L'impero russo tra crisi e ristrutturazione

 

La crisi dell'impero russo

Da alcuni anni la crisi dei paesi satelliti dell'URSS in Europa occupa le pagine di tutti i giornali, dai quali si riversa sui lettori un fiume di propaganda anticomunista di una intensità che non ha eguali rispetto al passato. D'altra parte bisogna riconoscere che quel che sta avvenendo può essere utilizzato per screditare qualsiasi tipo di comunismo e offre l'occasione, da lungo tempo agognata, di liquidare per sempre ogni opposizione al capitalismo. Tuttavia ci si guarda bene dal dire che c'è e c'è sempre stato chi ha detto che da sempre i sistemi che oggi crollano hanno avuto ben poco di comunista.

Ma al di là delle ripercussioni - certo importantissime - di questa propaganda sul piano ideologico, la crisi di questi regimi introduce in Europa una situazione di instabilità che merita attente riflessioni proprio da parte di chi, come noi, ha a cuore lo sviluppo della lotta di classe e i problemi della pace.

Nell'analizzare la nuova situazione, noi comunisti anarchici abbiamo le carte più che in regola per aver incessantemente criticato - e da sempre - il "socialismo reale" di questi paesi, a cominciare dalla soluzione leninista data al problema della fase di transizione al socialismo. Oggi le nostre critiche - che tanti compagni comunisti anarchici hanno pagato con il sangue in Russia, durante la rivoluzione e dopo, nella guerra civile spagnola, in Bulgaria, in Germania, in Italia e in tutti i paesi in cui l'anarchismo è stato presente nella lotta di classe - trovano la conferma della storia. Si tratta di una ben magra consolazione perché non vi è dubbio che oggi riprendiamo la lotta in una situazione di maggiore difficoltà per il discredito gettato sull'idea stessa di comunismo, per la sfiducia seminata nei popoli, per la falsa coscienza che pervade oggi le masse spinte dall'identificazione fra quel "comunismo realizzato" ora in liquidazione e il comunismo anarchico per il quale le chiamiamo a battersi e a lottare. Ci vorrà forse una generazione perché quanto è avvenuto possa essere analizzato con obiettività, comprendendo le cause di quanto è successo e la necessità di riprendere la lotta per il comunismo.

Ma gli avvenimenti di questi mesi offrono anche un altro importante insegnamento: niente è immobile ed immutabile e tutto può cambiare in un breve spazio di tempo solo che vi siano alla base motivazioni di carattere strutturale e il sostegno della lotta dei popoli. E' nelle fasi di crisi dell'accumulazione che si innesca la trasformazione dei rapporti sociali e produttivi e oggi ne stiamo vivendo una di notevole intensità caratterizzata, oltre che dalla crisi dell'impero sovietico, certo appariscente, da quella altrettanto profonda, ma per il momento in parte sommersa, dell'impero americano. E' in corso una battaglia senza esclusione di colpi che vede emergere il Giappone e l'Europa Occidentale alla conquista di sempre nuove quote di mercato e oggi il baricentro della storia del pianeta ruota di nuovo, dopo molti anni, intorno all'Europa.

In questa situazione è compito delle avanguardie sviluppare un lavoro di massa che renda coscienti strati sempre più ampi di lavoratori dei loro obiettivi strategici adeguando la strategia politica ai mutamenti della situazione, stimolando l'aggiornamento della teoria in rapporto all'evoluzione della struttura economica e all'innovazione tecnologica che, soprattutto nel campo della comunicazione del sapere e dell'informazione, ha sconvolto le vecchie regole. Strumento esenziale per far ciò è l'analisi che offre un primo concreto mezzo per operare. Le annotazioni che seguono vanno in questa direzione.

