LE TEORIE ECONOMICHE

Introduzione al seminario di formazione della FdCA - Fano 2 luglio 1995

 

Con la nascita dell'industrializzazione, con la nascita della borghesia come classe egemone, nacquero anche le teorie economiche; non che non ci fosse un'economia prima: le banche, gli assegni circolari risalgono al Medioevo, li avevano inventati i fiorentini -o meglio i pratesi- e quindi c'era già un'economia fiorente che si basava sullo scambio, sulla vendita, sul rapporto tra le monete. Ma non c'era una teoria economica.

I primi tentativi cominciano quando l'industrializzazione diviene importante e la prima teoria economica che ha una certa completezza è quella dei fisiocratici, in Francia. Ma la prima teoria veramente completa che dà al capitalismo una struttura per affermarsi dalla fine del '700 in poi è quella liberista di Adam Smith.

Adam Smith era uno scozzese che ha scritto "La difesa delle nazioni", libro molto studiato e addirittura tornato di moda. In sostanza questa teoria cosa dice: che il mercato è ciò che regola tutto: se noi lasciamo libero sfogo al mercato, all'individualismo più sfrenato, il mercato trova le compensazioni adatte a creare il massimo di benessere possibile; c'è la concorrenza, c'è lo sviluppo sociale, lo sviluppo economico. Si configura quindi come una teoria nettamente liberista. 

Infatti i capitalisti inglesi si opposero alle leggi sul grano, le quali cercavano di mantenere alto il prezzo interno del grano per favorire i contadini e quindi prevedevano barriere doganali sul grano. I liberisti alla metà dell'800 (1830-1840) fecero delle grosse battaglie contro le barriere per liberalizzare il prezzo del grano, supportati anche dal cartismo che vedeva nella borghesia un progresso nella lotta contro gli aristocratici proprietari terrieri. La teoria liberista di Adam Smith ha avuto due supporti fondamentali: uno è quello teorico di Ricardo, importante perché è quello a cui si rifà Marx (senza Ricardo non si capisce Marx); l'altro è quello sociale di Malthus, autore di un testo sulle leggi della popolazione. Secondo Malthus, in un sistema di concorrenza pura, la popolazione si regola per una legge naturale: via via che per natura la popolazione tende ad aumentare, le risorse disponibili della terra diminuiscono, in quanto le risorse crescono secondo una progressione aritmetica, mentre la popolazione cresce secondo una progressione geometrica, per cui c'è una tendenza della popolazione ad aumentare più di quanto aumentino le risorse. Malthus fa tutto un calcolo su come si vengono a mettere a coltivazione i terreni, come i nuovi terreni siano inizialmente meno produttivi di quelli sfruttati dato che gli insediamenti umani tendono a sfruttare i terreni migliori e benché la tecnologia possa far aumentare la produzione dei beni alimentari di un certo quantitativo, la popolazione aumenterà sempre più dei beni disponibili. In questo modo comincia la carestia: la popolazione è aumentata più dei beni e allora si ha una crisi con perdite di vite umane. E' una legge ferrea! Ma si verifica una maggiore disponibilità di beni e può cominciare una nuova fase espansiva: quindi c'è una regolazione automatica della popolazione.

Ricardo, invece, dall'altro lato costruisce la teoria completa del liberismo e parte dal concetto di valore. Come avviene lo scambio? Il problema era come il mercato potesse di per sé regolamentare tutto: questo avviene attraverso il concetto di valore. Ricardo si chiede: in che modo due soggetti sul mercato si scambiano qualcosa? Un produttore di penne ed un produttore di occhiali come possono scambiare i loro prodotti? In base alla quantità di lavoro contenuto nei prodotti. Se un produttore chiedesse più della quantità del lavoro contenuto, l'altro potrebbe fabbricarselo con lo stesso quantitativo di tempo. Quindi il tempo di lavoro impiegato è l'unità di misura che permette ai soggetti sul mercato di scambiare sul mercato le merci. Ogni merce ha un valore pari alla quantità di lavoro impiegato. Questo è il punto di incontro sui mercati: la gente produce in base ad un tantum di lavoro inserito nella merce che sta sul mercato, scambia quello che ha e questo permette la circolazione. Il punto di equilibrio sta esattamente nella quantità di lavoro incorporato nella merce. Quindi lo scambio è eguale. Questo è in breve il dettato di Ricardo. Su questo principio fondamentale, che le leggi economiche governano la produzione e le leggi sociali governano la popolazione, determinando il miglior mondo possibile, si sviluppa il capitalismo. L'abbattimento delle barriere doganali ne è una prima conseguenza e lo Stato che gli fa da culla è l'Inghilterra, in cui si era sviluppata prima la rivoluzione industriale e -con essa- la rivoluzione sociale. Mentre la rivoluzione sociale arriva in Europa alla fine del '700-inizi dell'800, l'Inghilterra ha la sua crisi alla fine del '600. Successe una cosa strana: la rivoluzione inglese non è una rivoluzione completa. La borghesia arrivò al potere ma con un compromesso con l'aristocrazia; mentre in Francia l'aristocrazia venne spazzata via e la borghesia prese il potere (ormai il processo era maturo), in Inghilterra questo non avvenne del tutto: c'è un compromesso tra borghesia, aristocrazia e monarchia. Col ritorno degli Hannover e la cacciata degli Stuart, una parte retriva dell'aristocrazia venne spazzata via insieme alla parte più radicale della borghesia; ci fu un compromesso che portò alla trasformazione dell'aristocrazia in borghesia investitrice di capitali e diede l'accesso al potere alla borghesia tramite la creazione della Camera dei Comuni. La Camera dei Lord resta alla aristocrazia. La Camera dei Comuni ha il suo corrispettivo in Francia nel Terzo Stato. La rivoluzione borghese inglese non è quindi completa, ma ciò permette all'Inghilterra di arrivare prima allo sviluppo capitalistico. Ci sono anche dei fattori economici: l'Inghilterra ha il controllo dei mari, il che permette una circolazione enorme delle merci, il controllo dei mercati. La scoperta dell' America aveva sviluppato il commercio dei beni e dell'oro, favorendo l'Inghilterra e la Spagna, mentre l'Olanda -tramite la Compagnia delle Indie- era legata ai mercati orientali. Tuttavia, mentre nella Spagna l'afflusso dell'oro aveva creato dei problemi enormi provocando il crollo della moneta e non decollava una rivoluzione borghese, l'Inghilterra aveva già una industria propria (quella della lana fin dal Medioevo). La produzione della lana grezza è importante perché diviene fondamentale nella rivoluzione industriale del '600. Questo processo è ben descritto ne "Il Capitale" di Marx. Vengono recintate le terre. Un tempo l'economia inglese si basava sulle terre comuni.Ogni Comune aveva delle terre che servivano per il pascolo e per la coltivazione. Poi le terre vennero recintate ed utilizzate soltanto per il pascolo. Le terre si impoverirono e si crea un esercito di riserva di persone che non hanno più da mangiare, che devono rifugiarsi in città e che forniscono la manodopera a basso prezzo per l'industria nascente. Questo delle recinzioni è un passaggio fondamentale. Un tempo l'accesso alle terre per fare legna liberamente -ad esempio- era un diritto; ma con le recinzioni questo non è più possibile, come non è più possibile coltivare, facendo venir meno il sostentamento. Nelle campagne si crea miseria e le pecore invadono le terre: ecco perché le colline inglesi sono completamente calve e prive di alberi! L'impossibilità di coltivare e di raccogliere legna crea povertà e costringe al trasferimento nelle città, dove invece gli opifici cominciavano ad offrire lavoro. Infatti la produzione ed il trattamento della lana richiedeva manodopera; i latifondisti potevano allevare le pecore e vendere la lana e nel frattempo nascevano gli opifici che nel '600 trattavano la lana che veniva esportata in tutto il mondo.

