repressione aperta.

In realtà in Cina non vi è stata alcuna transizione al comunismo, non è andata al potere nessuna tecnoburocrazia, ma abbiamo assistito in 60 anni alla gestione capitalistica di Stato da parte di un rigido centralismo burocratico che oggi gestisce la transizione al capitalismo nella forma più selvaggia, senza per questo effettuare il passaggio ad un assetto politico da democrazia occidentale. Va tenuto conto che il "miracolo economico" cinese, oltre a essersi basato su un feroce sfruttamento della classe operaia e dei contadini, ha fatto leva su una politica di esportazioni orientata verso un'economia mondiale già piena di debiti e si va sempre più proiettando ben oltre i suoi confini.

La Cina ha un tasso di sviluppo reale intorno al 10% annuo (se non di più): già nel 1998 produceva l'11,5% del Pnl mondiale; e si calcola che verso il 2015, il suo mercato interno possa raggiungere livelli enormi. Pur tuttavia la Cina è largamente dipendente dall'approvvigionamento petrolifero, a motivo della sua scarsa produzione autonoma di petrolio. Si ritiene che dal 2015 dovrà importare almeno 4 milioni di barili al giorno, pari alla metà dell'intera produzione odierna dell'Arabia Saudita. Gli Stati Uniti vedono nella politica della Cina un notevole fattore di alterazione del quadro strategico, economico e politico, in Africa in Asia e America Latina, cominciando localmente ad acquisire il controllo di risorse naturali. La Cina tende a fare dei mari estremo-orientali quello che per Roma era il mare nostrum, contenendo il Giappone e avendo di mira la presenza militare statunitense. Nella sua orbita c'è la Birmania, e vuole protendere la sua influenza verso il mare Arabico, il Golfo Persico e il Medio Oriente. In Asia la Cina, insieme con la Russia, ha inoltre di recente esteso la sua influenza su ex repubbliche sovietiche in cui l'influenza statunitense si è affievolita, come ad esempio l'Uzbekistan. Sulle voci di forniture cinesi ai Talebani in funzione anti-USA, allo stato non si può dire nulla.

Nel sud della Cina si stanno costruendo 1.850 chilometri di strade e si vanno rafforzando le naturali barriere difensive delle pendici dell'Himalaia. La "strada n. 3" che unisce direttamente il Kunming cinese con Bangkok tocca anche le regioni poco abitate delle nord del Vietnam e del Laos, dando il senso di una precisa espansione geostrategica cinese. Al Pakistan la Cina dà assistenza tecnica e militare, inclusa la tecnologia nucleare. Non mancano le fonti di agenzie giornalistiche secondo cui i servizi segreti cinesi sarebbero a conoscenza di trasferimenti di tecnologia nucleare dal Pakistan all'Iran, alla Corea del nord e alla Libia. Inoltre, la costruzione di un grande complesso portuale nella base navale di Gwadar sul Mar Arabico dà alla Cina un accesso strategico sul Golfo Persico e un avamposto sull'Oceano Indiano. Notoriamente il Tibet è oggetto di una politica di vera e propria colonizzazione da parte della Cina.

È un dato oggettivo l'incremento delle relazioni politiche ed economiche di Pechino anche in Medio Oriente, Africa e America Latina, e con paesi che gli Stati Uniti da tempo hanno segnato nella loro "lista nera", quali Iran, Sudan e Venezuela. E tra i suoi primi dieci fornitori petroliferi ci sono, oltre a Sudan e Iran, Angola, Congo Brazzaville e Guinea Equatoriale. La Cina ha iniziato anche a esportare capitali, suscitando le reazioni di Washington che cerca di ricostituire alleanze in funzione anticinese. Soprattutto in Africa, al momento, si gioca una partita di rilievo, atteso che il commercio cino-africano nel 2005 era arrivato al livello di 40 miliardi di dollari, con un incremento del 35% rispetto all'anno precedente. I giacimenti petroliferi africani si sono rivelati di estremo interesse, tant'è che già nel corso degli anni '90 la Cina aveva investito 8 miliardi di dollari in Sudan e 9 miliardi nel 2005 in Nigeria, oltre a concedere nel 2004 all'Angola un prestito - a condizioni vantagiosissime - di 2,5 miliardi di dollari per la ricostruzione di quel paese devastato da 27 anni di guerra civile. Iniziativa dai forti effetti politici, avendo consentito al governo angolano di rifiutare l'aiuto del FMI, foriero di devastanti politiche neoliberiste.