L'equilibrio di Yalta

Alla fine della seconda guerra mondiale la divisione dell'Europa in sfere di influenza saziava gli appetiti delle potenze belligeranti e al tempo stesso poneva fine ad una situazione di perenne instabilità nell'area centro-europea, L'impenetrabilità dei passi montani, la diversità fino all'incomunicabilità delle lingue, la differente religione, le diverse tradizioni che in altre parti del continente avevano costituito un elemento essenziale per la costruzione dell'identità nazionale e la definizione dei confini, nell'Europa centrale erano assenti o disegnavano incerti confini. Da qui quella indeterminatezza delle frontiere che aveva spinto Hitler a coltivare il sogno della Grande Germania e gli aveva permesso di trovare non pochi alleati tra fragili monarchie e piccoli tiranni che governavano i paesi dell'area balcanica e danubiana. Con Yalta, al controllo tedesco si sostituiva l'egemonia russa, accettata dagli americani, fortemente voluta dagli inglesi - e negli anni a venire dai francesi - in funzione antitedesca. Le frontiere diventavano sicure e certe, cementate dall'ideologia del comunismo stalinista, sostenute in alcuni casi dall'entusiasmo popolare. Le ragioni di questo consenso, che certo non vi fu ovunque, ma fu vasto e profondo in una prima fase, vanno cercate nell'esistenza in moti di questi paesi di forti e radicati partiti e sindacati di sinistra di cui Stalin aveva asservito i quadri dirigenti in anni di dittatura cominformista, per quanto riguarda quelle marxiste (significativo ad esempio il massacro dei quadri e della direzione del partito comunista polacco). Delle altre formazioni politiche Stalin aveva provveduto a far eliminare i quadri dirigenti mano a mano che avanzava l'armata rossa (valga per tutti ricordare la liquidazione del movimento comunista anarchico bulgaro, volutamente ignorata in ogni ricostruzione storica).

La storia del ruolo del COMINFORM nell'Europa orientale e la persecuzione dell'opposizione di sinistra in questi paesi va interamente riscritta se si vogliono capire le ragioni di un iniziale consenso popolare, solo in parte spiegabile con la lotta antinazista e la liberazione portata dall'armata rossa, e comprendere il perché della progressiva caduta del consenso popolare che non fu tuttavia indolore.

E' bene ricordare a chi lo ha dimenticato, i moti operai di Berlino del '53, che furono ispirati dal comunismo di sinistra, la rivoluzione ungherese e polacca del '56, che accanto alle spinte filo-occidentali largamente minoritarie vide consumarsi l'esperienza dei consigli operai, quella polacca del '70 che fu caratterizzata da un analogo orientamento. Si trattò - e questo ne fu il limite certo non voluto da coloro che le portarono avanti - di esperienze consumate nel sangue della repressione che, proprio per le modalità con le quali si svolse, dette spazio alle forze di destra, al punto che fra le masse si diffuse la sfiducia sulla possibilità di evoluzione del "comunismo" voluto da Mosca. I governi sedicenti comunisti furono visti sempre più come regimi di occupazione e vissero all'ombra del grande fratello quando non si trasformarono in dittature personali, come nel caso rumeno. Anzi proprio il carattere di regime impedì loro quella dialettica interna di evoluzione e sviluppo dei sistemi capace di permettere il necessario e fisiologico avvicendamento in seno alla classe dirigente, quella politica di ricambio dei quadri che avrebbe potuto assicurarne la sopravvivenza. Dove questa operazione fu tentata, come in Cecoslovacchia nel 1968, la rigidità del sistema costruito da Stalin impose la repressione armata di un partito comunista vitale e con un seguito di massa, minandone in modo irreversibile la credibilità. Le classi dirigenti dell'Europa orientale - sull'esempio di quella sovietica e in certi casi ancor più di essa - furono ben presto afflitte da problemi gerontologici poiché risultava estremamente difficile la selezione dei nuovi gruppi dirigenti.

La crisi polacca e la teoria del domino

Nel '78 un elemento nuovo si inserì nel panorama internazionale già sottoposto a forti sollecitazioni da una profonda fase di ristrutturazione dei rapporti produttivi e di divisione dei mercati sviluppatasi a livello mondiale.

La nomina a pontefice di un polacco spostò improvvisamente l'equilibrio delle forze. Va dato atto a quest'uomo, ispirato da una visione politica che fu quella di Gregorio VII, sostenuto dalla finanza cattolica mediante affari non sempre limpidi (vedi per tutti l'affare IOR-Calvi), di aver agito con spregiudicatezza su tutti i fronti e movendosi nel quadro di un disegno coerente di restaurazione del potere temporale della Chiesa cattolica, di aver saputo sostenere la componente di destra che nel suo paese conduceva la lotta contro il regime, non solo ai fini di un mutamento della situazione polacca ma quale leva per innescare una fase di profonda instabilità in tutta l'area dell'Europa centrale. Per far ciò è stato necessario costruire un sistema di alleanze che portasse la guerra fino a dentro l'impero russo. Per farlo egli ha gradualmente trasformato il dialogo ecumenico in alleanza politica in funzione antirussa; per raggiungere questo fine è giunto ad una intesa cordiale con ogni altra forza alla sola condizione che essa fosse anticomunista (vedi ad esempio lo scambio di messaggi con Khomeini caratterizzato dalla lotta comune di islamismo e cattolicesimo contro l'ateismo marxista).
Mentre i cattolici all'interno di Solidarnosc portavano avanti la battaglia in Polonia e in Lituania, la Chiesa luterano si è assunta il compito di fare punto di riferimento dell'opposizione nella Repubblica Democratica Tedesca, in Estonia e Lettonia e fra quella vasta minoranza di tedeschi sparsi nelle pianure danubiane. L'area dell'est europeo e dell'URSS veniva sottoposta ad un attacco concentrico.

