L'equivoco globalizzazione


Nota: Questo testo è stato successivamente discusso, emendato e modificato per diventare tesi politica collettiva della FdCA, reperibile ora nel documento Strategia di Fondo: Capitalismo internazionale e Strategia di Fondo: Imperialismo USA.


 

1. Il movimento

"Forse siamo degli inguaribili ottimisti ad intravedere una luce, lontana sul fondo". Così scrivevamo nel maggio 1997 sulla copertina di uno dei tanti numero 0 di Alternativa Libertaria. Ora sembra che dopo due anni questa luce, che con molta fantasia riuscivamo a vedere, si sia materializzata nel movimento nato a Seattle e giunto, per ora, fino a Genova. La dimensione che esso ha assunto e le prospettive, anche contraddittorie, che lascia intravedere impongono una riflessione approfondita, che io provo ad iniziare.

1.1. Storia

Per quanto il movimento no global, come viene chiamato, abbia ufficialmente meno di due anni, si può affermare che in esso sono confluiti filoni di tensione sociale sommersi o striscianti per tutti gli anni novanta (movimenti ecologici, più politicamente anticapitalistici, più semplicemente etici, sindacali, di difesa delle culture locali, etc.). Tutti questi filoni tra loro anche molto distanti hanno individuato il nemico comune, l'ostacolo principe al dispiegarsi delle proprie strategie, nella globalizzazione e focalizzato il simbolo di essa nei periodici incontri dei grandi della terra (privilegiando i vertici dei capi di Stato delle sette maggiori potenze economiche, cui per motivi militari è stata aggregata la Russia, in sigla G8).
Se questo punto di attacco sia giusto o meno e in qual misura discuteremo in seguito. Sta di fatto che, da un punto di vista puramente comunicativo, la strategia si è dimostrata vincente, attirando da Seattle in poi, in modo irreversibile, l'attenzione dei media di comunicazione, mettendo in crisi l'organizzazione delle parate del potere e vanificandone lo sperato effetto di propaganda, e, soprattutto dal nostro punto di vista, attirando masse crescenti, di giovani in particolare, nelle piazze a protestare: rinasce il gusto di far politica e riaffiora il bisogno di capire cosa si cela sotto il velo della pubblicità. Non sembra poco in due anni.

1.2. Componenti

Come detto, il movimento si presenta estremamente composito. Il che non è di per sé un male, anzi! Tenterò una classificazione.

1.2.1. Gli etici

Sono coloro che partecipano al movimento spinti da motivazioni morali: ingiustizia sociale, povertà dei paesi terzi, emarginazione, emigrazione, di contro a ricchezze crescenti e ostentate. Ovviamente sfuggono loro del tutto le cause reali di questi problemi che pensano si possano risolvere con la buona volontà o appellandosi al senso umanitario della borghesia. In prima fila ci sono i cattolici di varie sfumature, accompagnati da adepti di altre religioni; ma ci sono anche molti giovani di estrazione di media e alta borghesia cui sfugge del tutto una coscienza politica, ma travagliati da imperativi categorici. Chiedono a gran voce la cancellazione del debito accumulato dai paesi terzi, come panacea all'ingiustizia internazionale, ma non sanno nulla delle politiche distruttive delle economia locali perseguite freddamente e metodicamente dal FMI, che si appoggia su borghesie indigene spesso parassitarie (ma sui paesi terzi e quarti sarà opportuno ritornare!). Sono molto distanti da noi, ma sono anche coloro che più facilmente possono essere illuminati sulla via di Damasco, anche se a volte queste illuminazioni accecano (una delle componenti storiche delle BR è di matrice cattolica)(1).

1.2.2. I riformisti

Una vasta area del movimento no global può essere così definita, anche se non rientra propriamente nel filone storico del riformismo vero e proprio. Sono coloro che ritengono che questo brutto meccanismo economico, tanto sperequante quanto irrazionale, possa essere modificato in meglio o per lo meno spuntato nei suoi aspetti meno presentabili. Il loro cavallo di battaglia è la Tobin tax, ovverosia l'aliquota minima da far gravare sulle transazioni finanziarie internazionali di misura tale da essere irrilevante ai fini della profittabilità degli affari, ma di volume complessivo sufficiente a risolvere i problemi delle economie terze. In genere sono anche coloro che fanno della non violenza un bene assoluto di valore strategico: in sostanza si dovrebbe scendere in piazza per ottenere dai poteri dominanti un briciolo di umanità in più. I teorici di questa area sono irrecuperabili, ma le loro opinioni affascinano gran parte dei prepolitici che si affacciano per la prima volta al proscenio dell'azione di massa e non hanno la minima idea del funzionamento reale storico del capitalismo.

1.2.3. I corporativi

È ben noto che a Seattle per il successo della contestazione è stato determinante l'apporto organizzativo, logistico e di presenza dell'Afl-Cio, sindacato statunitense che è ben difficile catalogare anche quale sindacato moderato (tra l'altro spesso i suoi vertici sono stati inquinati da presenze mafiose). Con il termine corporativo in questo contesto non intendo necessariamente dare una connotazione negativa a queste presenze, quali quella degli agricoltori francesi; mi interessa sottolineare che all'interno del movimento esistono settori che devono la propria partecipazione ai rischi che corrono i loro interessi materiali (non certo sempre da disprezzare) dall'avvento di un controllo verticalizzato in poche mani dell'economia internazionale. Resta, comunque, difficile ipotizzare un allargamento dei loro orizzonti di lotta.

1.2.4. Gli ecologisti

Sono attenti agli effetti (deforestazione, effetto serra, OMG., epidemie animali, etc.), ma non vedono le cause. Sono parte importante del movimento ed alcuni loro temi hanno presa ed anche valore generale, ma il loro approccio non è globale e si portano dietro tale retaggio di parzialità. La loro evoluzione a posizioni decisamente anticapitaliste è per lo meno dubbia, ma, poiché gli argomenti che portano sono quelli di più immediato impatto e attrazione, possono essere utili per una prima presa di contatto con visioni più politiche (evitando un catastrofismo spesso millenaristico).

1.2.5. I sindacalisti

Settori sindacali, che non hanno condiviso la ormai più che ventennale politica concertativa delle tre maggiori confederazioni, hanno salutato il movimento come una boccata di ossigeno. Da quando CGIL-CISL-UIL si sono fatte carico unilateralmente dei problemi della nazione, sacrificando gli interessi dei lavoratori, il sindacalismo alternativo (e anche il dissenso interno) ha conosciuto una crescita consistente, ma non tale da mettere in discussione il controllo complessivo riformista sulla classe. Il loro approccio è, come quello degli ecologisti, strettamente tematico: il lavoro. Pur con contraddizioni (ambiente-occupazione, ad esempio), il nodo, però, è centrale e va al cuore della situazione: la produzione. E questo non già perché, come è ben noto, io sono un inguaribile vetero-marxista, ma perché, come cercherò di spiegare meglio in seguito, risiede proprio lì l'essenza del problema per il capitale sedicente globalizzato.

1.2.6. I politici

Dai più consistenti (PRC) ai più microscopici (FdCA), tutti i movimenti politici di sinistra (ci pensano anche i DS, che di sinistra certo non sono più da lungo tempo, se mai lo sono stati!) si sono tuffati nel movimento, visto a ragione come occasione unica di crescita, dopo anni di stagnazione. Si assiste anche al ritorno in grande stile di Autonomia Operaia (Tute Bianche), anche se le recenti posizioni del vecchio guru sulla globalizzazione sono più che discutibili (2). Sono tutti in concorrenza e tentano di convogliare il tutto sulle proprie posizioni: non c'è ovviamente nulla da aspettarsi da questo settore.

1.2.7. I radicalizzatori

"Occorre elevare il livello dello scontro", si diceva negli anni settanta. E fu così che rapidamente abortì il movimento del 1977, lasciando in retaggio non una crescita di dibattito e presa di coscienza sempre più ampia come il 1968, ma il ripiegamento sul privato e una stagione di rifiuto della politica da parte delle nuove generazioni. Non interessa sapere se dentro coloro che ricercano lo scontro con la polizia ci siano agenti provocatori, fascisti o ultrà degli stadi; ci sono comunque quelli che credono che sfasciare vetrine e macchine in sosta sia l'unico modo (e il più di sinistra) di estrinsecare il proprio credo rivoluzionario. È vero che non sono loro a determinare l'intervento violento delle forze dell'ordine, anche perché questo si verificherebbe comunque e, d'altra parte, quando gli utili idioti non ci sono il potere se li fabbrica artificialmente (si pensi all'incendio del Reichstadt di Berlino del 1933). Resta il fatto che così si fornisce al Governo un alibi che dovrebbe altrimenti ricercare e si rischia di far implodere un movimento per altro molto promettente. Sono l'ala meno utile per il movimento (tant'è vero che è quella che attira su di sé l'interesse esclusivo dei media e dei discorsi degli addetti alla politica) e, come mi riprometto di dimostrare, rappresentano un concentrato di moralismo ed autoritarismo, qualità che vanno sempre bene a braccetto.

1.2.8. Tutti gli altri

Rappresentano il successo del movimento, il successo che atteggiamenti inutili, quali quelli sopra descritti, rischiano di vanificare. Da Seattle in poi si è constatato un numero crescente di partecipanti alle manifestazioni ed un crescere delle simpatie diffuse attorno alle stesse. Generalmente sono giovani che si accostano per la prima volta confusamente ad un'attività politica; ma la cosa più interessante è che questo li spinge, dopo anni di diffuso menefreghismo, ad interrogarsi, ad informarsi a cercare di capire politica ed economia, parole cadute nel più profondo discredito nelle ultime generazioni. È proprio questo che il potere teme e la reazione selvaggia sviluppatasi a Genova conteneva proprio il messaggio a tutti gli altri di non uscire di casa, di non avventurarsi nelle piazze a manifestare, di non fare domande e di non chiedersi come va il mondo; tutto ciò può essere pericoloso per la propria incolumità e conviene quindi delegare questi problemi ai professionisti che come tali sono delegati ad occuparsi del bene comune: in sostanza non disturbate il manovratore! Le loro idee sono ovviamente confuse (come potrebbero non esserlo), ma sono loro l'occasione da non mancare per il prossimo ventennio.

1.3. Filosofia

Vista la varietà nelle presenze risulta ovvio che il movimento non abbia un'impostazione ideologica ben definita. Sia detto senza alcun disprezzo (3), ciò che unisce il tutto è l'opposizione ai processi di globalizzazione; ma anche su questo argomento le idee sono disparate e confuse, auspice l'ambiguità di contenuti che la parola porta con sé. Questo costituisce un problema non solo in vista delle proposte di cambiamento, che inevitabilmente vanno emergendo, ma anche per quanto i riguarda i particolari processi di sviluppo economico che si intende contrastare. Diviene difficile infatti districarsi, se non si chiariscono i termini reali della questione nella rapida evoluzione in atto, individuando miti e realtà, passi reali e annunci mediatici, movimenti ineluttabili e strategie capitalistiche: tutto ciò fa oscillare le posizioni tra un fatalismo non rassegnato e un impegno senza obiettivi.