Non va poi trascurato il fatto che il deficit commerciale statunitense verso la Cina, che nel 2005 era stato di 202 miliardi di dollari, ultimamente non si è certo ridotto. In più la Cina è diventata una sorta di banchiere degli Stati Uniti, attraverso acquisti consistenti di Buoni del Tesoro statunitensi, e possiede consistenti riserve valutarie in dollari (si è calcolato che nel 2004 queste riserve ammontassero a 600 miliardi di dollari tra valuta e Buoni del Tesoro). Di tutta evidenza che in questo modo, se da un lato la Cina svolge un'opera di sostegno del dollaro incidendo sui livelli dei tassi di interesse, da un altro lato è suscettibile di svolgere un'opera di condizionamento.

Situazione assai pericolosa, perché se un domani le difficoltà economico finanziarie statunitensi si aggravassero fino al punto di non potere più fare fronte ai debiti esteri di varia fonte, chi ci garantisce che la dirigenza USA non reputerebbe "opportuno" azzerare le partite debitorie con una bella guerra? Sarebbe un classico. Al momento, comunque, gli Stati Uniti sono costretti a mantenere verso Pechino un atteggiamento "elastico" a motivo della sua necessità che la Cina continui a finanziarne il debito e a comprarne i Buoni del Tesoro.

C'è chi è convinto, continuando così le cose, della capacità cinese di arrivare alla conquista del primato commerciale mondiale nel 2020. E allora chi vivrà vedrà. La possibilità per la Cina di diventare un gigante economico abbastanza autonomo ha indici rivelatori nella non corrispondenza tra livelli di investimento di capitali stranieri in Cina e i volumi delle vendite occidentali sui mercati cinesi. Il rilevante squilibrio tra esportazioni cinesi e importazioni, che sta anche alla base del boom economico del vecchio "Impero di Mezzo" lascia ancora a livelli onirici il desiderio occidentale di fare dalla Cina il grande mercato recettivo della produzione del "primo mondo". Come ha sottolineato l'economista indiano Amartya Sen, peraltro premio Nobel, l'epoca maoista ha lasciato in eredità alla Cina, oltre a un servizio sanitario di massa abbastanza efficiente, anche e soprattutto un servizio scolastico pubblico che va dalle scuole elementari fino all'Università, e che dagli anni '80 è gratuito per tutti; cosicché il paese dispone anche della preziosa risorsa di una massa di laureati di tutto rispetto qualitativo, tra i quali numerosi ingegneri delle varie specializzazioni, tanto che l'industria americana da tempo si è resa conto che la Cina è in grado di produrre a costi di gran lunga inferiori ottime componenti elettroniche. L'incremento dei consumi cinesi ha senz'altro contribuito all'innalzamento dei prezzi del petrolio, mettendo in crisi i consumatori statunitensi, che oggi cominciano a rendersi conto di quanto poco siano convenienti i loro macchinoni che "bevono" come alcolizzati. Ma il meglio deve ancora venire, atteso che si tratta di un paese di ben 1.300 milioni di abitanti a fronte dei circa 300 milioni degli Stati Uniti.

Anche sul piano militare la Cina non è uno scherzo. Le spese militari cinesi sono seconde solo a quelle statunitensi, e gli esperti del Pentagono - che stanno studiando i possibili scenari della futura guerra con la Cina - ritengono che questo paese abbia il più grande potenziale militare per competere con gli Usa e delle tecnologie militari di distruzione che potrebbero nel tempo controbilanciare il tradizionale vantaggio statunitense. Non è un caso che (secondo notizie pubblicate in occasione delle ultime Olimpiadi) la maggior parte dei missili cinesi sia puntata verso gli Stati Uniti.

E poi c'è la Russia del dopo Yeltsin, che Putin ha rimesso un po' in sesto, riportandola al rango di grande potenza quanto meno locale. Da più di un quinquennio l'economia russa attraversa una fase di forte crescita (per lo meno il 7% in media all'anno), grazie anche ai rilevanti aumenti a raffica dei prezzi dell'energia. Due terzi delle entrate, e circa la metà del bilancio russo, derivano dalle vendite di petrolio e gas, e la crescita derivatane ha permesso di accumulare riserve di oro e valuta estera per centinaia e centinaia di miliardi di dollari, di rimborsare al Fondo Monetario Internazionale le tranches del debito estero, e di realizzare un imponente programma di stabilizzazione macroeconomica e finanziaria. La Russia non può dirsi però un paese economicamente sano, atteso che il reddito pro capite è ancora molto basso, e pari all'incirca al 35% di quello dell'UE e al 25% di quello statunitense. In termini più ampi l'economia globale russa presenta una pericolosa fragilità proprio per la sua rilevante dipendenza dal commercio di petrolio e gas, a cui si aggiungono il basso grado del processo di diversificazione economica di questi ultimi anni e il cattivo stato dell'industria manifatturiera, in linea di massima debole e in certi settori addirittura in fase di declino. Va comunque detto che un'eventuale futuro ribasso dei prezzi energetici in teoria potrebbe essere compensato utilizzando le ingenti risorse finora accumulate e mediante aumenti della spesa pubblica, con particolare riguardo agli investimenti. E ferma restando l'incognita dell'inflazione.