L'artigiano di città già esperto tende a diventare il padrone dell'opificio, si tratta di colui che conosce il mestiere, del maestro d'arte; altri artigiani che soccombono alla concorrenza devono mettersi a servizio. Nelle città si verifica la distruzione del mondo artigiano esistente -tranne che per arti marginali- e la creazione della rottura tra un proletariato che possiede soltanto la propria forza-lavoro come merce e chi possiede i capitali per la produzione. Il Dobb sostiene che in questa fase non sono i mercanti a trasformarsi in imprenditori, poiché essi continuerebbero a investire soltanto nel traffico di merci d'oltreoceano, guadagnando sul differenziale e non avrebbero avuto capacità di capire che il futuro stava nell'investimento produttivo. Chi ebbe questa capacità furono i maestri d'industria che possiedono la conoscenza della tecnica ed i banchieri che prestavano loro i soldi. Erano i nuovi ceti emergenti. Inoltre si rompe l'unità del ciclo produttivo artigianale: mentre l'artigiano era padrone di tutto il ciclo, nella fabbrica questo non succede più. All'inizio sì: vengono messi uno accanto all'altro tanti artigiani che fanno tutto….e questo era il primo opificio, poi di fatto si cominciò a dividere il lavoro. Comincia la divisione del lavoro perché: arrivano i capitali, i capitali vengono investiti nel progresso tecnologico ed arrivano le macchine ai primi del '700. Le invenzioni delle macchine per tessere hanno una sequenza incredibile fino all'uso dell'energia a vapore che dà la forza motrice ai telai. Così alla fine del '700 -almeno in Inghilterra- il capitalismo è pienamente sviluppato. In Inghilterra nasce la prima teoria economica. E l'Inghilterra, essendo la potenza economica più forte, riesce ad imporre questo modello anche alle altre nazioni. Trova più difficoltà ad imporsi in Germania, che ha una storia capitalistica tutta sua. La Germania era ancora frazionata in tanti Stati, aveva un sacco di barriere doganali, solo alla metà dell'800 farà l'unione doganale e comunque risultava la più impermeabile all'influenza del capitalismo.