Così quando la situazione polacca è precipitata, si sono verificati gli effetti della cosiddetta teoria del domino, avanzata da Kissinger ai tempi della guerra in Vietnam, secondo la quale crollato un paese dell'area tutti gli altri sarebbero inevitabilmente seguiti.

Del resto la situazione a livello strutturale ben si prestava a questa operazione. Esaminando i dati relativi all'andamento dell'economia nei paesi di quest'area è agevolmente verificabile la crisi dell'economia di piano, la crescita del costo dell'apparato necessario a sostenere il consenso in rapporto alle risorse disponibili. Nessun mutamento di carattere strutturale ha potuto verificarsi nei paesi dell'Europa dell'Est, ma un discorso a parete andrebbe fatto per la struttura produttiva della RDT e in parte per l'Ungheria. Il fallimento del COMECON e l'incapacità di realizzare una integrazione dei sistemi produttivi dei paesi associati è stata causata da scelte egemoniche e di rapina imposte dall'URSS nell'assegnazione dei settori di sviluppo e della divisione del lavoro, della struttura stessa dell'organismo che non prevedeva una effettiva integrazione economica e monetaria che avrebbe imposto comportamenti paritari all'URSS. Il ricorso al debito estero e a rapporti dei singoli paesi con il mercato internazionale è stato perciò inevitabile ed ha introdotto anche in quest'area la dittatura della Banca Mondiale e imposto le scelte inflative per rimborsare il debito estero contratto. Da qui le cause strutturali della crisi economica spaventosa che ha travolto l'Est europeo. Fin dal 1980 l'economia sovietica aveva cominciato a reagire alla crisi attraverso un'accentuazione dell'accentramento creando una serie di "gruppi" di imprese, di fatto degli oligopoli, interessati per le loro dimensioni e le loro caratteristiche strutturali ad un mutamento del sistema economico e all'introduzione del mercato.

Tuttavia le cause oggettive alle quali abbiamo fatto riferimento non bastano a spiegare la rapidità del mutamento, le cui ragioni vanno anche ricercate nel progetto strategico che guida le scelte di Gorbaciov e della classe politica che egli esprime, costituita dai nuovi manager, dai grandi dirigenti degli oligopoli di stato, molti dei quali provenienti dalle file dell'esercito, e che poggia sul consenso di una classe media costituita da intellettuali, lavoratori altamente professionalizzati e tecnici con un alto tasso di scolarità.

I problemi di Gorbaciov

Al momento del suo insediamento al potere Gorbaciov ha trovato una situazione già molto deteriorata.
Il pantano della guerra afgana divorava risorse accentuando i motivi di crisi nelle repubbliche di confine con una popolazione interna di religione e tradizione mussulmana. Il vento del grande Islam, alimentato da Khomeini, soffiava impetuoso fin dentro la Russia ad alimentare le aspettative di etnie in forte crescita demografica, desiderose di contare di più nel paese o comunque di assumere una propria autonomia rispetto alla classe dirigente costituita in prevalenza da russi bianchi. Da qui il rinascere di scontri secolari con altre etnie quali quella georgiana e armena, portatrici di forti tradizioni e animate da una radicata coscienza nazionale.

A questa situazione faceva da contraltare, ma con richieste simili, la domanda di autonomia proveniente dall'area baltica, caratterizzata da un notevole sviluppo economico. In essa infatti hanno sede molti di questi oligopoli di cui abbiamo parlato e certamente notevole è il livello di informatizzazione del sistema produttivo in quest'area. Ciò ha permesso una facilità di comunicazione (si pensi ad esempio che i militanti dei Fronti Nazionali comunicano utilizzando la rete di computer delle aziende in cui lavorano!), un interscambio che ha dato modo di superare i rigidi steccati e le incomunicabilità imposte dal piano, rendendo auspicabile e credibile la possibilità di inserimento di queste repubbliche, una volta resesi autonome, magari anche parzialmente da Mosca, nell'area produttiva dei paesi scandinavi nella quale esse sono oggettivamente integrabili. Le motivazioni nazionali, etniche, linguistiche, storiche, religiose hanno fatto il resto.