C'è da dire che proprio la rozza ottusità nordamericana ha posto le premesse per un tale accordo, non essendo più la Russia la cenerentola di prima. Che la guerra in Irak, vale a dire, abbia fatto aumentare i prezzi del greggio anche indipendentemente dall'incremento di consumo cinese, è ben noto; e i suoi riflessi non potevano escludere il settore degli idrocarburi, con la conseguenza che alla fine del discorso si è verificata una lievitazione dei prezzi a livelli poco tollerati dalla stessa economia statunitense, a tutto vantaggio della Russia e della sua Gazprom. Come detto, questa congiuntura ha consentito alla Russia di ridurre enormemente il proprio debito estero, portando dall'80% del Pil a circa il 25-20%; situazione che ha avuto altresì la conseguenza di permettere una certa ripresa di tutta l'economia russa.

La Russia non sta portando avanti solo un processo di ricomposizione della sua forza militare, ma anche e soprattutto di ristrutturazione economica di quanto è rimasto della Comunità degli Stati Indipendenti. Messa fuori causa l'ucraina Naftogaz, affogata dai debiti, la Russia può progettare la costruzione, per 5 miliardi di euro, di un gasdotto fino al mar Baltico per rifornire Germania e Inghilterra, tagliando fuori, sia la Turchia sia la Polonia papalina e l'Ucraina, in modo da mettere sotto il suo controllo il transito del gas dai giacimenti dell'Asia centrale. A motivo della dipendenza energetica dell'UE rispetto alla Russia, non si può escludere una crescita del rublo rispetto all'euro; e comunque la creazione russa di notevoli riserve valutarie è in grado di fare assumere a Mosca un crescente ruolo egemonico sugli stati euroasiatici dell'ex Unione Sovietica; e inoltre le ha consentito di migliorare le relazioni economiche con l'India di cui è diventata il primo fornitore di armi) e con il Giappone.

Per quanto la Cina attualmente sopravanzi la Russia nelle esportazioni - in particolare per quanto riguarda le telecomunicazioni, le grandi infrastrutture e opere pubbliche - pur tuttavia la Russia sta facendo grandi progressi nel settore delle cosiddette tecnologie dell'informazione, settore che ha conosciuto una crescita di almeno 50%. Si calcola che dall'esportazione di tecnologie informatiche la Russia sia in grado di ricavare nel 2010 circa 15 miliardi di dollari, proiettandosi così al vertice delle classifiche internazionali di questo settore, mentre dieci anni prima i ricavi non superavano i 200 milioni. Pochi sanno che oggi circa un terzo del software Microsoft è prodotto da lavoratori russi (sia in patria sia nell'emigrazione), e che in questo settore la Russia si situa al terzo posto come esportatrice mondiale, dopo Cina e India.

E veniamo ora ai fatti di Georgia/Ossezia. Non mi pare sussistano dubbi circa il loro rientrare in uno scontro interimperialista tra Russia e Stati Uniti, quand'anche certi aspetti possano in apparenza far pensare il contrario. Ci riferiamo al fatto che, dopo il disastroso periodo seguito all'implosione dell'Unione Sovietica, la Russia non ha realmente completato l'opera di ristrutturazione interna, e non pare in grado di attuare una vera e propria competizione imperialista con gli Stati Uniti, quanto meno fuori dall'area. L'incremento delle sue relazioni economiche e politiche sul piano internazionale attengono sì a una fase di espansione, ma allo stato delle cose più difensiva che offensiva. Difensiva nei confronti di un'evidentissima manovra di accerchiamento da parte degli Stati Uniti, già installatisi militarmente in Kirghizistan e Uzbekistan: in quell'Asia centrale, cioè, dove ancora fino al 2002 la Russia era sotto scacco; ma in seguito lo scacco matto non c'è stato. Paesi baltici, Armenia, Azerbaigian, Georgia e Ucraina hanno attualmente governi filo-statunitensi; c'è il discorso dell'installazione di missili USA in Polonia; forti sono le pressioni per l'ingresso nella NATO di Ucraina e Georgia. Ce n'è a iosa per giustificare la reazione russa all'attacco georgiano alla separatista Ossezia, a cui l'occidente disconosce quel diritto all'autodeterminazione politico-statuale che invece ha imposto, con massicci bombardamenti (i primi contro uno Stato europeo a far tempo dalla fine della II Guerra Mondiale) alla Serbia per il Kóssovo. Vero è che questa difesa dell'autodeterminazione osseta rivela una altrettanto buona dose di ipocrisia della politica russa, che nega alla Cecenia quanto rivendica per l'Ossezia. Ma tant'è. Una cosa è la realpolitik, e altra la coerenza. Dispiace, semmai, che dalle popolazioni oggetto di queste ricorrenti contese nazionaliste (e dei sottostanti interessi economici ad esse estranei) non si sviluppi alcun moto di reazione in nome dei propri reali interessi sociali.