Marx, quando parte nella sua critica all'economia capitalistica per fondare quella che è la visione marxista dell'economia, assume gli stessi identici parametri di partenza di Ricardo. Ciò che permette lo scambio delle merci sul mercato è il valore. Il valore è la quantità di lavoro incorporato nelle merci. Se il lavoro è l'unica cosa che dà valore alle merci, e l'unità di scambio è la quantità di lavoro, il lavoro degli operai è sottovalutato. Non solo, ma c'è un dato di fatto: cosa succede sui mercati? Chi non ha gli strumenti per lavorare da sé, deve vendere l'unica cosa che ha e cioè la forza-lavoro. A che quantità la vende? Nel mercato capitalistico all'unico punto di equilibrio possibile, ovverosia la quantità di lavoro necessaria a generare la forza-lavoro. L'operaio vende una merce che è la forza-lavoro, a quanto la vende? A quanto è il suo valore: e il suo valore è la capacità di produrre. Ma la merce forza-lavoro ha una qualità particolare: è quella di produrre valore. Siccome quello che vale nel mercato è soltanto il lavoro incorporato, l'unica merce che crea valore è il lavoro. Quando il padrone acquista un'operaia sul mercato del lavoro, la porta nel suo opificio, la paga quanto devo, ovverosia la sua sussistenza, egli ha una merce particolare: egli ha comprato una merce che produce valore. Allora, egli questa merce che produce valore la paga quanto deve, ovverosia il suo valore, e da essa si estrae altro valore. Nella giornata lavorativa, quando l'operaia lavora, produce valore: nella prima parte della giornata lavorativa produce valore necessario a riprodurre la sua forza-lavoro, nella seconda parte della giornata lavorativa produce del valore in più. Questo valore in più non va all'operaia, perché lei si prende come salario il prezzo convenuto, ma finisce nelle mani del padrone che ha comprato la forza-lavoro dell'operaia. L'imprenditore è proprietario della forza-lavoro dell'operaia per un certo periodo di tempo e tutto il valore che ella produce -a parte quello che le viene reso come salario- è del padrone! Quindi cosa è successo: il capitalista ho realizzato una cosa fondamentale: ha acquistato una merce per un certo valore e ne ha estratto un valore superiore. Quindi egli ha estratto un plusvalore. Il profitto capitalistico è il plusvalore. Marx, prendendo gli elementi dell'economia borghese della teoria di Ricardo, inserisce un passo in più ed inserisce la teoria del plusvalore. La teoria del plusvalore -secondo Marx- è quella che regge il capitalismo. Il capitalista compra tante merci, produce un dato oggetto, lo vende al suo valore, però di tutte le merci una l'ha pagata meno di quanto ha prodotto; ma non perché egli abbia rubato qualcosa, egli ha pagato la merce quanto vale, soltanto che ne ha ricavato di più.

Le macchine non producono valore, solo il lavoro produce valore. Per i marxisti ortodossi l'unica cosa che produce valore è il lavoro dell'uomo.

La teoria del plusvalore dà al movimento operaio uno strumento enorme, e ci si rende conto perché Bakunin era d'accordo. Marx ha visualizzato quella che era la "rapina" non volontaria, però rapina di classe! Il capitalista acquista il lavoro degli operai, lo paga meno perché tutto il profitto vada a lui. Egli dispone dei mezzi di produzione, l'operaio è sul mercato del lavoro ed ha solo le sue braccia; il capitalista invece ha i capitali, ha l'opificio ed i mezzi di produzione: egli può acquistare il lavoro dell'operaio ed espropriargli la parte che produce. E' vero che egli l'ha comprata secondo il prezzo del mercato, ma in realtà il bene l'ha prodotto l'operaio ed il capitalista se ne appropria soltanto in virtù del possesso dei mezzi di produzione. Questa impostazione diviene dirompente nel movimento operaio, dando uno strumento fortissimo di propaganda.

Per quanto riguarda il ricatto occupazionale, il fatto che sul mercato del lavoro ci fossero quelli che venivano dalle campagne, disponibili a vendersi a qualsiasi prezzo pur di sopravvivere, era un elemento fondamentale della concorrenza capitalistica permettendo che i salari si abbassassero al livello minimo della sussistenza. Tant'è vero che prima di Marx, un altro economista tedesco, Lassalle, aveva formulato quella che si chiama la legge bronzea dei salari: si trasporta ai salari quello che Malthus aveva detto per la popolazione. Se c'è poca disponibilità di lavoro, il prezzo del lavoro tende ad alzarsi; se tende ad alzarsi gli operai stanno meglio; stando meglio sono più prolifici, quindi sul mercato del lavoro si accumulano delle risorse; accumulandosi nuove risorse ci sono più risorse, allora c'è più concorrenza ed il prezzo del salario si abbassa. Il prezzo del salario oscilla continuamente quindi intorno al prezzo minimo andando un po' sopra, un po' sotto.

Lassalle è stato criticatissimo da Marx, ma in effetti il Partito Socialdemocratico tedesco nasce con una fusione tra marxisti e lassalliani e quindi la legge bronzea dei salari è passata in gran parte dentro il movimento operaio di stampo socialdemocratico.
All'inizio il movimento anarchico accetta in pieno l'economia marxista come base della propria azione; solo agli inizi del '900 alcuni anarchici economisti (Cornelissen, Chertzesov?…..) cominciano una critica dell'economia marxista. Cosa è successo? Intanto la teoria dominante non è mai stata quella marxista, ma semmai quella capitalista che però non è più quella di Adam Smith e di Ricardo. E' cambiato qualcosa. La teoria dominante è diventata quella cosiddetta "marginalista". Questa teoria invece di partire dal prezzo di produzione, parte dall'utilità del compratore. Secondo i marginalisti non è lo scambio che conta ma il fatto che il compratore va sul mercato e compra: compra perché ha un'utilità. Se ha bisogno di occhiali, li compra. Quando si ha bisogno degli occhiali? Quando il bisogno degli occhiali ed il prezzo degli occhiali arrivano al punto ottimale. Quello che conta non è la quantità possibile di denaro che si ricava, ma quello che il venditore può estratte al massimo, perché se egli tiene troppo alto il prezzo, nessuno compra i suoi occhiali. Il venditore produce merci fintanto che il prezzo non scende al punto ottimale, per cui il compratore le acquista. Questa è l'utilità marginale, il profitto ultimo che si ottiene nella produzione degli ultimi pezzi, quelli che portano il prezzo al punto per cui l'utilità del compratore ed il suo bisogno coincidono col prezzo della merce. I marginalisti spostano l'attenzione dalla produzione al mercato: è un'inversione totale. Per far questo, la teoria economica diventa molto più complicata, perché si tratta di disegnare delle curve, per cui via via che il prezzo cala occorre prevedere quanti possono comprare, via via che il bisogno cresce quanti sono costretti a comprare, qual è il punto di incontro…

