Il Tibet nella morsa dell'imperialismo cinese

 

La rivolta del popolo tibetano contro l'occupazione cinese porta una volta di più agli occhi del mondo intero lo stato di soggezione di un territorio che da decenni subisce la presenza militare dell'esercito della Repubblica Popolare Cinese. Geograficamente strategico, dopo la scoperta e la conseguente depauperazione di giacimenti di materie prime essenziali per l'economia cinese, uranio in primis, che hanno ridotto il paese a discarica nucleare, da tempo subisce anche la pressione delle politiche demografiche di sinizzazione condotte dal regime di Pechino, secondo un classico schema di potere imperialista che la Cina ha imposto nell'area dell'estremo oriente fin dagli anni '60 e che non si fa scrupolo della più feroce repressione.

Il Tibet si colloca così come area strategica nella zona di influenza cinese al pari della Birmania o del Darfur, dove gli interessi cinesi sono tutelati e difesi dai regimi locali tramite una sistematica opera di repressione dei movimenti di lotta. Da anni, del resto, sono evidenti le mire imperialiste cinesi sull'Africa.

Una grande disponibilità di liquidità finanziaria consente alla Cina di porsi come paese investitore in grado di giocare sugli scenari internazionali sostenendo progetti industriali in Sud Africa come in Venezuela, in Sudan come nell'Indocina, entrando in accordi di gestione dei corridoi delle materie prime dal Mar Caspio alle sue aree industriali del sud-est, ponendosi in quell'area come grande competitore al pari di Russia, USA e potenze locali come Iran ed India, come gendarme anti-islamico del Patto di Shanghai.

Ma il gigantesco surplus finanziario cinese è il frutto di decenni di accumulazione assicurata da quella seconda via dello "sviluppo parallelo" (i profitti dell'agricoltura investiti nella industrializzazione), seguita dai dirigenti cinesi tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, che è consistita nello sfruttamento dei lavoratori cinesi, e di determinazione, appropriazione e gestione del sovrappiù da parte dello Stato cinese che non ha disdegnato di usare e pratica ampiamente oggi la repressione aperta.

In realtà in Cina non vi è stata alcuna transizione al comunismo, non è andata al potere nessuna tecnoburocrazia, ma abbiamo assistito in 60 anni alla gestione capitalistica di stato da parte di un rigido centralismo burocratico che oggi gestisce la transizione al capitalismo nella forma più selvaggia, senza per questo effettuare il passaggio ad un assetto politico da democrazia occidentale.

La tragedia del Tibet e del suo popolo sono tutt'uno con la tragedia dei lavoratori cinesi, vittime del dominio statale della Repubblica Popolare Cinese, in nome... del popolo!

Per la liberazione del Tibet, per l'autodeterminazione del popolo tibetano, per l'autonomia dei lavoratori del Tibet e della Cina!

Segreteria Nazionale
Federazione dei Comunisti Anarchici

17 marzo 2008