1.4. Contraddizioni

La confusione degli obiettivi è, senza ombra di dubbio, il tallone di Achille del movimento, su cui non a caso battono tutti coloro che lo criticano, anche da sponde moderatamente progressiste. Le varie anime propongono tutte le proprie risposte, diverse e spesso intimamente contraddittorie. Le domande incalzano. Come opporsi ad un'evoluzione ineluttabile (non è forse riprodurre una sterile rivolta luddista)? Non conviene governare il processo? Ciò che di negativo c'è nel diffondersi del libero mercato non porta con sé anche il bene della democrazia, come si vede dal permanere dei regimi autoritari o feudali, fuori dai flussi della cultura liberale moderna? Non conviene, quindi, prendere il buono del processo, cercando di limitare, se non eliminare, gli aspetti inaccettabili che lo accompagnano? Perché contestare i vertici internazionali, che sono proprio quelli che cercano di mettere un minimo d'ordine nel diffondersi, altrimenti selvaggio, del libero mercato? È vero che la ricchezza creata fino ad oggi ha teso a concentrarsi in poche mani, ma ora che le risorse si sono create perché non stimolare quelle tendenze che tendono ad un riequilibrio tra paesi terzi e mondo industrializzato, temi che erano nell'agenda di lavoro del G8 di Genova? Queste ed altre domande scavano all'interno del movimento, mettendone a nudo le contraddizioni derivanti da una mancata comprensione dei reali processi in atto, e tendono a separarne le aree meno politicizzate e di più recente impegno politico. È il fronte di attacco più subdolo, affidato agli intellettuali moderati, soprattutto quelli mai schierati, per storia e tradizione, con le destre reazionarie e conservatrici. A queste domande occorre dare risposta, prima di delineare una nostra strategia di lavoro e di intervento politico.

 

2. La globalizzazione tra mito e realtà

Per iniziare col piede giusto un'analisi dell'attuale struttura economica, della sua evoluzione e delle sue prospettive, occorre, prima di tutto, capire cosa s'intende per globalizzazione, visto che la parola in sé si presta ad equivoci forieri di profondi errori strategici (4). Poi è necessario chiarire quanto ciò che comunemente s'intende con essa sia attinente alla realtà.

2.1. Il capitale verso il mercato globale?

L'accezione più semplice, più comune ed anche universalmente accettata del termine globalizzazione è quella di un mercato senza barriere e senza confini. Così definita essa rappresenta una vecchia utopia liberista, cui sembra aver teso il capitale fin dal suo sorgere. In effetti fin dalle prime teorizzazioni economiche (Adam Smith) ogni restrizione alla libera circolazione delle merci è stata vista come un ostacolo allo sviluppo economico, sviluppo di per se stesso tendente ad un equilibrio stabile e foriero di un crescente benessere per tutti i cittadini. Teorie infrantesi sugli scogli delle crisi cicliche che hanno scosso periodicamente l'economia capitalistica nel corso del secolo decimonono. Ora si sono ripresentate nell'ultimo trentennio del Novecento, rivestite di un termine, globalizzazione appunto, tratto da un'immagine di Marshall McLuhan (villaggio globale), che porta con sé alcune connotazioni intrinsecamente positive. L'antica utopia del mercato come unica regolazione possibile (ed intrinsecamente giusta) dell'evoluzione economica, infatti, si ripresenta con due corollari apparentemente inoppugnabili. Il primo è che il processo ora ha una forza intrinseca non arginabile dovuta alla rapidità della circolazione delle informazioni, che porta dietro di sé una fluidità, prima impensabile, di movimento dei capitali: da questo assunto discende una pervasività assoluta del modello di produzione, con la scomparsa di nicchie protette e di politiche di area (5). Il secondo è che l'osmosi del modello economico porta con sé, necessariamente, la contaminazione democratica dei regimi assolutistici che il passato ha lasciato in eredità, ai paesi terzi in particolare, auspice l'arretratezza nello sviluppo e rappresenta, quindi, per essi un'innegabile evoluzione verso il pensiero liberale e, di conseguenza, una tappa progressiva (6). Ma è vero, occorre chiedersi prima di tutto, se la globalizzazione, così intesa, sia la direzione di marcia dell'economia mondiale?

2.2. L'accelerazione di fine secolo

È innegabile (e nessuno lo nega) che l'ultimo trentennio del ventesimo secolo abbia rappresentato una fase di accelerazione senza precedenti nell'internazionalizzazione del modello capitalistico occidentale. Altrettanto innegabile (e nessuno lo nega) è che il capitale ha avuto fin dalla sua origine una propensione cosmopolita, tendente cioè a invadere tutto lo spazio economico esistente. Tra queste due affermazioni occorre trovare una coerenza e stabilire, prima di tutto, se la fase che stiamo attraversando, o che forse in gran parte abbiamo attraversato, costituisca semplicemente un approfondimento di tendenze da sempre in atto e che oggi si muovono a velocità indiscutibilmente più elevate di un tempo, o se il salto quantitativo costituisca un mutamento qualitativo nel sistema di funzionamento dell'assetto capitalistico. In altri termini, se la cosiddetta globalizzazione rappresenti un cambiamento di natura della struttura capitalistica o se essa rappresenti una nuova rivoluzione industriale, tale da mutare alcuni aspetti, anche basilari, del modo di produzione, ma lasciandone invariato l'assetto. La risposta non è indifferente ai fini strategici e non riveste quindi soltanto una rilevanza teorica. Nel primo caso infatti occorre individuare le nuove regole di espropriazione (con le relative norme giuridiche che le inquadrano), i nuovi soggetti detentori del privilegio ed i nuovi soggetti rivoluzionari (7). Nel secondo caso, invece, basta riadeguare le analisi alla nuova situazione, prendendo atto dei mutamenti intercorsi: ciò significa constatare degli scostamenti e non sovvertire l'intero impianto. Per fornire la risposta è necessario entrare nel merito dei cambiamenti, veri e non presunti, che l'accelerazione di cui siamo testimoni ha comportato e comporta.

2.3. Comunicazione, cultura e produzione

Forse sarebbe più corretto titolare in ordine inverso, a meno che per comunicazione non si intenda l'accezione più ampia di collegamento tra luoghi diversi (8). Ma ormai è moneta corrente che la nuova fase dell'economia internazionale deve la propria peculiarità alle modalità radicalmente innovative (e veloci) di trasmettere le informazioni e questa merce immateriale è assurta ai vertici del pensiero economico moderno, tanto da giustificare l'enorme bolla speculativa che i cosiddetti titoli tecnologici hanno rappresentato per qualche anno nelle borse di tutto il mondo. Seguiamo il flusso per comprenderne la validità.

2.3.1. Entropia comunicativa

Il luogo comune ci dice che la rapidità con cui le informazioni viaggiano da un luogo ad un altro è divenuta altissima, tale da rendere ormai il pianeta un villaggio globale, e che questo mutamento comporta un sconvolgimento nelle abitudini, nella forma mentale e nei modelli produttivi che il genere umano ha fin qui conosciuto. In particolare, i capitali finanziari si trasferiscono da un impiego ad un altro (spesso in modo virtuale) al di fuori di ogni possibilità di controllo, determinando una totale finanziarizzazione dell'intera economia (9). C'è in tutto ciò una buona dose di verità; si trascura però il risvolto del problema così da dare un'immagine di ineluttabilità, irreversibilità ed, in ultima analisi, di parziale positività del processo, che può come tale essere modificato al meglio senza porne in discussione la sostanza. Di fatto, la crescita esponenziale della quantità di informazioni, moltiplicata per la sua velocità di spostamento, crea una portata comunicativa impressionante, ma degrada però il suo contenuto con due effetti. Il primo è che la quantità di informazione complessiva veicolata non cresce allo stesso ritmo della sua velocità di trasmissione, il che rende più diluito il brodo che viene servito e meno rintracciabile la polpa semantica in esso contenuta. Il secondo è che l'informazione circolante è meno verificata ed attendibile di un tempo (chi si interessa più di accertare le fonti?), cosicché sempre meno distinguibile il grano risulta dal loglio. Questi due effetti concorrono a creare movimenti non sempre virtuosi nella circolazione del capitale (virtuosi s'intende per chi deve trarne profitto), con notevole empasse nell'evoluzione del sistema economico. Basti pensare all'evoluzione delle borse internazionali negli ultimi quattro anni, al loro crescere inconsulto ed al loro crollo conseguente che travolge anche buoni investimenti (10).

2.3.2. Il pensiero liberale e la perdita del controllo democratico

Tutto ciò comporta, è vero, un mutamento di asse dell'intero assetto di pensiero su cui si è retta fino ad oggi la società dell'era della borghesia, auspice una consistente revisione dei sistemi formativi che investe tutti i paesi industrializzati. Ma non già, come intende la vulgata, nel senso di un cosmopolitismo culturale, dell'abbattimento delle barriere costituite da usi e costumi diversi, dell'estendersi degli assetti democratici ai paesi ancora dominati dalla tirannide feudale, in altri termini del dominio globale del pensiero liberale, laico, tollerante (11). La critica di sinistra al pensiero liberale è troppo ben nota per tornarci sopra nuovamente. Il problema è altro. Anche quelle garanzie formali, apparentemente asettiche e in realtà segnate dall'assetto classista della società, ma comunque parzialmente fruibili e che hanno reso possibile lo sviluppo culturale e organizzativo dell'antagonismo sociale, vengono rapidamente smantellate (12). Il nascere continuo di esclusivismi etnici e di barriere di costume dovrebbe essere già un segnale ben chiaro dell'illusione della prospettiva di liberazione culturale che la globalizzazione porterebbe con sé; e questo è una spia che va indagata se si vuole comprendere il vero senso di marcia del modello capitalistico oggi. È, però, il nesso profondo che si pretende esserci tra la rapidità e pervasività del sistema comunicativo, da un lato, e l'osmosi crescente del pensiero democratico occidentale, dall'altro, che è errato. È vero che il regime afgano ha proibito qualsiasi contatto della sua popolazione col mondo dei miscredenti (radio, tv, giornali internet, etc.), ma quello rappresenta per l'appunto un caso limite in cui qualsiasi contaminazione esterna non può che rappresentare un progresso (13). Se alle estreme periferie, dominate dall'assenza di messaggi, qualsiasi accesso alla comunicazione è un passo in avanti, nel corpo vasto del mondo sviluppato o in via di sviluppo quello che sta avvenendo rappresenta i caratteristici due passi indietro. I messaggi si fanno sempre più confusi e contraddittori, si perde il gusto della verifica e quindi del controllo dei contenuti resi impossibili dal ritmo incalzante del loro diffondersi (fermarsi a riflettere significa uscire dai flussi, perdere il contatto con l'attualità). Sull'onda del continuo adeguamento alla modernizzazione permanente i sistemi formativi tendono a fornire strumenti cognitivi atti a recepire i messaggi, ma non ad analizzarli criticamente ed in questo modo favoriscono nuove forme di subalternità culturale. L'impossibilità, l'incapacità di controllare l'universo informativo genera l'espropriazione delle volontà, schiave degli effetti annuncio, di cui non si verificano più gli esiti, delle rappresentazioni della realtà, di cui non si verifica più la corrispondenza ai fatti, dell'immagine dell'oggi, di cui non si confronta più la conseguenzialità col passato. È in gioco il controllo democratico sull'operato di chi decide, che forse non è mai esistito, ma che ora si allontana più che mai. Ne sono il riflesso istituzionale quei centri decisionali reali del potere che sfuggono anche formalmente non solo a qualsivoglia verifica democratica, ma persino ad ogni tentativo di conoscerne i modi reali di funzionamento (Fmi, Wto, Banche centrali, etc.).

