FORZA O CRISI DELL'IMPERO USA?

 

Partiamo dalla guerra, ma non parliamo di guerra. La forza militare USA ha colpito ancora: oggi in Iraq, domani in Siria, Iran, chissà. Una domanda sorge spontanea: questa esplosione di violenza bellica, in definitiva, manifesta una reale forza politico/economica, o è espressione di debolezza? Domanda cruciale, con cui per un lungo futuro dovremo ancora fare i conti, per verificare le dimensioni e la portata causale della situazione che essa implica. In effetti gli USA, come complesso statuale/economico, non stanno messi bene. Nessun dubbio che siano ancora dominanti in questa fase storica non più "bipolare", ma è pur vero che in buona parte lucrano di una specie di rendita di posizione. Naturalmente, ferma restando la loro forza militare.

Il momento è brutto per tutti nel mondo del capitale globale: dopo tre rivoluzioni industriali il sistema basato sulla proprietà privata, ormai completamente dispiegatosi (anche a livello [planetario), con la sua struttura di sfruttamento ha impoverito la maggior parte della popolazione della terra; e nello stesso "primo mondo" non garantisce più le condizioni economiche per la riproduzione della maggior parte della forza/lavoro comprata col salario.

Questo fenomeno non è attualmente transitorio (o "patologico", come si suole dire), ma strutturale. 

E comunque, anche nel mondo del capitalismo le cose non stanno per tutti allo stesso modo. L'impero USA (forza militare a parte) ha forse più problemi degli altri. La società USA ha profili costitutivi assolutamente terrificanti: un tasso di violenza sociale e individuale che non stupisce in un assetto fondato sul genocidio e sulla depredazione di chi (come si dice in Messico) è così "lontano da Dio e vicino agli USA"; una cultura della competizione esasperata ed esasperante; una precarietà socio/economica eretta a sistema; povertà e disoccupazione diffuse; macro e microcriminalità alle stelle; un sistema scolastico a terra (per molti Yankees Venezia è in Austria!); servizi sociali zero.

L'economia di questo paese ha un periodico bisogno di guerre per non crollare. La produzione industriale cala, il tasso di utilizzo degli impianti è ai livelli degli anni '80; l'andamento dei mercati azionari è noto per la sua capacità di bruciare ricchezze monetarie (spesso e volentieri fittizie); gli utili calano, i licenziamenti no, e molti investimenti sono in forse; le imprese sono indebitate (per un ammontare superiore allo stesso PIL USA); il deficit della bilancia commerciale è enorme; la concorrenza dell'Euro - che ha raggiunto e superato il dollaro - ne mette a rischio la funzione di valuta internazionale di riserva e la capacità di continuare a attrarre capitali finanziari speculativi dall'estero. In questo scenario Bin Laden (se davvero è stato lui a organizzare l'attacco alle Twin Towers) ha fatto un favore enorme al suo ex (?) socio Bush. Alla faccia della dogmatica neoliberista, gli USA sono passati a una politica keynesiana di guerra: incentivi diretti alle imprese, riduzioni massicce di tasse a vantaggio di capitali e imprese, riduzioni del tasso di interesse, massiccio aumento delle spese militari. Se innegabilmente ne sono rimasti colpiti il settore turistico e quelli delle linee aeree e delle assicurazioni, lo stesso non può dirsi per il settore petrolifero, per l'elettrico, per le costruzioni, per l'oro/rifugio e, certo, della difesa. Quest'ultimo ambito non si riduce affatto alla "mera" produzione degli armamenti in quanto tali, ma consiste in un ampio indotto e in una vasta sfera di industrie ad essi funzionali: fra queste, oltre all'elettrica, con i relativi centri/laboratori di studio e ricerca, l'industria aerospaziale, quella dei nuovi materiali e l'industria alimentare. Sena trascurare il fatto che le armi prodotte alimentano sia il mercato interno dato dal Pentagono, sia quello esterno agli USA.