Allora il marginalismo rappresenta due cose fondamentali: l'ingresso della matematica in maniera massiccia nell'economia, trasformandola da teoria di principio in teoria scientifica; la seconda cosa consiste nello spostamento dell'accento dal produttore al consumatore. Questo fa sì che la merce non venga più collocata sul mercato così, tanto trova il consumatore; ma deve essere anche promossa, occorre creare nel consumatore il bisogno che si produca quella merce. E' la nascita della pubblicità! Dalla fine dell'800 in poi bisogna collocare sul mercato le merci tramite la pubblicità. Quindi la creazione di mercato! Non più il mercato come strumento indifferenziato che assorbe tutto, ma il mercato come strumento dinamico che si può controllare ed influenzare. Marx aveva correttamente previsto che nell'ambito dell'economia liberista classica si sarebbero verificate le crisi di mercato. Cosa accadeva fino al 1860? Accadeva che l'innovazione tecnologica comportava l'aumento di produzione, ma nello stesso tempo non comportava un aumento dei salari. Il mercato era ristretto: non si evolveva con la stessa dinamica e con la stessa quantità con cui si evolveva la produzione. In regime di concorrenza, più si riusciva a restringere il tempo di lavoro necessario per pagare l'operaio e più tempo rimaneva per il profitto. Aumentare la produttività del lavoro è vero che vuol dire abbassare il costo delle merci, ma vuol dire produrre tante più merci perché il profitto sia dilatato. Per far questo occorre essere pronti a rinnovare la fabbrica tecnologicamente. Rinnovare la fabbrica tecnologicamente permette di arrivare sul mercato con un prezzo ridotto. Estrarre più plusvalore ed avere il prezzo ridotto delle merci. E quindi si batte la concorrenza. E siccome in regime di concorrenza tutti tendono ad adeguarsi, la concorrenza impone una innovazione continua e perciò una sovrapproduzione continua. A questo punto il mercato oscilla: c'è un momento di crescita, poi le merci non trovano più collocazione sul mercato perché il mercato non è cresciuto ugualmente e si ha distruzione di merci, crisi ciclica, una breve dopo 5 anni ed una grossa dopo 10 anni, previste perfettamente da Marx. I cicli dell'economia capitalista dal 1800 in poi sono esattamente così. A questo punto i capitalisti si rendono conto che questo meccanismo è distruttivo per loro stessi, in quanto ogni volta che c'è una crisi si ha una ristrutturazione completa e molti di loto muoiono, dal punto di vista economico, sul mercato. Allora i forti decidono di mettersi d'accordo per regolare il mercato e cominciano a fare quelli che si chiamano i cartelli e i trust. Ci si mette d'accordo tra produttori di merci simili per non farsi concorrenza, mantenendo il prezzo delle merci ad un certo livello e la produzione dentro limiti che consentono di stare sul mercato.

Questa è la logia dei cartelli. Vedere come questo torna perfettamente con la teoria marginalista: il bisogno di programmare il mercato. Quindi non più il mercato come punto dove si butta la produzione, ma programmare il mercato e produrre di conseguenza; calibrare la produzione sul mercato possibile, quindi previsione di mercato. Per questo i marginalisti sono attenti ai bisogni dei consumatori, perché hanno bisogno di capire quali sono le merci e quale quantità di va prodotta, da qui il bisogno della matematica e di strumenti scientifici per fare previsioni.

(Un esempio. La benzina verde da un punto di vista ecologico è una colossale presa in giro. Che significa benzina verde? Che non ci sono gli ottani, non c'è il piombo, perché il piombo inquina. Bene, la benzina verde ha altri inquinanti che sono forse peggio del piombo. Per la benzina verde bisogna mettere la marmitta catalettica: si sa che nelle città ormai si può entrare soltanto se si ha la marmitta catalittica. In realtà la benzina verde e la marmitta catalittica abbattono -alla velocità con cui le macchine vanno in città- soltanto il 3% degli inquinanti. Infatti la marmitta catalittica produce effetti soltanto intorno agli 80 Km/h continui, quindi in autostrada in realtà. Inoltre non si sa come smaltire le marmitte catalittiche: ogni 2 anni andrebbe cambiata perché diviene inefficace e non si sa come smaltirle. Di più: il piombo, scoppiando, creava degli oli che lubrificavano il motore; questo non avviene più con la benzina verde ed i motori sono sottoposti ad usura, tant'è vero che occorrono degli additivi che svolgono la stessa funzione del piombo. In questo modo i motori si deteriorano prima. Ci si rende conto quindi che la benzina verde è un enorme business perché permette di vendere macchine nuove, cosiddette ecologiche, vendere marmitte catalittiche, vendere più spesso macchine perché si usurano prima i motori. Chi ha avuto l'idea della benzina verde ha avuto un'idea geniale, perché ha cercato di vendere un prodotto cosiddetto ecologico, rompendo il mercato dell'auto. Quando la Volkswagen ha avuto questa idea, gli altri hanno detto: OK. Ma ci arriviamo tutti insieme. Questi sono i cartelli: la concorrenza è limitata ad un certo modo; la Volkswagen poteva avere un effetto dirompente e se la FIAT non avesse avuto 2 o 3 anni per adeguare la produzione, avrebbe avuto il mercato distrutto.)