2.3.3. Il modello produttivo necessita di aree a diverso sviluppo economico e civile

Si sostiene inoltre che il modello produttivo capitalistico si diffonde a macchia d'olio, conducendo ad un progressivo sviluppo produttivo di aree fino ad oggi escluse dai benefici del progresso economico. Basterebbe lasciare mano libera ai processi che la globalizzazione inevitabilmente innesca per vedere, in un futuro non lontano, emergere aree di sottosviluppo endemico dalla loro secolare arretratezza. Questa però è pura propaganda, non corrispondente neppure alle teorie che fanno da supporto reale agli sviluppi dell'economia globale. Queste infatti fanno perno su di uno sviluppo programmaticamente non uniforme, in cui aree a forte intensità di attività produttiva si affiancano ad aree arretrate ed a basso tenore di attività. Queste ultime possono essere aree mai toccate dal sistema produttivo capitalistico o aree di antica industrializzazione, poi cadute in obsolescenza. La ricerca del profitto, infatti, dirige i capitali laddove le prospettive di investimento sono più promettenti, sia per ciò che concerne le condizioni fiscali, sia per quanto riguarda i costi del lavoro e la sua adattabilità alle mutevoli esigenze del capitale. In teoria, quindi, le aree attualmente più dinamiche sono destinate ad essere abbandonate per quelle più promettenti, e ciò inevitabilmente perché la prosecuzione nel tempo di una fase di sviluppo economico tende a creare condizioni di vita e di mercato del lavoro che risultano a lungo andare meno favorevoli di quelle di aree meno sviluppate. L'applicazione di questi principi teorici incontra ostacoli che verranno analizzati più sotto, ma resta il fatto che tale impianto produttivo porta in sé una contraddizione ineliminabile. Si crea infatti una divaricazione tra aree di consumo ed aree di produzione, che non può reggere nel tempo.

2.4. Lo sviluppo per aree

"La strategia della zebra", così K. Ohmae (14) ha battezzato lo sviluppo per aree che sezionano o attraversano i confini dei singoli Stati-nazione. La scelta delle aree risponde solo a criteri di efficienza dell'investimento capitalistico e ne discende inevitabilmente la loro possibile intercambiabilità. Ma le conseguenze sono che, come detto, se si sceglie un'area per i vantaggi che essa presenta dal punto di vista del costo del lavoro (anche se questo scambio non è poi così semplice ed universale come si tende a far credere), si producono due effetti indesiderati. Il primo è che si perdono quote di reddito nell'area abbandonata ad alto livello salariale, così che essa smette di contribuire, o diminuisce il proprio contributo, al mercato complessivo; il reddito tende ad essere surrogato da nuovi lavori (servizi, nuove tecnologie, etc.) ma il bilancio resta negativo, in particolare quando l'economia non è in esuberante espansione, come succede in questo momento. Il secondo è che l'area dove si spostano le produzioni, essendo a basso regime salariale, contribuisce poco, almeno inizialmente, alla crescita degli sbocchi di mercato; in un secondo tempo le strutture dei lavoratori si fortificano, decresce la pressione sul mercato del lavoro, i salari tendono a crescere, facendo perdere i vantaggi iniziali. Resta comunque per lungo tempo una divaricazione tra aree di consumo (quelle di vecchia industrializzazione) e quelle di produzione (i nuovi insediamenti), con il lento deperimento delle prime e la conseguente contraddizione di una produzione che cresce per un mercato in generale flessione.

2.5. I comportamenti autopoieutici

Quella sopra descritta è solo una delle contraddizioni che sorgono nel perseguire la strategia della zebra. Ve n'è anche un'altra. Le aree che vengono abbandonate o vedono declinare la propria centralità nel sistema di produzione (postindustriali) tendono a mantenere il tenore di vita cui si sono abituate, il che le porta ad assumere comportamenti contrari alla filosofia della globalizzazione. Questo spiega, ad esempio, l'impegno di un sindacato poco proclive alla lotta di classe, come l'Afl-Cio, nel movimento di Seattle. In generale, come tutte le strutture dotate di una propria energia vitale, queste aree adottano ogni mezzo idoneo alla propria sussistenza e se diviene per loro, non più competitive, difficile esportare le proprie produzioni alzano barriere doganali atte ad impedire l'invasione delle merci a basso costo altrove prodotte. Il rischio reale, cioè, è quello di sostituire organismi complessi come gli stati con entità geograficamente, culturalmente e economicamente più omogenei, ma notevolmente più anguste e meno disposte alla comunicazione reciproca. Ne è un riflesso l'ondata xenofoba che è dilagata nel corso degli anni novanta in tutti i paesi industrializzati. Al di là delle retorica della libera circolazione delle persone, che vale solo per settori ristretti dell'umanità, e trascurando il fatto che eventi recenti rendono sempre meno proponibile questa impostazione teorica delle umane relazioni (15), sarà curioso osservare gli effetti che la recessione in arrivo avrà sui comportamenti. I padroncini del Nord-Est dell'Italia (una delle aree ad alto sviluppo individuate da Ohmae), attualmente oscillano tra il razzismo insito nel loro DNA leghista e il bisogno di manodopera che riescono a soddisfare con il contributo essenziale degli immigrati (spesso a nero); ma nel momento in cui l'offerta di lavoro sopravanzerà la richiesta, sia per la crisi imminente, sia perché l'area è già economicamente in declino, tant'è che nell'ultimo anno le regioni della zona non sono state ai vertici della classifica per incremento delle esportazioni (16), è facile prevedere quale fascia di lavoratori sarà la prima a pagare il conto della disfatta.

2.6. I limiti fisici alla comunicazione

I maggiori limiti ad un'idea di totale intercambiabilità delle aree geografiche ai fini produttivi sorgono però da considerazioni meramente strutturali. Non è un caso che le zone di sviluppo individuate nel saggio di Ohmae appartenessero tutte a parti del mondo già interessate a processi di profonda industrializzazione. In effetti, per impiantare delle attività produttive in un luogo non necessitano solo gli spazi; occorrono infrastrutture, vie di comunicazione, manodopera adeguata, impianti industriali già esistenti di livello tecnologico non eccessivamente inferiori, etc. (17). Le produzioni italiane che negli ultimi anni si sono spostate verso i paesi dell'est europeo, sono tutte di basso contenuto tecnologico; e occorre considerare che dei paesi che escono dall'economia di piano già godono di rilevanti vantaggi in termini di industrializzazione pregressa, preparazione di manodopera, vie di comunicazione. Vaste aree dell'Africa, ad esempio, a tutt'oggi non si prestano assolutamente ad insediamenti produttivi, se non altro per l'assoluta impossibilità di veicolare merci in ingresso ed in uscita ad un ritmo soddisfacente. E come per l'Africa il discorso vale per oltre la metà della superficie del globo.

2.7. Capitale finanziario e capitale di rischio

Dopo aver esaminato alcune delle contraddizioni insite nel modello propagandistico della globalizzazione, è giunto il momento di esaminarne i risvolti concreti. Uno di questi è l'inversione del ruolo dominante tra capitale finanziario e capitale di rischio. Fino ad un trentennio fa il capitale di rischio (ovverosia l'investimento nella produzione o nella distribuzione, in generale nelle merci) costituiva l'aspetto dominante della struttura capitalistica. Il capitale finanziario fungeva da supporto, senza quasi mai esercitare un controllo decisivo, all'attività imprenditoriale. L'eccezione era rappresentata dallo sviluppo dell'impresa moderna nella Germania, dove il capitale finanziario interagiva strettamente col mondo dell'investimento (18), il che rende ragione anche del diverso corso che i mutamenti in corso nell'economia internazionale stanno avendo in quel paese. La crisi del modello keynesiano di sviluppo, che ha avuto il suo punto di svolta nella dichiarazione di Nixon del 1971 di non convertibilità del dollaro in oro, ha avviato una fase del tutto nuova che ha visto la crescente autonomia del capitale finanziario ed il suo divenire preminente nel confronto col capitale di rischio. Questo ha, riducendo il problema all'essenziale, comportato un cambiamento profondo nella concezione stessa dell'acquisizione del profitto: se la nascita del capitalismo manageriale, tra la fine dell'ottocento e la metà del novecento si era basata sul prevalere del profitto a lunga scadenza, incentivando investimenti strutturali volti a fortificare le imprese, il prevalere del capitale finanziario ha portato in primo piano il profitto a breve, privilegiando manovre speculative e di pronto realizzo, con conseguente distruzione di un patrimonio consistenze di potenzialità produttive (19).

2.8. Concorrenza e oligopolio

Altro fattore incontestabile del corso recente dell'economia internazionale è il regime di esasperata concorrenza che l'ha caratterizzato. Quello che invece rientra nell'ambito della propaganda è che la concorrenza si rifletterebbe in un vantaggio per il consumatore a causa dell'inevitabile abbassamento dei prezzi delle merci che tenderebbero a livellarsi poco al di sopra dei prezzi di costo (o a volte addirittura al di sotto, per il dumping sleale che le aziende più robuste eserciterebbero al fine di eliminare dal mercato le concorrenti più deboli). La realtà è oggi, ma anche storicamente, ben altra. Le grosse aziende dominano il mercato, ma non abbassando i prezzi, bensì fissando un prezzo che mantenga un margine di profitto per le aziende meno concorrenziali e di modo che il loro profitto (a causa dell'economia maggiore che esse possono vantare sui costi di produzione) sia molto più consistente (20); vendono un po' di meno ma con un guadagno per unità di prodotto notevolmente superiore. Saranno poi le aziende più piccole e meno concorrenziali a pagare il prezzo di un eventuale crisi del mercato, che verrà così assorbita dall'azienda price leader senza dover neppure sottoutilizzare i propri impianti (non mantenere gli impianti ai livelli di produzione ottimali, per i quali sono stati progettati, è da un punto di vista economico una perdita, che è sempre bene, ove possibile, evitare). La concorrenza non si svolge, quindi, in campo aperto, ma tra poche grosse imprese (oligopolio), e non sul piano dei prezzi, ma su quello dell'efficienza nel plasmare il mercato e nel conquistarlo.