Questa instabilità si estendeva all'area slava rimettendo in discussione la collocazione di repubbliche che fanno parte dell'URSS, importanti sia sotto il profilo strategico che economico, quali l'Ucraina rispetto alla quale - tra l'altro - la rinata autonomia degli stati dell'Europa dell'Est esercita una innegabile attrazione. Da sempre i confini tra gli stati in queste regioni sono stati incerti. Hanno pesato e ritornano oggi a pesare le rivendicazione pantedesche verso l'area danubiana e baltica, le rivendicazioni polacche verso la Lituania, l'Ucraina, quelle ungheresi sulla Transilvania e quelle rumene sulla Moldavia. Altrettanto intense sono le reciproche rivendicazioni tra tutti i paesi dell'area, compresa la Jugoslavia che a sua volta rischia la disgregazione.

C'è insomma il rischio reale che le rivendicazioni dei paesi confinanti tendano ad ripristino della frontiere precedenti alla II Guerra Mondiale introducendo così nell'area una instabilità che si ripercuoterebbe negativamente su tutto il continente al punto da poter essere, come in passato, fonte di conflitto armato (gli scontri in quest'area hanno portato a ben due guerre mondiali!).

Le ragioni di una scelta strategica

Oggi l'Unione Sovietica è consapevole della propria crisi con una lucidità che raramente ha caratterizzato l'azione dei dirigenti di Mosca. E' altresì consapevole della crisi degli Stati Uniti e perciò ha proposto con successo una politica di disarmo e di disimpegno contrattato che ridimensiona notevolmente il ruolo delle due superpotenze globali. Restano così delle arre scoperte nelle quali sono possibili forti instabilità e non improbabili i tentativi di inserimento di altre potenze.
Al tempo stesso URSS e USA vedono con preoccupazione la crescita della potenza economica del Giappone e dell'Europa. E' convinzione comune che con il 1992 si sarebbe avviato in Europa un processo di integrazione molto solido che invano e da sempre gli USA hanno cercato di ostacolare mediante la politica dell'Inghilterra, la quale ha pagato questo suo tentativo con una integrazione di fatto irreversibile nella CEE e un ridimensionamento del suo ruolo di potenza sia militare che economica.

Per l'URSS si trattava dunque di scegliere se misurarsi in posizione antagonista con i paesi della comunità europea o costruire con questi una partnership sulla base di comuni interessi, la cosiddetta "casa comune europea". E' noto che l'URSS necessita di innovazioni tecnologiche che l'Europa possiede ampiamente; può offrire materie prime senza limiti, un mercato potenziale enorme, una forza lavoro qualificata capace di accogliere l'innovazione tecnologica senza problemi. E' infatti il paese che nel mondo ha il più alto numero di ingegneri, di matematici, di scienziati. Un matrimonio è dunque possibile a patto di eliminare le potenziali ragioni di un conflitto, di indebolire la compattezza politica dell'aggregazione europea riconducendola ad aspetti più marcatamente economici.

Per far ciò Gorbaciov prende atto della crisi dei paesi dell'Est europeo e cerca dialetticamente di governarla, anche perché altrimenti questi paesi sarebbero comunque persi. E allora ben venga la caduta del regime in Germania Est e che si parli pure di riunificazione tedesca, così la Germania sarà meno disponibile all'integrazione politica europea e guarderà prioritariamente alla riunificazione che, oltre a permettere l'unità della nazione tedesca, ha il pregio di mettere insieme un mercato interno di 80 milioni di consumatori e di sommare le capacità produttive della quarta e della decima potenza economica mondiale. Quando le iniezioni di capitale tedesco occidentale avranno risanato e rilanciato l'economia dell'altra Germania, chi potrà contrastarne le spinte egemoniche soprattutto verso le popolazioni tedesche che risiedono al di fuori dei due stati. E quale sarà il residuo interesse della Germania per l'unità politica europea?