Il marginalismo e la politica dei cartelli cominciano ad esistere quindi a fine '800-inizi '900. Allora, perché gli anarchici cominciano a criticare Marx? Perché nella nuova impostazione dell'economia capitalistica, la rigidità dell'economia marxista non trova più riscontro. Intanto le crisi hanno cambiato natura: non sono più così cicliche, non sono della stessa natura, non sono contemporaneamente politiche; in secondo luogo, il mercato non è più un contenitore dove le merci vengono buttate. Il fatto che il mercato fosse illimitato permetteva una visione di libera concorrenza tra i produttori, ma non essendo questo più vero, il mercato comincia ad essere qualcosa di controllato, di regolato, su cui agiscono i trust ed i cartelli. La teoria di Marx non funziona più, in quanto Marx aveva previsto che le crisi cicliche avrebbero portato il capitalismo alla distruzione e la loro entità sarebbe via via cresciuta diventando dirompente. Qui interviene l'ultimo pezzo della teoria marxista che ci interessa: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Cos'è la caduta tendenziale del saggio di profitto? Abbiamo detto all'inizio che i produttori, in concorrenza tra loro, devono reggere la competizione con gli altri e continuamente innovare, migliorare la tecnologia, perché questo gli permette di avere le stesse merci a costi più bassi e poterle vendere a loro volta a prezzi più bassi e vincere la concorrenza con gli altri. Questo è un processo continuo. L'innovazione tecnologica è continua e l'adeguamento della fabbrica e della produzione ne conseguono. Aumentare la tecnologia in fabbrica significa aumentare i macchinari: siccome le macchine non producono valore, ma l'unica merce che produce valore è il lavoro incorporato, quindi quanto l'operaio lavora, si ha un dato certo: che si investe pari a 50 in macchina e pari a 50 in forza-lavoro, si ha pari a 50 di produttività con un coefficiente che sarà determinato dalla tecnologia, ma comunque sono pari a 50 investite in qualcosa che produce profitto e pari a 50 in qualcosa che non produce profitto. Se, invece, si aumentano i macchinari, l'investimento è pari a 90 in macchinari e pari a 10 in merci. Allora, solo pari a 10 del capitale che si è impiegato produce valore e quindi si riduce il profitto. La produttività del capitale è diminuita: non è il totale del valore che conta, ma quanta parte del capitale investito produce valore, Per avere una produzione pari a 10, occorre investire 100, mentre prima con un investimento pari a 100 si aveva 50. La produttività del capitale investito è diminuita. Ci sono dei correttivi: c'è un coefficiente moltiplicatore che dipende dalla tecnologia e quindi dilata la produttività del lavoro, però, di fatto, facendo comunque una formula molto semplice, venne fuori che via via che aumenta la tecnologia, il tasso di produttività del capitale diminuisce. Quindi il tasso tendenziale del saggio di profitto tende a zero e quindi il capitalismo tende a perdere. La caduta tendenziale del saggio di profitto avrebbe portato il capitale alla paralisi.

Gli anarchici cominciano a rompere con questa tendenza meccanicista. 

Sostanzialmente quello che Marx fa è di creare un meccanismo che per sua natura porta alla caduta del capitalismo e quindi al socialismo. Il socialismo non è più visto come un'evoluzione della società legata anche a fattori etici, morali, di giustizia sociale, ma è visto come una necessità. Non è più l'aspirazione di anime belle o buone o giuste, ma semplicemente come una necessità della storia. La storia fatalmente porta al socialismo. Questo ha portato a delle degenerazioni.

Marx è in fondo un positivista, perché cerca di espellere dal processo socialista l'individualità, la soggettività -non dell'individuo ma la soggettività delle masse- le aspirazioni delle persone, per relegare tutto in una funzione meccanica di sviluppo delle leggi economiche. In questo senso è tipicamente scientifico, perché inserisce il socialismo nella religione di tutte le scienze, che è ciò che avviene in ambito positivistico durante l'800. Ma, soprattutto, lo sviluppo sociale è così già determinato. I luxemburghisti, tuttora, sono convinti che tutto ciò avverrà naturalmente e perciò non c'è bisogno di fare propaganda, perché è l'evoluzione naturale delle cose che porta al socialismo. I bordighisti hanno una concezione analoga.

Gli anarchici sostengono invece che l'organizzazione, la volontà di arrivare al socialismo, il prefiggersi poi quello che si vuole è un modo per costruire una società più giusta: c'è bisogno di un'azione educativa delle masse per arrivare ad un socialismo giusto, voluto, cosciente, che non sia semplicemente la gestione rigorosa dei mezzi di produzione. Questa rottura diventa clamorosa dopo la rivoluzione russa.

Agli inizi degli anni '70, la casa editrice Crescita Politica di Firenze pubblicò un libro intitolato "Autonomia e organizzazione" scritto insieme ad un gruppo luxemburghista francese, con 3 articoli e 2 introduzioni: una dei francesi ed una nostra, cioè dei comunisti anarchici italiani. Erano gli anni in cui si iniziava ad individuare nettamente la tendenza in Italia al decentramento produttivo: cioè fino agli anni '60 l'Italia marciava sulle grandi concentrazioni: Porto Marghera, Gioia Tauro, Fiat, e la marginalizzazione delle piccole aziende, mentre agli inizi degli anni '70 -dopo la crisi petrolifera- è cominciato ad emergere il decentramento. Il modello produttivo in Italia non era più quello di Porto Marghera, ma il Veneto, le Marche, la Toscana, l'Umbria, Prato…., cioè quelle zone in cui il capitalismo si è diffuso su aziende a domicilio, piccole aziende, ecc. Allora, in quel libro noi anarchici sostenevamo che il capitalismo andava in questa direzione ed i fatti ci hanno dato ragione. All'epoca la tendenza era in apparire, ma a noi anarchici sembrava che già avesse dei caratteri evidenti: ciò permetteva la ricattabilità della forza-lavoro, la possibilità di abbassare i costi ed i capitali fissi, permetteva un controllo più flessibile, perché in fin dei conti se si investe in una tecnologia avanzata tipo una catena di montaggio, gestirla è un problema, costa un sacco; se invece si dà del lavoro in appalto a piccole aziende, quando queste non servono più per il prodotto che serve, non si compra più e sono loro che pagano i costi della nuova situazione. Questo modello ha dei vantaggi, mentre prima dominavano le economie di scala: se si aumenta la produzione si ha un'economia riscontrabile in tanti impianti modello anni '50-'60.