2.9. La verticalizzazione dell'economia

D'altra parte la concorrenza non si traduce neppure in nuove opportunità di intrapresa per nuovi soggetti e nell'apertura di spazi per entrare in qualità di produttore nel mercato mondiale. L'economia capitalistica ha sempre proceduto verso una concentrazione in poche mani del controllo delle produzione, una verticalizzazione crescente. Questa tendenza alla concentrazione conosce brusche accelerate nei periodi in cui la concorrenza si accentua. Non è un caso che la nascita delle prime multinazionali avvenga proprio nel territorio dove più sacrale è il rispetto per la libera concorrenza e dove leggi impediscono formalmente la formazioni di posizioni dominanti sul mercato: gli USA di fine Ottocento. Il sorgere di nuovi settori produttivi, spinti dall'innovazione tecnologica, conosce lo scatenarsi di una miriade di piccoli produttori che si lanciano nell'area inizialmente sguarnita, spesso grazie al possesso delle capacità tecniche: i pionieri sono in gran parte inventori che non commercializzano i propri brevetti, ma si mettono in proprio: è successo così per la chimica nella seconda metà dell'ottocento, nelle produzioni elettriche ed elettromeccaniche a cavallo tra Ottocento e Novecento, nell'elettronica negli anni settanta del Novecento e per l'informatica nel decennio successivo. Dopo la fase iniziale caotica tende a formarsi un piccolo gruppo di aziende dominanti che capitalizzano, cannibalizzandoli, gli sforzi dei pionieri che, per vari motivi, non reggono il passo. La fase neoliberista che stiamo attraversando ha comportato una nuova forte spinta alla verticalizzazione del controllo sull'economia internazionale (21). Ne fanno fede l'ondata di fusioni cui stiamo assistendo, anche se le più recenti (Compaq-HP) rispondono più che ad una strategia di conquista del mercato, ad un bisogno difensivo in una fase di contrazione dello stesso.

2.10. Le politiche sociali e del lavoro

È questo il fronte caldo della globalizzazione, quello dove le promesse vengono purtroppo mantenute e, come vedremo, il vero volto del mercato globale. La svolta da questo punto di vista è inequivocabile.

2.10.1. Il salario variabile dipendente

Quando nel 1977 l'allora Segretario Generale della CGIL Luciano Lama dichiarò che "il salario non è una variabile indipendente", fece un'affermazione banale dal punto di vista economico, ma dai profondi risvolti dal punto di vista politico. Fino ad allora, per un decennio, un imponente ciclo di lotte era riuscito a spostare quote consistenti di reddito dai profitti ai salari. Il messaggio di Lama era miele per le orecchie degli imprenditori: da quel momento i salari avrebbero smesso di crescere fuori dalla dinamica dei redditi, permettendo, invece, ai profitti di svilupparsi a tutto svantaggio dei proventi da lavoro dipendente. La variabile indipendente era divenuta il mercato. La fase di esasperata concorrenza verificatasi nei mercati internazionali nell'ultimo ventennio del Novecento ha agito per consentire margini di competitività sull'unico reddito al di fuori dell'orizzonte imprenditoriale: il salario. Comprimere il costo delle materie prime o dei semilavorati o delle infrastrutture significava far entrare in conflitto fonti di profitto per settori diversi d'impresa: ciò che guadagna in complesso un settore, perde l'altro. Comprimere la spesa per salari, diminuendo sia il salario per lavoratore sia il numero dei lavoratori impiegati, riversa i costi della competitività sulle spalle dei prestatori d'opera. È così che ormai da lungo tempo il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti è in costante calo (auspici in Italia gli accordi estivi dei primi anni Novanta).

2.10.2. Il lavoro flessibile

Come detto, quello che non si può risparmiare diminuendo il salario reale del lavoratore, lo si risparmia diminuendo il numero dei salariati. È così che la grande industria ha visto costantemente diminuire la manodopera impiegata e che in generale l'occupazione tende a diminuire. Questo calo non si spiega solo con il dilagare di nuove tecnologie produttive labour saving. Una parte dell'occupazione perduta ha solo assunto altre forme. Una prima forma è quella dell'apparente promozione sociale che ha riguardato principalmente i lavoratori ad alto livello di specializzazione e professionalità: il passaggio al lavoro autonomo di servizio alle aziende; per lo più si è trattato di esternalizzazione di interi reparti che possono aver anche prodotto vantaggi per gli addetti in determinati momenti di congiuntura favorevole, ma che finiscono per sgravare le aziende da costi fissi e difficilmente comprimibili nei momenti di flessione del mercato. Il secondo filone è quello del lavoro flessibile nel vero senso del termine: qui la fantasia padronale è infinita e va dal contratto a tempo determinato, al salario di ingresso senza garanzia di assunzione, al lavoro interinale fino alla forma più estrema del lavoro a chiamata (job on call), già attivo in alcuni paesi e che la Zanussi ha cercato recentemente di introdurre in Italia. C'è infine la riserva infinita del lavoro nero, alimentato continuamente dal flusso disperato dell'immigrazione (negli USA portoricani, messicani, etc. lavorano spesso a nero per una paga che oscilla tra i 5$ e i 7$ all'ora) (22).

2.10.3. La contrattazione individuale

Un sistema di relazioni industriali quale quello sopra prospettato non può incontrare ostacoli nella forza organizzata dei lavoratori e nello stesso tempo rompe la solidarietà tra di essi, frantumandone gli interessi, creando i presupposti per la distruzione di qualsiasi forma organizzativa degli sfruttati. Il punto di approdo di questa strategia è la fine del Contratto Collettivo Nazionale e la sua sostituzione con un contratto individuale tra datore di lavoro e prestatore d'opera, nel quale i rapporti di forza si prospettano molto più sbilanciati e non certo a favore del secondo. In questa prospettiva ogni forma di garanzia, di ammortizzatore sociale, di diritto del lavoro, di regole che vincolino entrambe le parti diviene obsoleta e gli USA ne sono un esempio perfetto. In Italia la via è stata aperta dai contratti d'area, ma subirà un'accelerazione violenta con la prospettiva federalista: da contratto nazionale a quello regionale e poi a scendere ai contratti locali o per gruppi di interessi (etnici, religiosi, di genere, di affinità, etc.) che si faranno una spietata concorrenza al ribasso tra di loro.

2.10.4. C'era una volta il Welfare

Lo smantellamento dello stato sociale è una delle politiche generalizzate nei paesi industrializzati. Si sostiene che gli alti costi dei servizi sono generatori di inflazione, il nemico principale dei monetaristi, e che i loro costi crescenti non sono compatibili alla garanzia di un futuro tranquillo per le nuove generazioni. D'altro lato, si continua a sostenere, la diminuzione dei costi dello stato sociale permette una riduzione delle tasse e con questo si può dare nuovo impulso all'economia, rendere più dinamico il sistema produttivo e la nuova ricchezza prodotta andrebbe a beneficio di tutti, compensando ampiamente la diminuzione delle garanzie sociali. La seconda questione è già stata analizzata e falsificata da Paul Krugman che ha spietatamente vivisezionato il programma elettorale di George W. Bush (23). Per quanto riguarda la prima, basta rilevare che le detestate spese statali non sono poi troppo invise quando fluiscono nelle tasche dei padroni sotto forma di sovvenzioni alla produzione o al commercio (24). Si aggiunga che le spese per la difesa e per l'ordine pubblico non tendono a diminuire e i recenti fatti forniscono un alibi per gli aumenti, e che di conseguenza anche i programmi di riduzione delle tasse hanno finora inciso poco ed interessato soprattutto i redditi più alti. Ne discende che la compressione del Welfare (di cui Italia resterà solo il Ministro) ha un risvolto eminentemente politico: rendere sempre più incerto il lavoratore sul proprio futuro e sulla propria sicurezza, da un lato gettandolo nelle braccia delle assicurazioni private e del capitale finanziario, dall'altro costringendolo ad inseguire un profitto immediato più alto che gli permetta di garantirsi da solo ciò che la società ora gli nega. Così ancora una volta la contrattazione sulla prestazione lavorativa si precarizza e si individualizza, divenendo più malleabile ai voleri dei datori di lavoro.

2.11. Riassumendo

Possiamo ora tirare le fila sulla teoria e la pratica della globalizzazione. Mercato senza frontiere, globale in cui merci, persone e cultura si muovono indisturbate senza ostacoli: tutto questo in teoria. Già qualcuno ha fatto notare che più che di globalizzazione si dovrebbe parlare di americanizzazione (25), in quanto i modelli pervasivi del sistema sono tutti di marca USA. In realtà, però, nemmeno quel minimo di positivo esistente in questa presunta omologazione universale, ovverosia i valori fondanti di una moderna democrazia (26), si diffondono. Lo sviluppo necessita di aree ad alta intensità di produzione e di aree di profonda depressione economica e tende ad allargare questa forbice; necessita altresì di aree di consumo ricche, distinte da quelle dove si produce, con la conseguenza che in quest'ultime i diritti e i redditi dei lavoratori devono essere ridotti al minimo; necessita di guadagni elevati e a breve scadenza, il che deprime l'importanza dell'investimento produttivo, aprendo la strada alle manovre speculative che inghiottono risorse senza crearne. Ma oltre alle contraddizioni intrinseche al modello ve ne sono di quelle legate alla sua applicazione. La concorrenza tende a privilegiare le grosse concentrazioni finanziarie, stimolando coloro che declinano nella competizione a difendere le posizioni acquisite; da qui le guerre commerciali che oppongono primo e secondo mondo (27) e che hanno lasciato sul terreno il terzo grosso antagonista: il Giappone. Le barriere che si alzano alla libera circolazione delle merci, e che gli organismi di regolazione internazionale quali il WTO tendono a smussare, assumono forme diverse da un tempo e si celano dietro le battaglie sulla qualità di prodotti; di fatto gli scandali quali la mucca pazza, i maiali alla diossina, l'afta epizootica non sono altro che i riflessi di queste battaglie, come lo sono le diffidenze in sede europea per gli OMG di marca statunitense (28). Anche la libera circolazione degli esseri umani cede di fronte all'imponenza dei flussi migratori non sempre compatibili con le esigenze economiche delle aree da essi interessate e la scusa del terrorismo internazionale ha fatte recentemente ventilare anche la possibilità del ripristino dei controlli alle frontiere dei vari paesi della UE. L'unica realtà veramente efficace della globalizzazione è il diffondersi di una schema di relazioni industriali che vede il lavoratore dipendente privo di qualsiasi diritto o tutela nei confronti del datore di lavoro e la progressiva scomparsa di qualsiasi garanzia o ammortizzatore sociale; in altri termini la progressiva precarizzazione di ogni rapporto di lavoro e la cessazione dei rapporti solidaristici che rendono coesa una società civile. Il portato del nuovo ordine economico si può riassumere in poche parole: sfruttamento senza regole.