Ecco allora i primi contraccolpi positivi. La Polonia prosegue nel suo processo di reintroduzione del mercato, ma giura e rivendica fedeltà al Patto di Varsavia in difesa dei suoi confini. Altrettanto farà molto presto la Cecoslovacchia che certo non vuole ripetere l'avventura dei Sudati. Più libera l'Ungheria, ma vi sono anche qui popolazioni tedesche e poi una grande Germania preclude alla collaborazione con l'area austriaca e danubiana alla quale l'Ungheria punta come spazio vitale (vedi ad esempio il recente accordo politico-commerciale stipulato con Austria, Italia e Jugoslavia). Che dire poi delle repubbliche baltiche che presto dovranno ricordare di quante amorevoli attenzioni furono oggetto nel ventennio precedente alla seconda guerra mondiale da parte tedesca.

Allora meglio stimolare il cambiamento in Bulgaria prima che avvenga in modo spontaneo e aiutarlo in Romania costringendo la massoneria internazionale a scaricare Ceaucescu, ormai non più utile quale oppositore della politica sovietica nell'area dei paesi comunisti neanche agli occidentali. Inoltre meglio che il cambiamento avvenga prima che si possa creare in questo paese un ceto politico di opposizione e che proprio nell'opposizione possa crescere la classe politica di ricambio a quella attuale, come è avvenuto in Polonia e Cecoslovacchia.

Se questo è - e lo è - il progetto politico complessivo gorbacioviano, è marginale guardare se questo o quel dirigente del passato regime era un ladro - forse che i governanti democristiani o socialisti del nostro paese lo sono meno - o collezionava film pornografici e ville, oppure se il tal generale è o era amico dei russi, o ancora se il nuovo dirigente ha studiato un certo periodo a Mosca. Sarebbe come dedurre dalla comune frequentazione di college inglesi o di università americane una congiura politica nei paesi occidentali, poiché è scontato che chi voleva accedere a studi superiori nei paesi dell'Est doveva e non poteva che recarsi a Mosca. E' dunque al progetto politico complessivo che occorre rivolgere la nostra attenzione.

Ad Est si ristruttura

Oggi l'URSS offre ai paesi della CEE il mercato sovietico interno, costituito da 250 milioni di potenziali consumatori ai quali vanno aggiunti i 100 milioni dei paesi dell'Est europeo. Ma perché gli investitori e i mercati siano sicuri, c'è bisogno della stabilità politica dell'area centro-europea che solo la riconferma del ruolo egemonico dell'URSS può garantire. Una prima significativa conferma della validità di questa affermazione viene dalle richieste occidentali di intervento in Romania e dal ruolo svolto dall'URSS in quel paese per rendere possibile la caduta di Ceaucescu e avviare la ristrutturazione che lo riporti nell'ambito di un'area politicamente omogenea. L'URSS ottiene dunque un primo risultato che è quello di veder riconosciuto dagli avversari si sempre il suo ruolo rispetto ali paesi dell'Est europeo e, quel che è più importante, acquisisce la possibilità di dare in futuro sostegno strutturale al suo ruolo egemonico nell'area.

Ma perché la ristrutturazione avviata abbia concrete possibilità di successo, occorre correlare l'economia dell'URSS e quella dei paesi dell'Est europeo con l'economia occidentale e per farlo Gorbaciov non può che porre fine all'anomalia costituita da quel che rimane della Russia post-rivoluzionaria. Perciò egli ha messo definitivamente in liquidazione la "terza via" leninista e l'esperienza russa ritorna nell'alveo della socialdemocrazia dalla quale in realtà non si era mai troppo allontanata.

Mentre in politica si sostiene il ritorno del parlamentarismo e dello stato di diritto, i grandi oligopoli, cresciuti sotto l'ombrello del GOSPLAN, importano non solo tecnologia ma anche sistemi di organizzazione aziendale e del lavoro al fine di rendere competitivi sul mercato i costi di produzione sovietici. Significativi accordi in tal senso sono stati presi anche in occasione del viaggio di Gorbaciov in Italia e riguardano tutti i settori, dall'industria di base alle infrastrutture. Accanto a questi gruppi che costituiscono e costituiranno anche in futuro la struttura portante dell'economia dell'URSS, si tenta di far crescere l'iniziativa privata con il compito di sviluppare aziende di servizi, utilizzare sul mercato la ricerca tecnologica attraverso la produzione di beni di largo consumo. Questo dualismo di percorso caratterizza anche l'intervento in agricoltura, dove acanto agli investimenti su vaste aree condotti anche in collaborazione con multinazionali alimentari occidentali (vedi ad esempio l'accordo con la Ferruzzi-Montedison) si stimola la rinascita della media proprietà contadina e la formazione di cooperative.