Ben 85.000 imprese USA sono alimentate dalle spese militari, impiegano milioni e milioni di lavoratori e lucrano contatti per più di 100 miliardi di dollari! Variando l'entità delle cifre, una situazione simile è sempre stata ordinaria per l'economia statunitense, almeno e sicuramente dalla 2ª Guerra Mondiale, sol che si pensi che n la grande crisi degli anni '30 non fu superata con la politica di opere pubbliche di Roosevelt, ma grazie all'attacco giapponese a Pearl Harbour. E poi via seguitando, con interventi (e spese) in Cina, Corea, Guatemala, Indonesia, Cuba, Guatemala, Congo Perù, Vietnam, Laos, Cambogia, Grenada, Libano, Libia, Salvador, Panama, Iraq, Somalia, Bosnia, Sudan, Afghanistan, Serbia. Questa politica di "deficit spending" militare è stata anche definita "warfare", ed è l'antitesi del welfare. Da un lato aiuta il rilancio periodico dell'economia, ma dall'altro la droga, e sottrae risorse enormi alle spese sociali, a tutto profitto delle imprese e dei ceti più ricchi (consentendo riduzioni fiscali per essi, e stipendi più alti per managers e militari). Infine, tutto ciò favorisce gli oligopoli locali. Tuttavia, questa soluzione strutturale dei problemi economici USA non riesce a rendere rosea e tranquilla la situazione; tanto più se si considera l'enorme mercato europeo, con la sua valuta, non controllato da Washington.

Gli USA sono e restano un gigante vulnerabile, e lo si vedrebbe appieno se effettivamente, come continuano a minacciare esponenti dell'amministrazione Bush, si adottassero misure di ritorsione contro Francia e Germania. Il deficit commerciale USA è di circa 500 miliardi di dollari, ed il mantenimento del livello di vita medio richiede una spesa di 1 miliardo e 300.000 dollari al giorno. E' inoltre agli inizi il processo di ritiro dei capitali esteri investiti nel centro dell'impero (Saddam Hussein aveva convertito in Euro le sue riserve in dollari, e anche questo ha segnato il suo destino). Se si considera che uno dei cardini della politica economica USA è stato il tenere buone le due maggiori economie esportatrici mondiali (Giappone e Germania) e che provvedimenti contro Parigi e Berlino investirebbero tutta l'area dell'Euro, si ha già un primo elemento di riflessione. Inoltre, l'eventuale messa in discussione delle basi USA in Germania avrebbe gravi conseguenze innanzi tutto sul sistema logistico USA, non essendo (almeno immediatamente) rimpiazzabili dai sudditi filoamericani dell'Est ex sovietico. Una maggiore capacità finanziaria spetta alla Germania, grazie ai suoi surplus commerciali, e non degli USA, definiti da taluno un "mendicante finanziario".

Lo stesso potenziale dell'industria elettronica USA non va sopravvalutato, atteso che - a parte il quasi monopolio nel settore dei PC - Europa (e Giappone) hanno un'obiettiva superiorità nell'informatica della robottistica industriale, in quella aeronautica, etc. Per non parlare della quantità degli impianti industriali informatizzati, che sono almeno 220.000 in Europa (di cui 89.000 in Germania) contro i 97.000 negli USA. Il mercato europeo, inoltre, ha più consistenza di quello statunitense. Vero è che anche l'Europa ha i suoi problemi economici, soprattutto in quanto grande mercato esportatore, in un momento di crisi della domanda globale su scala mondiale; aspetto, questo, che riguarda meno gli USA, per la loro debole produzione industriale.

Tuttavia, nella grande equazione della politica internazionale molte variabili sono ancora da definire, o pro Europa contro gli USA, o viceversa. Una di esse è data dagli eventuali sviluppi dell'unificazione europea, e quindi da una maggiore definizione dell'imperialismo europeo in termini più autonomi; un'altra verrebbe dal possibile sostanziarsi dell'asse Europa/Mosca ed eventualmente Cina; ed un'altra ancora dal successo o meno degli ulteriori stadi di espansione/controllo USA sulle fonti energetiche mondiali (asiatiche in primis). E' questo il vero punto cruciale che, potendo chiudere l'Europa in un assedio energetico, ne svuoterebbe le potenzialità di autonomia e l'assoggetterebbe anche economicamente agli USA.

Pier Francesco Zarcone

Maggio 2003