 

3. La situazione economica

Per anni la propaganda di regime ci ha raccontato di un futuro di perenne progresso economico e di benessere via via crescente e sempre più generalizzato. Nonostante mai l'economia abbia mostrato i segni di una vivacità paragonabile a quella del secondo dopoguerra, per oltre due decenni il boom era sempre dietro l'angolo, ma al suo approssimarsi qualche causa imprevedibile, di natura extraeconomica, lo differiva di un po'. Ora l'economia mondiale è in piena recessione e la favole (quale quella della new economy) non incantano più e si torna a parlare di ricette keynesiane per ridare fiato alla congiuntura (29), quello stesso Keynes che un trentennio di paradigma monetarista sembrava aver relegato tra i fossili preistorici. Ma quali sono le cause di un fallimento annunciato e le prospettive?

3.1. La mancanza di strategia del capitale finanziario

Per due secoli il capitalismo ha lavorato su strategie di lungo periodo. In particolare la nascita del moderno management industriale, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, ha teso a privilegiare l'investimento sulla crescita produttiva sul profitto a breve che aveva caratterizzato il capitalismo familiare (30). La prospettiva di futuri guadagni basati su di un progressivo sviluppo produttivo non affascina per nulla il capitale finanziario, che sempre più tende a trasformarsi in una forma puramente speculativa. Spesso il giro vorticoso dei capitali non comporta neppure esborsi reali: azioni o titoli vengono comprati e rivenduti prima che la transazione venga regolata. Anche quando esso si rivolge ad obiettivi apparentemente produttivi, spesso l'investimento non prevede l'attivazione o la prosecuzione di operazioni imprenditoriali, ma intenti di semplice speculazione: dismissione di rami meno redditizi, vendita con guadagno di quelli più promettenti, dislocazione in altro luogo di produzioni supportate da sovvenzioni statali, trasformazione di aree dimesse in zone edificabili, chiusura di produzioni per diminuire la concorrenza sui mercati quando l'acquirente è un'impresa che opera nello stesso settore produttivo (31). È così che nelle aree di più vecchia e consolidata industrializzazione si parla di era post-industriale e che in esse cala la consistenza della base produttiva. A lungo andare questa miope visione crea una strozzatura economica la cui origine è tutta nella ricerca esasperata di un profitto il più immediato possibile.

3.2. Produzione senza mercato

Ma un collo di bottiglia ancora più consistente si profila sul versante del mercato. Se le aree di produzione si spostano laddove il costo del lavoro è più basso (con le restrizioni esaminate nel & 2.6.) ivi non si crea un mercato degno di rilievo, almeno nel periodo iniziale. Le aree di vecchia industrializzazione decadono ed al loro interno anche i servizi diminuiscono deprimendo la domanda; cosicché il mercato complessivo, seppure sostenuto da consumi al di sopra della produzione, dimagrisce. Le merci prodotte si confrontano, quindi, con un mercato complessivamente decrescente, il che spiega le forti guerre commerciali per il controllo delle aree di consumo, la necessità di accordi, la tendenza al protezionismo, i sussidi statali all'esportazione (32). La speranza futura sta nello sviluppo dell'immensa area costituita dalla Cina, ora supportata dai capitali di Hong Kong e dalla prospettiva della riacquisizione di Taiwan. Ma prima che le inesauribili potenzialità dell'area cinesi si dispieghino, dopo il fallimento del liberismo nell'ex Unione Sovietica, c'è tutto il tempo per una crisi verticale di sovrapproduzione, i cui i prodromi ora sono sotto gli occhi di tutti, anche se la crescita della Cina nel 2001 è prevista essere del 7,8% (33).

3.3. Il dogma della moneta forte

La fede nella moneta forte e stabile, quale garanzia di successo economico, di pretta marca monetarista, originata nelle università statunitensi comincia ad incontrare sempre meno favore in patria. In verità dai primi anni ottanta, all'apparire della cosiddetta reaganomics, ad oggi la bilancia commerciale degli Stati Uniti è divenuta negativa ed il conto commerciale con l'estero sempre più pesante. La solidità della moneta attirava capitali, spesso per manovre virtuali o speculative, ma ha reso sempre meno competitive le merci statunitensi provocando una progressiva deindustrializzazione del paese. Il surplus finanziario trovava sbocchi esteri ed il paese, divenuto consumatore e non produttore, si è alfine trovato in piena recessione. La moneta forte ha reso i paesi che hanno adottato questa impostazione, come la Gran Bretagna, giganti finanziari, ma nani economici.

3.4. Il nemico inflazione

L'inflazione è stata per un trentennio lo spauracchio di ogni agenzia economia internazionale ed il suo contenimento la stella polare della politica monetaria di tutte le banche centrali. L'origine teorica di questa fobia risiede nella fiducia sulla forza della moneta nazionale e sulla sua stabilità quale indicatore della solidità economica del paese, cui si è sopra accennato. In realtà la predominanza degli interessi del capitale finanziario sta alla radice di questa lotta all'inflazione, perché chi presta denaro ha tutto l'interesse a vederselo restituire meno svalutato possibile. Non a caso il periodo della gigantesca svalutazione del marco all'inizio degli anni Venti del Novecento in Germania, ha visto la perdita del tradizionale potere delle Grossbanken nei confronti delle aziende tedesche, che si affrancano e a volte finiscono per infeudarsi delle banche (la IG Farben, ad esempio acquisisce in quel periodo la Länderbank(34)). Le difficoltà attuali mostrate dalla congiuntura economica, che vedono una forte crisi del modello finanziario, inducono ad abbassare la guardia nei confronti del pericolo inflativo, cosicché le Banche Centrali continuano ad abbassare il tasso di sconto nella speranza di ridare fiato alla congiuntura (35). Ma i danni sono ormai irreversibili.

3.5. Privato è bello?

È esistita anche una corrente di ultraliberisti (figli d'arte: negli USA David Friedman figlio del Milton caposcuola del monetarismo; in Italia Alberta Martino figlia dell'attuale Ministro degli Affari Esteri Antonio) che predicavano la privatizzazione di qualsiasi servizio (carceri, polizia, esercito, strade, sanità, scuola, etc.) e la sua collocazione sul mercato con la scomparsa di qualsivoglia funzione statale. Queste teorie estreme non avuto attuazione completa: per esempio negli USA alcuni istituti di pena sono stati privatizzati, ma nessuno ha seriamente pensato a privatizzare i corpi di polizia. Certo è che, comunque, larghi settori dei servizi sono stati dismessi dalla mano pubblica e collocati sul mercato in tutti i paesi industrializzati. Le conseguenze si sono manifestate con tutta evidenza: aumento dei costi per lo Stato, aumento dei costi per gli utenti e deperimento dell'efficienza dei servizi, nonostante il lungo parlare attorno all'inefficienza della burocrazia pubblica. Gli esempi del ferrovie in Gran Bretagna, dell'energia elettrica in California, dei trasporti aerei negli USA ed, ultimo, quello della sicurezza degli aeroporti sempre negli USA (36), sono emblematici. Ma c'è una considerazione ancora più profonda da fare. Non solo non è conveniente neppure per il capitale privatizzare alcuni servizi (è bene, ad esempio, che la difesa degli interessi della proprietà, esercito e polizia, la paghi la collettività con le tasse), ma risulta poco conveniente anche la collocazione sul mercato di altri servizi: l'istruzione ad esempio, se non è efficiente, mina le possibilità di sviluppo del capitale, che si viene a trovare sprovvisto di manager e governanti in grado di farlo fruttare e progredire, come pure di lavoratori di un buon livello culturale per svolgere adeguatamente il proprio compito (questo problema sta divenendo acuto negli USA, dove la scuola fornisce livelli di preparazione così inefficiente, da non poter essere neppure adeguatamente recuperati nelle pur ottime, poche ed esclusive università private, e se la base da cui pescare non è ampia le possibilità di successo sono ridotte); anche la ricerca è bene che sia finanziata dalla mano pubblica, perché troppo dispendiosa sarebbe una ricerca veramente ad ampio spettro e non finalizzata a scopi strettamente specifici, tant'è che le multinazionali USA, pur possedendo di propri centri di ricerca, ha sempre attinto con dovizia alla ricerca dei centri universitari e che il successo della Nokia ha le sue radici in uno sforzo iniziale consistente dello Stato finlandese nella ricerca nel settore delle telecomunicazioni.

3.6. Dov'è la locomotiva?

Il problema maggiore, però, che presenta oggi la congiuntura internazionale è quello dell'assenza di un economia trainante. Lo è stata per mezzo secolo, un po' per forza intrinseca, un po' per la posizione di egemonia politica ed economica quella statunitense; ma ormai da due anni essa presenta problemi più che appariscenti: sono gli effetti di due decenni all'insegna dell'ideologia della moneta forte e della continua permanenza della bilancia commerciale in passivo (37). Lo forza nascente del Giappone si è infranta a metà degli anni Novanta (38). L'Unione Europea, candidata a succedere agli Stati Uniti quale paese che tira la ripresa, non sta meglio: dal 2000 la crescita del Pil ha cominciato a flettere velocemente ed è ormai scesa sotto l'1% ed in tutti i paesi sono allo studio manovre antirecessione (39). Le ultime stime Ocse rivedono le previsioni di crescita per l'intera area dal 2,7% all'1,2%, e precisamente 1,3% negli Usa, 1,5% in Europa e 1,2% in Italia (40).