I luxemburghisti francesi in quel libro sostenevano che la via da Prato a Porto Marghera è a senso unico, non ha ritorno. MA già allora, noi anarchici parlavamo di casi di esistenza del capitalismo: non è vero che il capitalismo ha una legge unica di evoluzione, poiché deve confrontarsi con un fattore -la LOTTA DI CLASSE- che non è un correttivo del capitalismo, ma l'emergere di una contraddizione che prima o poi sarà vincente. Eppure il capitalismo riesce a modellarsi anche sulla lotta di classe: non tutti i capitalismi sono uguali, perché non tutti i capitalismi si confrontano con la stessa conflittualità di classe. Il capitalismo italiano è un modello interessantissimo perché nasce in un momento, in un periodo, in una zona di frizione permanente con la classe. Si può dire che l'Italia sia uno dei paesi dove la lotta di classe sia più vivace. Da sempre. Il capitalismo italiano è figlio di questa situazione, per cui è il capitalismo al mondo più flessibile. Più capace di confrontarsi con la turbolenza. Nel 1920, quando scoppiò l'occupazione delle fabbriche e nacque quello che era il movimento dei soviet, dei consigli di fabbrica, il capitalismo italiano ebbe la capacità di reagire. Ci fu un convegno internazionale di capitalisti nel 1922, in cui Olivetti fece una relazione sui consigli di fabbrica e su come il capitalismo doveva fronteggiare la nuova turbolenza. Quello italiano è un capitalismo -dal punto di vista dei rapporti con la classe- avanzatissimo, capace di adattarsi e di assumere la lotta di classe come elemento dinamico e volgerlo a suo favore. Già nel 1974, noi non vedevamo più nel capitalismo uno sviluppo univoco su leggi deterministicamente determinate, ma possibilità di scelta tra accezioni che via via determinano situazioni di resistenza e di capacità di organizzazione della classe.

Non a caso -secondo noi- non esiste un solo capitalismo, ma l'estrazione del profitto e la creazione di vari modi per estrarlo.
Così, gli anarchici agli inizi del '900 avevano rotto con questo determinismo assoluto, con questa certezza che il capitalismo avrebbe avuto un'evoluzione che l'avrebbe portato prima o poi alla sua dissoluzione: la lotta di classe sarebbe cresciuta fino a rompere l'involucro perché la contraddizione tra mezzi di produzione e bisogni sarebbe stata dirompente e perché il ricorrere delle crisi cicliche avrebbe sempre di più distrutto merci e quindi la necessità della produzione veniva in conflitto con l'involucro dei rapporti sociali; rapporti sociali che erano tali da non permettere la piena evoluzione delle forze produttive e quindi prima o poi questo involucro dei rapporti sociali capitalistici determinati dalla compravendita del lavoro, dal possesso dei mezzi di produzione, sarebbe stato rotto dalle esigenze della produzione.

Come si vede, nel marxismo c'è un'evoluzione meccanica delle cose, che invece gli anarchici cominciano a rifiutare in nome di una visione più volontaristica, ma anche più legata all'etica, alla morale, al bisogno della giustizia, che invece sono completamente scomparse nel mondo marxista.

L'unico marxismo che vince è quello sovietico, ma Lenin ha un fondo giacobino e volontaristico che non fa parte della tradizione marxista; non a caso fu criticatissimo dalla Luxemburg.

E così siamo arrivati allo scoppio della Prima Guerra Mondale ed al dopo. Avevamo parlato dei marginalisti…, ma si affacciano due nuovi fenomeni: la nascita dell'imperialismo e la nascita del capitale finanziario, che avranno un lungo futuro.

La nascita dell'imperialismo: siccome i mercati devono espandersi, non basta programmare quello interno, ma bisogna crearne di nuovi; questa è la motivazione economica per cui dalla fine dell'800 agli inizi del '900 ogni nazione cerca di farsi le proprie colonie: mercati protetti in cui le proprie merci possono andare in funzione espansiva e da dove possono importare materie prime a basso costo e forza-lavoro a basso costo.

La nascita del capitale finanziario: le banche, diventando importante avere dei finanziamenti per costruire un'azienda, divengono decisive.