Indubbiamente questa scelta costituisce una vittoria del modo di produzione capitalistico e segna un ripristino dell'organizzazione del lavoro e di valori che i proletari di tutto il mondo hanno sempre combattuto. Perciò nell'immediato, al grande sconcerto di chi aveva visto nell'URSS il paese del socialismo reale si somma l'oggettivo rafforzamento del controllo delle multinazionali su scala planetaria.

Tuttavia occorre esaminare attentamente i possibili scenari che a livello internazionale si profilano per effetto di queste scelte.

I paesi CEE si presentano senza alcun dubbio come i maggiori beneficiari di questa politica. La RFT, in particolare, è destinata a veder aumentato il suo PIL entro il 1995 a livello pari di quello francese e inglese. I suoi maggiori investimenti si dirigeranno certamente verso le infrastrutture e l'apparato produttivo della RDT, rafforzando i legami economici tra i due paesi, al punto da attuare, nei fatti, la riunificazione. I paesi occidentali in genere volgeranno la loro attenzione al risanamento dei conti con l'estero dei paesi dell'Est per farne dei consumatori affidabili. Nell'area del Pacifico e sullo scacchiere mondiale resterà spazio per lo scontro sempre più aspro tra USA e Giappone e non vi è dubbio che assisteremo ad una crescita del debito dei paesi poveri nei quali certamente si ridurrà il volume degli investimenti dei paesi dell'OCSE per effetto del dirottamento dei capitali verso l'Europa Centrale.

Il movimento operaio e i lavoratori dell'Europa occidentale potranno forse impostare lotte volte al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro in ragione della probabile costante crescita dell'economia, ma la loro azione a livello strategico non potrà che risentire della sfiducia che il fallimento, ormai provato, dell'esperienza leninista ha seminato. Non è anzi escluso che il capitalismo internazionale approfitti ancor più di quanto ha fatto fino ad oggi per stroncare ogni forma di opposizione organizzata. Gli stessi partiti socialdemocratici saranno spinti verso scelte di maggiore compatibilità con il sistema.

Il ruolo dei comunisti anarchici

Se per i militanti della lotta di classe è certamente importante capire cosa sta avvenendo, è certo ancor più importante mettere a punto una strategia sul che fare come comunisti anarchici. L'analisi prodotta, la sua discussione con i militanti della sinistra ci aiuta a fare chiarezza, a liquidare miti bolscevichi e tardo-leninisti residui. Vanno poste le basi per un grande confronto e dibattito ideologico per recuperare ad un progetto organizzativo che abbia alla base una comune analisi della realtà quei compagni che fino ad oggi hanno subito il mito del leninismo, e sono francamente tanti.
Bisogna continuare a sviluppare negli organismi di massa e fra i lavoratori sul posto di lavoro la nostra azione, sforzandoci di dare ad essa una dimensione e una portata strategica, elaborando concrete line politiche alternative, dimostrando così l'attualità e la percorribilità dell'alternativa politica da noi proposta.

E' necessario sviluppare l'analisi teorica aggiornando le nostre elaborazioni soprattutto in relazione alla gestione della società futura e alla "fase di transizione", all'organizzazione economica e produttiva. Abbiamo appreso dalla storia che non vi è possibilità di cambiamento se non si dà soluzione ai bisogni. La storia insegna infatti che proprio quando la crisi è più acuta e la soluzione dei problemi incerta, si crea lo spazio per la reazione di inserirsi ed imporsi.

Occorre sviluppare una vasta azione di sostegno ai compagni che operano nei paesi dell'Est Europa per aiutarli a ricostruire quella memoria storica cancellata da tanti anni di falsificazioni e di riscrittura della storia operata dalla controrivoluzione leninista. Da parte nostra dobbiamo intensificare l'impegno nella lotta di classe sforzandoci di dare un respiro strategico alla nostra azione di opposizione al capitalismo e alle multinazionali nella prospettiva di poter saldare le lotte dei compagni dell'Est e dell'Ovest con quelle di coloro che nel terzo mondo e ovunque si battono per una società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
 

Segreteria Nazionale
Federazione dei Comunisti Anarchici

gennaio 1990