3.7. I PVR (Paesi in Via di Recessione)

Se le prospettive non sono certo rosee per i paesi industrializzati, non vanno meglio per la cintura industrializzata che li supporta. Il Brasile, l'ottavo paese più industrializzato, nel 1998 è andato incontro ad una forte crisi, da cui non è ancora uscito, per motivi soprattutto legati alla produzione di energia, ma i cui effetti più negativi sono stati ammortizzati da una svalutazione del real di circa il 40%. La manovra ha messo in crisi l'alleanza di mercato dell'America del sur, il Mercosur, contagiando la crisi all'Argentina, che proseguendo nella politica di dollarizzazione iniziata un decennio fa, si è ritrovata del tutto non competitiva. La vittoria recente dei peronisti alla elezioni è la risposta popolare alla politica di risanamento avviata dal governo De la Rua, col superministro per l'economia, quel Domingo Cavallo autore della politica precedente di aggancio all'economia statunitense, fatta di compressione delle rendite più deboli e di mancati pagamenti degli stipendi dei dipendenti pubblici (41). Anche la Turchia, paese chiave dell'alleanza atlantica, in questo momento versa da tempo in cattivissime acque (42). Ma anche le cosiddette tigri asiatiche, i famosi Paesi in Via di Sviluppo (PVS) non si sono più ripresi dalla crisi di quasi un lustro fa, non hanno più il passo di marcia degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta e le prospettive di un mercato mondiale in recessione non è certo favorevole ai loro modelli economici di stampo prettamente esportativo (la bancarotta della Daewoo in Corea è un sintomo evidente di malessere congiunturale) (43). Solo la Cina sembra godere al momento di buone speranze, ma, nonostante il numero sterminato dei suoi abitanti, il suo livello globale di consumi è troppo ridotto per consentire da solo una chance per l'economia internazionale.

3.8. Il bluff dei titoli tecnologici

La mancata distribuzione dei dividendi ha reso improduttive le azioni. Per cui i guadagni borsistici si ottengono solo sulla compravendita dei titoli, sulla speculazione. È necessario quindi, perché la catena di sant'Antonio regga, attirare sempre nuovi capitali e quindi forzare i piccoli risparmiatori ad investire in titoli, invece che in altri settori, e costituire riserve di capitali disponibili quali quelli ingenti rappresentati dai fondi pensione negli Usa. La nascita degli indici dei titoli della new economy ha rappresentato un modo per attirare capitali su prospettive di crescita reale del tutto labili: alcuni titoli in pochi mesi dalla loro quotazione ha segnato crescita vertiginose, raggiungendo quotazioni totalmente scorrelate dalla consistenza dell'azienda. Questa bolla speculativa non poteva che esplodere ad un prima verifica dei risultati di impresa e così è stato. Ci sono attualmente titoli del Nasdaq che sono ad una quotazione pari all'1% di quella iniziale, cioè non valgono più assolutamente nulla (44).

3.9. Borsa über alles

Più in generale è l'intero settore delle borse che ha avuto nell'ultimo scorcio del Novecento un andamento ipertrofico, svincolato da quello dell'economia reale, la quale si è alla fine presa una colossale rivincita. Per anni invece la salute della congiuntura economica è stata misurata sul metro dei listini borsistici e non vi era operazione aziendale che potesse avere un futuro se non convalidata dal gradimento dei mercati azionari. Il mercato dei titoli diviene preminente a cavallo degli anni Settanta e Ottanta (45). È così che la proprietà di aziende già affermate può passare, tramite acquisizione azionaria, a società o individui che mai si sono occupati di affari nel settore specifico, con una crescente difficoltà a concepire piani strategici di sviluppo di lungo periodo: è così, ad esempio, che numerosi settori statunitense ad alta intensità di capitale perdono quote di mercato all'interno e all'estero a partire dagli anni Sessanta (46).

3.10. Torna lo Stato

Come detto (& 2.10 e nota 23), lo statalismo, il nemico del progresso nella vulgata neoliberista, non è poi così inviso agli imprenditori quando eroga fondi (e l'avvocato Agnelli ricorderà certo le generose contribuzioni ricevute per installare a Melfi uno stabilimento della Fiat). Si è anche detto (& 3.5) che le multinazionali non hanno interesse a privatizzare servizi, quali polizia ed esercito, che anzi è bene vengano pagati dalla fiscalità generale: per difendere gli interessi di pochi, gli altri pagano. Il fatto nuovo è che un'intera impostazione di politica economica sta cambiando sotto i nostri occhi, e non è l'effetto dell'attentato alle Twin Towers; vengono al pettine i nodi dello sviluppo economico. Già il Giappone, alcuni anni or sono, ha provato ad uscire dalla recessione riattivando politiche keynesiane di sostegno alla domanda con l'intervento dello Stato: il tentativo fu timido ed è fallito, come ci dice l'attuale congiuntura nipponica (47). Ora gli Stati Uniti, partiti da posizione marcatamente liberiste con la nuova Amministrazione Bush, hanno annunciato il più massiccio intervento economico dello Stato da trent'anni a questa parte: 100 miliardi di $ a sostegno della congiuntura declinante (48).

3.11. Le mani sul terzo mondo

Dopo anni di fiducia incondizionata sulla capacità del mercato di essere da solo il regolatore della congiuntura e, nel contempo, un agente di equiparazione sociale, negli ultimi tempi si cominciano a sentire accenti diversi. Nel giugno del 2001 i giovani industriali italiani, riuniti per il loro congresso annuale a Santa Margherita Ligure, hanno chiesto regole per il mercato, che non dovrebbe più essere lasciato a briglia totalmente sciolta, e un'attenzione crescente per le tragedie economiche dei paesi del terzo e del quarto mondo (49). Per quanto riguarda le ipotesi di controllo sulla libera evoluzione dei mercati è facile intravedere dietro di esse la preoccupazione crescente per un'evoluzione economica non più così rosea come in passato. Ma la cosa più preoccupante è l'attenzione dedicata ai paesi poveri da ceti sociali la cui filantropia è per lo meno dubbia. In realtà, l'occhio si allunga verso regioni attualmente escluse dai flussi dell'economia internazionale per farne aree di potenziale sviluppo per investimenti o per l'apertura di sbocchi di mercato: auspice il basso costo della manodopera e i bisogni emergenziali da coprire, ovviamente, con gli aiuti dei paesi ricchi, fonte di nuovi profitti (50).

3.12. Ma la situazione non ha sbocchi né facili né certi

Troppo a lungo politiche di contenimento delle spese, viste tout court come improduttive, e di minimizzazione dei costi, in modo miope considerate solo come limitazione dei profitti, hanno compresso i mercati dei paesi industrializzati e portato la congiuntura internazionale in una fase di crollo, le cui linee di fuoriuscita sono per ora poco probabili; le strategie abbozzate rispondono tutte a logiche improvvisate. Se il monetarismo ed il neoliberismo mostrano ora le loro intrinseche debolezze, e con essi la globalizzazione come l'abbiamo fino ad oggi conosciuta, non è detto che il futuro si configuri come una pura e semplice riproposizione delle politiche keynesiane. Sono certe forme di sostegno ai mercati asfittici (51) e barriere protettive contro la libera circolazione delle merci, ma sono per lo meno dubbie ipotesi di rilancio delle politiche di integrazione dei salari nella dinamica espansiva, come pure reintegrazione di spese sociali legate al Welfare degli anni Sessanta e Settanta. Queste ultime vorrebbero dire un nuovo protagonismo delle classi subalterne ed il segno caratterizzante tutte le innovazioni degli ultimi due decenni è stato lo scompaginamento da parte dei datori di lavoro dell'avversario di classe e la disarticolazione delle sue rappresentanze, per poter esercitare su di esso un dominio assoluto e incontrastato: su questo nelle ipotesi del padronato non ci sono ritorni indietro ed i diritti persi o messi in discussione andranno difesi o riottenuti al prezzo di dure lotte.

 

4. La risposta alle domande

Abbiamo ora tutti gli strumenti necessari per iniziare a fornire le risposte alle domande insidiose viste al & 1.4. e per abbozzare, di conseguenza, una strategia di intervento all'interno del movimento no global.

4.1. La globalizzazione non è ineluttabile

Da quanto sopra detto discende che la globalizzazione non è di per sé un'evoluzione necessaria della struttura economica internazionale, come vorrebbero Hardt e Negri. Già si sono avuti in passato fenomeni di integrazione delle economie dei vari paesi, anche più rapidi e profondi di quelli in corso, ma questi periodi sono terminati con conflitti armati e con la ricostituzione di barriere. È ovvio che il processo di sempre maggiore compenetrazione tra le aree geografiche ed economiche è progressivo e nel lungo periodo inarrestabile, ma questo non ha nulla a che vedere con la mistica del mercato globale che viene propagandata al momento. Anzi si può affermare che la fase che stiamo vivendo è quella di un forte competizione commerciale, tesa ad allargare le zone che le singole potenze economiche (Usa e Ue) controllano, e che questo aspro confronto è destinato ad intensificarsi con l'aggravarsi della crisi economica. Come visto, quello che tende a divenire pervasivo è un modello di relazioni economiche e sociali fortemente sperequante, sia tra gli individui di uno stesso paese che tra paesi ricchi e paesi poveri, un sistema che regala un diritto assoluto di comando sulla forza di lavoro ai capitalisti, a questo modello non solo è possibile, ma è necessario opporsi.

4.2. Il processo non è governabile

La cosiddetta globalizzazione non è, quindi, una progressiva, anche se rapida, compenetrazione di tutte le economie internazionali, ma la omologazione dei paesi ad un modello economico, fatto di finanziarizzazione e deregolazione dei rapporti sociali e produttivi. Anche se prevalesse il primo aspetto, la prospettiva riformista del suo controllo sarebbe futile: il libero mercato o è tale o non lo è; laddove, quindi si ponessero regole al mercato non si sarebbe più in presenza di globalizzazione, ma di un sistema socialmente controllato di interrelazione tra le economie. Il problema è che il libero mercato è una fola: competizione commerciale, controlli crescenti sui movimenti delle persone (auspice l'allarme terrorismo), blocco alla circolazione delle idee (auspice la guerra contro il "nemico" semitico), caratterizzano in realtà la situazione del momento, e hanno radice ben più profonde della contingenza seguita all'11 di settembre. Non resta che il secondo degli aspetti del fenomeno della globalizzazione. Qui non ci sono regolamentazioni che tengano, non c'è un meno peggio nel confronto selvaggio tra detentori dei mezzi di produzione e prestatori d'opera: il processo della perdita dei diritti, di potere e di reddito del proletariato non può essere edulcorato; può solo essere contrastato.