Il tentativo marginalista di controllare i mercati ha un successo parziale: infatti le crisi non spariscono, diventano differenti, cambiano di natura, sono meno dirompenti, soprattutto non sono concomitanti in ogni paese e nello stesso momento; fino ad arrivare però ad una crisi che squassa il mondo capitalistico: quella del 1929. Dopo un periodo di produzione senza freni, ma soprattutto dopo un periodo i cui tutti pensano che basta investire per guadagnare, investire in azioni portando al trionfo il capitale finanziario (tutti comprano azioni, i prezzi di listino lievitano indipendentemente dal loro valore reale: uno compra le azione dell'azienda tale perché sa che le rivenderà a più, indipendentemente dal fatto che l'azienda tale produca o meno, poiché il mercato gira così veloce, la borsa di Wall Street gira così veloce determinando un ciclo continuo: è il periodo degli anni '20 in cui tutto sembra andar bene). Ma si scopre che i mercati non tirano come dovrebbero, alcune aziende cominciano a chiudere: questo crea il panico, chi ha azioni cerca di venderle provocando una vendita massiccia con crollo della Borsa: in 2 giorni il 70% dei capitali americani andò distrutto con ripercussioni in tutto il mondo. Questo dimostra che il metodo che il capitalismo aveva adottato fino ad allora per controllare i mercati non è sufficiente. Ma, come sempre, il capitalismo trova una teoria di riserva. Si tratta del keynesianesimo, da Keynes. I prodromi di questa teoria stanno in un pensatore italiano che è morto da poco: Sraffa. Un suo articolo del 1920, ripreso negli anni '40-'50, è stato alla base della riflessione di Keynes, il quale all'inizio non era un economista, ma un logico-matematico che in seguito si dedicò all'economia. In Keynes si distrugge il concetto di valore. Come anche in Sraffa, non è più importante il valore delle merci: il capitalista deve comprare tanto di questo e di quest'altro, ma a quanto deve vendere la merce perché ci guadagni? In questo costo ci sta tutto: il costo della materia prima, il costo della macchina, il costo del lavoro; ma il costo della macchina come lo paga? Con la materia prima e con il lavoro, creando delle connessioni si può costruire un sistema di equazioni che dia una soluzione per i tassi da applicare al fine di ottenere un profitto. Tutto è considerato un costo di produzione, misurato rispetto ad un prezzo di vendita che garantisce il profitto. Col sistema di Sraffa si possono calcolare i prezzi ed il profitto senza il valore, considerando cioè la merce-lavoro come un costo di produzione. Questo non vuol dire che gli operai non vengono espropriati, poiché l'operaio produce dei beni che gestisce un altro indipendentemente dal fatto che ci sia plusvalore estratto, resta che l'operaio produce ed altri ne ottengono benefici. Questo sistema regge: partendo dalla dissoluzione del concetto di valore e dal profitto come variante dei costi di produzione, come un'aggiunta al costo di produzione, Keynes si chiede: la crisi perché avviene? Avviene perché nel momento in cui l'azienda tale chiude, l'azionista vende le azioni, un altro non vende più e si va verso la crisi generalizzata. Cosa si deve fare? Si deve intervenire! Se si lascia tutto al libero scambio, succede il caos; il sistema diviene ingovernabile! Governare il sistema significa immettere nell'economia dei regolatori. Come si fa ad immettere dei regolatori? Nel momento in cui si accenna la crisi, lo Stato interviene e produce lavoro. Cosa vuol dire produrre lavoro? Vuol dire che lo Stato assume lavoratori, i quali avendo uno stipendio consumano e consumando sorreggono il mercato. Quindi, facendo fare lavori anche utili -a maggior ragione se lo Stato fa opere pubbliche e cose utili (ad esempio il grande sviluppo della rete stradale negli USA negli anni '30)- lo Stato garantisce le retribuzioni, sorregge il mercato e si può riavviare il ciclo. Allora, lo Stato è il sistema di regolazione dell'economia. Come la regola? Investendo: investendo di più quando c'è crisi ed utilizzando il salario non più come un semplice costo di produzione, ma vedendo il salariato come un possibile consumatore. Il salario diviene così volano dell'economia. Il salario non è più quella cosa che bisogna comprimere comunque perché si distrugge una parte del profitto, ma si può incentivarla, perché così facendo si incentivano i consumi; il profitto aumenta non perché è aumentata l'estrazione di plusvalore, ma perché si produce tanto di più quanto basta per avere profitto. E' il modello fordista. Ford cosa fa: fabbrica il modello T, che è la macchina che non va più solo ai grandi ricchi, ma può cominciare ad investire un grosso pubblico. E' la prima produzione di automobili di massa. Intanto si dà agli operai un salario che permetta di acquistare e, quindi, si può produrre un modello che si può vendere non a mille persone ma ad un milione di persone. Se anche su un modello T si guadagna meno, sul totale si guadagna molto di più. Questo comporta 2 cose: l'integrazione del salario nell'economia capitalista come momento decisivo; l'integrazione dello Stato come momento di supporto all'economia quando è in crisi, ma anche quando non è in crisi come elemento di supporto continuo all'economia. E' ciò che si chiama il welfare state. Se lo Stato produce servizi ed assume -ad esempio- delle infermiere, dà un servizio ai lavoratori, crea un salario indiretto, crea le condizioni di benessere, amplia il mercato e nello stesso tempo dà un salario alle infermiere che divengono a loro volta dei consumatori. Il welfare rientra in questo grosso progetto dell'economia capitalista. Il benessere che ne deriva per tutti è visto come una possibilità di ampliamento enorme del mercato, creando anche posti di lavoro nella pubblica amministrazione, che da quel momento non è più semplicemente l'apparato repressivo dello Stato e l'apparato burocratico del padrone, ma diventa erogatore di servizi e col tempo imprenditore. Per far questo occorre una pianificazione economica: occorre che lo Stato abbia gli strumenti per una pianificazione economica: una banca (nascono le banche centrali), più capitali (aumenta il prelievo fiscale) e soprattutto disponga della facoltà di fare leggi (non più liberismo e lassaiz-faire, ma controllo e regole in economia). Gli Stati che rispondono a questa esigenza sono di natura diversa tra loro. Da una parte ci sono gli USA, dove questo parte dalla metà degli anni '30 con la presidenza Roosevelt, che basa sul credo keynesiano il proprio successo e il sistema liberal-democratico; dall'altra ci sono gli Stati fascisti come l'Italia e la Germania che applicano l'intervento statale in economia; c'è l'URSS ugualmente. La pianificazione li riguarda tutti. L'Italia diventa un laboratorio in questo scenario. Infatti nel 1936 nasce l'IRI (Istituto per la Ricostruzione Italiana) che ancora esiste: nasce perché ci sono delle aziende in crisi, lo Stato le deve comprare perché il mercato rischia di crollare e va supportato, ma in realtà comprando queste aziende e ristrutturandole, lo Stato diventa imprenditore, comincia ad acquisire aziende non del tutto decotte e quando esce dalla guerra, l'IRI è già una struttura forte, molto forte, e comincia ad essere studiata. I laburisti ed i socialdemocratici di tutto il mondo cominciano a studiare il modello italiano dello Stato imprenditore, nato sotto il fascismo, come modello efficiente, diventando il verbo dei laburisti in Inghilterra che fondano, quando vanno al potere, un organismo analogo all'IRI, e dei socialdemocratici in Germania; lo Stato non più come solo polizia e regolatore del mercato e come supporto del capitalismo, ma addirittura imprenditore.