Esiste però un interesse primario della Russia per il problema energetico, suscettibile di sviluppi imperialisti. La questione osseto-georgiana, oltre che attenere alle esigenze di difesa russa, si collega direttamente al costruendo oleodotto BTC (da Baku in Azerbaigian, via Tbilisi in Georgia fino a Ceyhan in Turchia), che dovrebbe contornare il territorio della Federazione Russa. Azerbaigian e Georgia sono in atto veri e propri protettorati statunitensi, legati da cooperazione militare anche con Israele, a sua volta interessata ai campi petroliferi azeri dai quali importa il 20% circa del suo fabbisogno. La Russia è quindi parte della competizione energetica mondiale, indipendentemente dal fatto di non avere bisogno di importare petrolio o gas naturale. Tuttavia, ha l'esigenza di controllare il trasporto dell'energia, in particolare verso l'Europa. Non è per nulla azzardato pensare che il rafforzamento di questo controllo possa rafforzare la posizione russa e consentire a Mosca di ristrutturarsi come grande potenza, a scapito dell'influenza statunitense nella regione. Siamo in una fase in cui le riserve mondiali di petrolio, gas naturale, uranio e, per le necessita industriali, di rame e cobalto diminuiscono, e il loro controllo è diventato vitale per i grandi sistemi economici.

Non vi è dubbio che se gli Stati Uniti riuscissero a mettere le mani anche su petrolio iraniano (oltre a quello iracheno; l'Irak, non dimentichiamocene, sta al secondo posto nel mondo per riserve petrolifere comprovate), e a ridurre al rango di docili vassalli gli Stati asiatico-caucasici attraverso cui dovrebbero passare i progettati nuovi oleodotti, avrebbe tutti i numeri per diventare realtà il sogno dell'establishment yankee di fare del XXI secolo un secolo più statunitense di quello già trascorso. Nella situazione globale del nostro tempo, a conti fatti, finisce con l'avere scarso peso il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca, poiché - se è giusto vedere un elemento duramente propulsore verso questo obiettivo nell'attuale dirigenza statunitense, legata alla lobby petrolifera texana - è altresì vero che ogni Presidente prossimo venturo dovrà fare i conti con quella che è una specifica esigenza economico-strategica degli Stati Uniti (paese, ed economia, oggi in forte crisi, con debito estero spaventoso e in una parte non secondaria verso la Cina). Se il progetto si realizzasse lo strangolamento cinese e russo avrebbe un'ovvia conseguenza. La grande pericolosità di siffatta situazione non dipende solo dalla forza militare statunitense, ma anche dal fatto che l'assoluta prevalenza degli specifici interessi macroeconomici e militari degli Stati Uniti, e disconoscimento di qualsivoglia limitazione, sono anche formalmente dottrina ufficiale di Washington. Una specie di "dottrina Monroe" globalizzata, che (incrociamo le dita) potrebbe portare anche all'uso locale di armi nucleari.

Oggi gli Stati Uniti devono fare i conti non solo sul loro versante esterno, ma anche con il proprio sistema economico, il che fa pensare (speriamo) che anche per essi valga la costante storica del declino come fase successiva a quella del dominio. Le cose non vanno bene per l'economia USA e per la sua popolazione. Rischia di finire il regno di bengodi del periodo posteriore alla II Guerra Mondiale. La quota di partecipazione statunitense alla produzione mondiale si aggira sul 23%; gli USA sono il paese più indebitato, e solo i flussi finanziari provenienti dall'Europa, dal Giappone e dalla Cina sono essenziali al finanziamento del deficit nordamericano. La crescita economica statunitense si è basata su un comportamento delle famiglie yankee che ricorda quello della cicala nella fiaba "La cicala e la formica": cioè consumi di gran lunga superiori ai livelli produttivi, col risultato di un indebitamento medio dei cittadini statunitensi che supera il 110% del loro reddito annuo, e comporta livelli crescenti della percentuale degli interessi per questo debito sul montante medio delle delle loro spese. La serie di esplosioni di bolle speculative finanziarie non è stata certo un balsamo, e la recessione incombe eccome. Potenza economico-finanziaria in forte crisi, ma dotata di spaventosa potenza militare, i dirigenti degli Stati Uniti sanno bene che il tempo gioca in senso sfavorevole, e questo ci fa correre il rischio di scelte avventuriste dalle conseguenze tragiche.

Pier Francesco Zarcone

22 agosto 2008

 

Nota:

1. Gli Stati Uniti, fornitori di circa i ¾ della produzione mondiale di petrolio, da tempo sono diventati importatori; e quindi dipendenti.