4.3. La globalizzazione non ha effetti positivi

Occorre anche sfatare il presunto effetto progressivo che la globalizzazione (continuiamo pure per semplicità ad adoperare questo termine improprio) avrebbe nel diffondere cultura e democrazia nelle aree che sono rimaste ai margini, o al di fuori, dello sviluppo economico. In primo luogo lo sviluppo delle nuove regole di relazioni industriali e sociali comporta una segmentazione anche nelle aree ad antico sviluppo: in queste si generano localismi, incomunicabilità tra culture diverse, ricerca delle identità di gruppo e di religione, rottura delle solidarietà e dell'aspirazione all'integrazione tra diversi; questo discende ovviamente dalla solitudine dell'individuo nell'affrontare i problemi del lavoro e dalla insicurezza sul futuro non più socialmente garantito. In secondo luogo le aree economicamente depresse tali rimangono ed anzi sono investite da nuove politiche di rapina quando detengano risorse di materie prime: non è un caso che i conflitti che hanno giornalmente accompagnato gli ultimi dieci anni si siano sviluppati tutti attorno a zone ricche di fonti energetiche o collocate sulle direttrice delle loro linee di comunicazione. Ciò fa giustizia della promessa di pace che un mondo unipolare ed uniformato su di un modello economico e culturale dovrebbe offrire. Ma ci dice anche che laddove gli interessi economici del nuovo imperialismo si appuntino, lì non si generino benessere e democrazia, quanto all'opposto regimi oppressivi basati su gruppi di potere, che unici si avvantaggiano della chance offerta dalla detenzione di risorse strategiche.

4.4. Il ruolo reale dei vertici internazionali

I periodici vertici dei capi di Stato delle maggiori potenze economiche, dei loro Ministri economici e di altri organismi sopranazionali non hanno lo scopo di controllare, mettere le briglie ad un mercato altrimenti libero di svilupparsi in maniera caotica, non devono porre regole da contrapporre ad une deregolazione selvaggia delle transazione internazionale ed al movimento dei capitali. Il loro scopo è quello di sancire tregue e punti di arrivo delle guerre commerciali in atto, operando spartizioni momentanee dei mercati. Soprattutto fissano le strategie complessive dell'evoluzione capitalistica, ritrovando gli accordi per intensificare sfruttamento e profitti. In questo senso l'obiettivo di contestazione prescelto dal movimento no global, oltre ad un'evidente valenza simbolica, possiede anche la certezza di un obiettivo concreto, anche se in assenza di questi vertici pubblicizzati, altri momenti di concertazione vengono con successo esperiti al di fuori di occhi o attenzioni indiscrete. Il Fmi, apparentemente asettico e defilato rispetto alle scelte politiche, è invece stato, nel passato, il centro di irradiazione delle politiche neoliberiste, costringendo all'interno della gabbia di ferro monetarista tutte le economie riluttanti, come, in particolare, molte di quelle del terzo mondo, con disastrosi effetti di lungo periodo.

4.5. Non è possibile aiutare i paesi poveri all'interno dell'attuale paradigma economico

Quanto detto al & 3.11. ci conferma che il sottosviluppo dei paesi terzi e quarti non si risolve all'interno dell'attuale paradigma economico, che anzi debbono gran parte dei loro attuali problemi alle politiche loro imposte dal Fmi. Quando imprenditori e vertici politici internazionali manifestano il proprio interesse per le aree depresse ed auspicano una maggiore attenzione ai problemi dei paesi poveri non sono spinti da un rigurgito di filantropia, ma pensano solo a nuove possibilità di sfruttamento produttivo, al controllo delle risorse di materie prime strategiche, che essi posseggono, ed all'apertura di nuovi mercati. Ne può essere un esempio lampante la vicenda dei farmaci che necessitano ai paesi africani in particolare; è stato deciso al vertice di Genova di creare un Fondo Internazionale di aiuti farmaceutici per l'emergenza sanitaria in corso: la Commissione che gestirà questo Fondo vede al suo interno una folta rappresentanza delle Case Farmaceutiche, che non rinunciando ad una sola briciola dei propri profitti vedranno affluire nelle proprie casse i soldi raccolti dai Governi dei paesi industrializzati per inviare i medicinali in Africa. Le tasse dei cittadini si tramutano in profitti per le multinazionali del farmaco.

4.6. A chi serve parlare di globalizzazione

La parola "globalizzazione" contiene, quindi, un equivoco che è necessario chiarire. Il processo reale, cui abbiamo assistito ad oggi e che ora scricchiola vistosamente, non è la creazione di u modello universale di relazioni sociali improntate alla democrazia, ma una fase di sviluppo del capitalismo che diviene più aggressivo contro l'avversario di classe e a volte cannibalizza se stesso. Il termine serve quindi a coprire una verità fatta di maggiore sfruttamento, precarizzazione dei rapporti industriali, espropriazione delle ricchezze di materie prime del terzo mondo: nulla di nuovo se non nell'intensità e soprattutto un passo indietro rispetto alla forza conquistata nei rapporti di scontro dal proletariato dei paesi industrializzati (il suo arretramento non avvantaggia certo il proletariato dei paesi terzi e quarti)-

 

5. Considerazioni sulla violenza

A me pare che il dibattito sull'uso della violenza sia male impostato, in particolare nelle aree più vicine al movimento anarchico. Si tende infatti a difendere, o a giustificare, il ricorso alla forza in quanto giusto se rapportato alla maggiore carica di prevaricazione esistente nei rapporti sociali delle economia capitalistiche; la violenza è giusta in quanto molto più violenta e crudele è la condotta delle classi possidenti e dei loro servizi armati contro il proletariato ed il sottoproletariato dell'interno dell'area industrializzata e soprattutto dell'area esterna, quella del mancato sviluppo: morti bianche sul lavoro, morti per fame, morti per conflitti legati al controllo delle materie prime, totale assenza di scrupoli per la salute del pianeta e dei suoi abitanti quando sia in gioco il profitto, etc. Queste sono ovviamente corrette, ma rispondo a considerazioni puramente etiche. Quello invece che occorre chiedersi è se la l'uso della violenza sia non tanto giusto, ma utile. Chi, come me, ha una certa età, ricorderà l'analogo dibattito nel 1977: sulla correttezza di una risposta adeguata alla violenza del sistema un intero movimento di massa si è sciolto come neve al sole in pochi mesi e coloro che predicavano la radicalizzazione dello scontro si sono ben presto ritrovati isolati nelle piazze ed incapaci di far crescere la protesta politica; anzi la loro azione ha vanificato la possibilità di crescita politica di un'intera generazione tra gli anni Ottanta e Novanta: Non è il caso di ripetere quell'errore. Già allora, quando pochi individui partecipavano alle manifestazioni armati di P38 (e già allora quanti infiltrati!) l'apparato di offesa era ridicolo a fronte delle armi dell'avversario. Che dire degli attuali black block armati di bastoni? È ovvio che la pochezza dei mezzi di difesa e di offesa può essere compensata solo dal numero ed invece tali azioni, fornendo alla polizia l'alibi per intervenire pesantemente (alibi che se non fornito si procurerebbe da sola) tendono a scoraggiare la partecipazione. La violenza non è auspicabile, ma diviene necessaria laddove chi detiene il privilegio non vi rinunci pacificamente, cosa che purtroppo non avviene mai. La sua triste necessità va quindi misurata non sulla sua eticità, ma sulla sua efficacia e questa si verifica solo quando essa è esercitata coscientemente dalle masse. Su questi due ultimi termini è proficuo concentrare l'attenzione.

5.1. L'io e le masse

La sostituzione del soggetto rivoluzionario alle masse è tipica della tradizione leninista e poco, checché se ne dica, ha da spartire con l'anarchismo. D'altronde un secolo e mezzo di storia dovrebbe aver sgombrato il campo dall'illusione che l'esempio di pochi catalizzi la volontà dei molti; l'effetto è sempre contrario. Ne consegue che l'azione violenta soddisfa il bisogno di coerenza dell'individuo e non risponde ad alcuna visione strategica: certo che un oscuro lavoro quotidiano di crescita politica del proletariato è molto più noioso dell'ebbrezza che un noto leader dell'autonomia diceva di provare quando si calava il passamontagna sul volto andando ad una manifestazione. Ma tant'è: il rivoluzionario si dice di aver fatto il proprio dovere di rivoltoso, di aver aggredito i centri del potere, di aver manifestato tutta la propria radicalità; ma non si interroga se questi suoi atti avvicinino o allontanino dalla meta. Il loro è puro moralismo atto a placare la propria coscienza, ma inutile per la lotta di classe nel suo svolgersi storico.

5.2. Il coinvolgimento e l'adesione

I comunisti anarchici hanno sempre distinto tra rivoluzione e rivolta. La seconda è pura manifestazione di malcontento senza un fine, senza una meta. Non c'è mai stato alcun disprezzo per essa, ma la vera rivoluzione sociale è opera di un proletariato cosciente dei propri diritti e del proprio ruolo storico. La rivolta, invece, è sempre stata abilmente sfruttata da altre classi o da altri ceti sociali (successivamente costituitisi in classe, con le proprie modalità specifiche di espropriazione del pluslavoro) ai propri fini di ascesa al potere. La rivolta è quindi utili ai fini leninisti, ma non ha quelli della creazione di una società di liberi ed uguali. Corollario di questa premessa è che un movimento deve crescere politicamente, con i suoi tempi di presa di coscienza, che posso essere accelerati dall'avanguardia politica,ma non stravolti; pena farlo abortire. Chi, allora, scende in piazza per elevare il livello dello scontro, non opera una scelta discutibile, ma legittima , di cui paga le conseguenze. Nel momento in cui coinvolge nella propria azione altri che sono convenuti con altri scopi, ignari delle scelte di alcuni che si trovano a subire, commette un'azione fortemente autoritaria. La violenza è un punto di arrivo dell'azione di massa, via via che essa diviene più consapevole, e non uno strumento di discriminazione tra avanguardie sedicenti coscienti e popolo bue. Coinvolgere gli altri in proprie scelte, da costoro né conosciute né condivise, non li aiuta a crescere, ma li spinge a desistere dall'azione appena iniziata.

6. Le prospettive

La guerra si è inserita potentemente tra le tematiche urgenti e fondamentali che il giovane movimento deve affrontare. Si aprono due possibilità. O l'impatto mediatico dell'attacco alla libertà e ai valori della società occidentale riuscirà a deviare verso una solidarietà culturale settori consistenti che fino ad ora si sono mossi contro la globalizzazione (saldiamoci tutti attorno alle istituzioni, anche se non ci piacciono, perché l'attacco punta a farci regredire al Medioevo). Oppure le vere ragioni del conflitto emergeranno, rendendolo un pezzo del mosaico della globalizzazione, la sua faccia peggiore (spinta al controllo totale delle fonti energetiche, verticalizzazione del comando strategico mondiale, tentativo di superare con le spese belliche improduttive la crisi di sistema delle economie neoliberiste, legittimazione sul fronte interno statunitense di una leadership debole ma referente di poteri economici molto forti, etc.). Sulla discriminante bellica si gioca il futuro del movimento antiglobal. Il successo della marcia di Assisi lascia ben sperare, ma le contraddizioni sono ancora molte: tra una condanna al terrorismo che lascia la porta aperta all'intervento militare quale passaggio doloroso ma necessario e una posizione di opposizione netta alla guerra; tra un pacifismo senza altri aggettivi che giudica la violenza un male in sé e un antimilitarismo che scava le cause del conflitto in atto e cerca di individuarne le conseguenze nell'assetto delle relazioni internazionali e nei rapporti sociali all'interno dei paesi in cui viviamo. Il movimento crescerà se, uscendo dalle pastoie della morale, diverrà un laboratorio politico per la lotta di classe nelle aree industrializzate, inducendo una costante presa di coscienza della posta reale in gioco.