In Italia, chi produce le nazionalizzazioni è la sinistra socialista (Lombardi), mentre ora l'ENEL la si vuole privatizzare; ciò aiuta a capire come le cose non hanno uno sbocco univoco ma possono cambiare nel tempo. 

A questo punto la critica degli anarchici allo Stato diventa pregnante. Gli anarchici sostenevano che struttura e sovrastruttura stanno nei rapporti che diceva Marx, ma non basta: c'era l'azione della struttura sulla sovrastruttura, ma c'era anche il percorso inverso, altrimenti non si capisce come mai i capitalisti incidessero sulla sovrastruttura se questa non servisse a nulla. Se ne ricava il bisogno di abbattere insieme ai rapporti sociali capitalistici anche le sovrastrutture in quanto rigeneratrici di tali rapporti. Diventando lo Stato struttura -in quanto imprenditore- e non rimanendo più solo sovrastruttura, la lotta contro lo Stato diventa parte della lotta anticapitalista. Non è che gli anarchici sono prima antistatalisti e poi anticapitalisti, sono antistatalisti perché sono anticapitalisti! Prima di tutto è la differenza economico-sociale che va abbattuta, ma sappiamo benissimo che abbattere quella non basta, per cui occorre abbattere lo Stato, perché abbattere il capitalismo non basta. Non a caso in America c'è una corrente -sedicente anarchica- che si chiama anarcocapitalismo ed ha radici storiche lontanissime, nascendo da un certo Tucker (individualista anarchico della fine dell'800) che sostiene la guerra di tutti contro tutti e il diritto di ognuno ad arricchirsi. Questa corrente in America sostiene che lo Stato Federale vada distrutto! Bisogna lasciare la libertà agli individui di sopraffare gli altri, sostanzialmente. Sono le teorie della destra repubblicana e che hanno trovato ospitalità recentemente su A-Rivista.

Abolire lo Stato senza abolire il capitalismo non serve a nulla, perché si rischia una società ancora più violenta: è chiaro che le due cose vanno abolite insieme, partendo dal fatto che lo Stato è una sovrastruttura ed è parte della struttura recentemente, ma sta sopra quelli che sono i rapporti sociali economici capitalistici.

Oggi, per gli anarchici, l'abolizione dello Stato diventa importante ed è fondamentale insieme all'abolizione del capitalismo; tuttavia gli anarchici non si curano delle istituzioni. Si ritiene a torto che le istituzioni facciano parte del cielo della politica e non sono importanti, mentre occorre guardare alla struttura, invece i comunisti -che dovrebbero considerare lo Stato pura sovrastruttura- partecipano alle elezioni, fanno lotta nelle istituzioni e si curano molto di più del dovuto dei rapporti istituzionali. Da una parte gli anarchici hanno sempre sostenuto che la struttura e la sovrastruttura interagiscono, per cui occorre anche vedere quali sono i mutamenti istituzionali al fine di capire. Maastricht è un accordo economico, ma è anche un accordo politico, perché se si va a leggere il Trattato, ci si rende conto che sono 2 le istituzioni fondamentali create: la banca comune e l'esercito comune. L'unione degli eserciti rappresenta la parte politica dell'accordo economico: l'esercito è sovrastruttura, non fa mica parte dei rapporti sociali capitalistici; serve a mantenere questi rapporti! Dentro il ragionamento economico liberista di Maastricht, c'è anche un discorso istituzionale, che vuol modellare i parlamenti in un certo modo, modellare le aree geografiche in un certo modo, tutto in funzione di una struttura economica fondamentale. Interessarsi di queste cose vuol dire capire come la struttura economica si evolva e determini la struttura politica e come la struttura politica si evolva a sua volta in funzione di come deve essere la struttura economica. 

Il passaggio in Italia dal proporzionale al maggioritario fa parte di un processo complessivo e non è irrilevante, mentre ci sono anarchici che dicono che proporzionale o maggioritario è la stessa cosa perché tanto rimane il capitalismo e perdono lo spessore del rapporto tra struttura e sovrastruttura; e ci sono i marxisti che dovrebbero avere una visione puramente sovrastrutturale dello Stato e che invece agiscono a livello istituzionale. Nella storia ci sono delle strane inversioni tra teoria e politica.

Il processo keynesiano porta alla rinascita del capitalismo, il quale -entrato in crisi violenta alla fine degli anni '20- impiega un decennio a ricostruirsi con successo, grazie anche alla 2^ Guerra Mondiale. Questa guerra rappresenta un enorme momento di distruzione di merci, ma allo stesso tempo un enorme momento di produzione a carico degli Stati che sovvenzionano la guerra ed è praticamente il volano che riesce a mettere in ciclo l'economia, ed il capitalismo ne esce fortissimo alla fine degli anni '40 ed inizia un ciclo lungo almeno un trentennio, con un assetto molto preciso che è quello del welfare, quello dell'intervento statale: è un modello keynesiano -non diciamo puro poiché nessuna teoria ha mai avuto applicazioni pure. 

Saverio Craparo