7. Il nostro ruolo

Aiutare maieuticamente questo processo è, come sempre, il nostro compito. Occorre, quindi, che le nostre analisi, il nostro metodo di indagine, la nostra modalità di stare dentro le lotte divengano nel tempo patrimonio più largo possibile. È ovvio, pertanto, che vanno evitati dirigismi di ogni tipo. Ma deve essere altrettanto chiaro che non è utile fare le mosche cocchiere, sembrare troppo più scafati degli altri: come si diceva un tempo essere avanguardia non vuol dire stare troppo più avanti della coscienza media delle masse, perché in questo caso si diviene quasi impercettibili e, di conseguenza, inutili alla crescita della coscienza collettiva. Nello stesso tempo i documenti che verremo producendo devono essere contemporaneamente chiari e semplici, ma anche seri, scientificamente corretti, documentati (52).

Saverio Craparo
Uffio Studi della FdCA


Note:

1. Non certo così fu di Saulo di Tarso, che oculatamente adottò una filosofia nata in circoli marginali dell'esoterismo orientale, la innestò nel filone culturale dei gentili adattandola alla sofisticata tradizione ellenistica e rendendola così una potente arma di gestione sociale.
2. HARDT MICHAEL, ANTONIO NEGRI, Empire, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) - London, 2001(4).
3. Spesso l'argomentazione viene usata in modo dispregiativo, ""sanno dire solo no senza nulla proporre, dimenticando che occorre prima opporsi allo stato di cose esistenti per poterle cambiare.
4. HARDT e NEGRI, ad esempio, nel difendere lo slancio progressivo, a loro dire, della globalizzazione, distinguono tra il flusso globale di informazioni, cultura e capitali (globalizzazione) e il sistema di potere di oggi, regime specifico di relazioni globali (Impero). Cfr. HARDT MICHAEL, ANTONIO NEGRI, Empire, cit., pp. 45-46.
5. Una prima globalizzazione, legata all'evoluzione delle comunicazioni che subirono un'accelerazione percentualmente molto più alta dell'attuale (telegrafo, navi ad elica sommersa e spinte dal motore a vapore, etc), già si ebbe a cavallo tra Ottocento e Novecento e naufragò, per interne contraddizioni, con lo scoppio del primo conflitto mondiale, generando nuove barriere e protezionismi. Cfr. GIANNI TONIOLO, 1914: addio bella époque, in Il Sole 24 ore, Domenica, 14 ottobre 2001, p.1.
6. Ibidem, pp. 43-44, per una versione di sinistra dello stesso argomento, con analogia marxiana al carattere progressivo del capitalismo.
7. È ovvio che questa è la strada scelta dal HARDT e NEGRI, che sostituiscono borghesia e proletariato con "Impero" e "moltitudine".
8. Bakunin sosteneva che lo sviluppo economico del XIV e XV secolo si era centrato nelle aree di più facile accesso, ed in particolare quelle affacciate sul mare (cfr. MICHAIL BAKUNIN, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1972, p. 111). Chandler documenta che la seconda rivoluzione industriale prende le mosse dallo sviluppo delle comunicazioni e non solo perché il vertiginoso espandersi delle ferrovia a metà del 1800 creò una domanda inusitata di beni durevoli e capitali, ma soprattutto perché l'accorciamento delle distanze che ne è conseguito ha cambiato i mercati locali in mercati molto più ampi, sconvolgendo regole distributive ed abitudini di consumo, con conseguenze immediate sulla domanda e sulla produzione che ad essa fa fronte (ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 24-26).
9. "La finanziarizzazione dell'economia è stata, a un tempo, causa ed effetto del venire meno dei confini delle economie nazionali (gli scambi finanziari che avvengono quotidianamente tramite la moneta elettronica supera di sei volte le riserve di tutte le banche centrali dei paesi del G8) e determina un cambiamento significativo nel comportamento delle imprese e nei rapporti sociali, perché la logica del rapido guadagno, del profitto a breve, diventa criterio che presiede alle scelte di dislocazione del capitale finanziario rispetto alle diverse esigenze delle economie nazionali e territoriali." In Documenti congressuali del 14° Congresso CGIL, Diritti e lavoro in Italia e in Europa, Ediesse, Roma 2001, 2.3. p. 5.
10. Così già fu nel crollo delle cosiddette tigri asiatiche. Cfr. FABRIZIO GALIMBERTI, Giappone in crisi "umiliato" dall'Fmi, in Il sole 24 ore, 4 settembre 2001, p. 3.
11. Per HARDT e NEGRI l'assetto globale nascente (Impero) risulta progressivo anche nei confronti dei "crudeli regimi del potere moderno" e il sorgere dell'età postmoderna neoimperiale allarga le possibilità di liberazione. Cfr. HARDT MICHAEL, ANTONIO NEGRI, Empire, cit., pp. 43-44.
12. La lesione ai principi di trasparenza, tolleranza e garanzia delle regole, indotta dalla cosiddetta "guerra la terrorismo internazionale", è appena agli inizi ed in un prossimo futuro ne misureremo le disastrose conseguenze. D'altra parte è stato notato che il retrocedere della mano pubblica dal controllo dell'economia comporta un deciso aumento delle spese militari: cfr. ANGELO M. PETRONI, Stato liberista, Difesa al primo posto, in Il sole 24 ore, 31 ottobre 2001, p. 8.
13. Ovviamente non quella dei missili "intelligenti".
14. KENICHI OHMAE, La fine dello Stato-nazione, Baldini &Castoldi, Milano 1996.
15. Non sono solo gli eventi traumatici, quali l'attacco aereo al centro di Manhattan, che avranno l'effetto di stringere i controlli alla circolazione delle persone. La chiusura delle frontiere o la loro minore permeabilità, infatti, era già in atto sospinta dal dilagare di epidemie incontrollate.
16. Tra i primi sei mesi del 2001 ed i primi sei del 2000 le regioni italiane che più hanno incrementato l'export sono nell'ordine le seguenti: Marche 27,6%, Puglia 24,6%, Liguria 17,8%, Veneto 15,6%, Abruzzo 15,1%, Sicilia 14,1%, Lombardia 13,2%, Basilicata 11,9%, Friuli Venezia Giulia 11,4%. Il Sole 24 ore, 22 settembre 2001, p. 15. Nel momento in cui i mercati internazionali entrano in crisi sono ovviamente le aree che più hanno visto crescere il proprio peso nelle esportazioni (il Sud) quelle che per prime pagano lo scotto: infatti già si prevede che nel 2002 saranno le regioni meridionali a registrare la flessione più consistente (crescita dell' 1% contro l'1,3% del Centro-Nord, invece del 21,% del 2001 contro l'1,5% del Centro-Nord), con una caduta delle esportazioni del 19,5%; Il Sole 24 ore, 31 ottobre 2001, p. 10.
17. "In realtà la presunta possibilità del capitale di spostarsi rapidamente in qualunque parte del globo offra condizioni favorevoli agli investimenti, condizioni che nell'immagine giornalistica sono solo quelle relative al basso costo della manodopera, incontra nei fatti seri ostacoli. In primo luogo le produzioni ad alta tecnologia si possono sviluppare laddove il substrato della struttura produttiva è a livello tecnologico appena inferiore: non è in altri termini possibile impiantare un'impresa che produca macchine utensili computerizzate in una zona geografica in cui il livello produttivo a tecnologia più elevata sia quello della meccanica di precisione; vi si oppongono i problemi del reperimento della forza-lavoro qualificata e di gran parte dei componenti necessari, la cui veicolazione, nonostante la teoria della concorrenza per fasi di produzione, può risultare eccessivamente costosa a causa dell'ingombro. Tra l'altro non tutta la produzione riguarda le schede elettroniche, di facile trasposto e di produzione in gran parte a basso contenuto tecnologico (produzione e non progettazione). In secondo luogo per essere teatro di una produzione un'area geografica deve contare su adeguate infrastrutture quali: viabilità adeguata, apparati di sicurezza efficienti, formazione del personale adatta, stabilità sociale e politica assicurata, apparato amministrativo malleabile, ma non eccessivamente corrotto." etc. FEDERAZIONE DEI COMUNISTI ANARCHICI, Il Programma minimo dei Comunisti Anarchici, (atti del V° Congresso della Federazione dei Comunisti Anarchici), CP, Firenze 1997, p. 33.
18. Cfr. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., pp. 654-655.
19. Cfr. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., pp. 1013-1023.
20. Cfr. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., pp. 164-165.
21. Ad esempio, in Italia del 1990 al 2000 i primi cinque gruppi da soli sono passati dal 65,01% al 72,41% del totale dei ricavi complessivi dei maggiori 20 gruppi. I ricavi dei 20 maggiori gruppi sono saliti da 362.732 a 476.600 miliardi di lire (+31,39%), mentre la manodopera impiegata è scesa da 1.135.250 a 884.631 (-22.08%). Cfr. L'Espresso, a. XLVII, n. 34 del 23 agosto 2001, p. 136.
22. Il peso dell'economia irregolare e illegale è cresciuto in tutti i paesi industrializzati. Ecco alcune cifre relative al 1970 e al 2000: Italia dal 10,7% al 28,5%; Spagna del 10,3% al 24,0%; Germania dal 2,8% al 16,0%; Francia dal 3,9% al 15,5%; Regno Unito dal 2,0% al 13,3%; Stati Uniti dal 3,6% al 9,1%. (Il sole 24 ore, 8 settembre 2001, p. 7).
23. PAUL KRUGMAN, Meno tasse per tutti?, Garzanti, Milano 2001.
24. Nel triennio 1996/1998 la media annuale dei trasferimenti dei fondi statali al settore manifatturiero sono ammontati a 11 miliardi e 463 milioni di € in Germania, 4 miliardi e 481 milioni di € in Francia, 8 miliardi e 854 milioni di € in Italia e 1 miliardo e 454 milioni di € nell'ultraliberista Regno Unito. Cfr. Il Sole 24 ore, 5 settembre 2000, p. 9.
25. UMBERTO GALIMBERTI, Togliamo i paraocchi ai valori dell'Occidente, in La Repubblica,
26. Non sono i nostri valori, ma sono pur sempre infinitamente migliori di quelli del feudalesimo o della teocrazia.
27. L'International Trade Commission del Governo statunitense ha allo studio dazi da applicare a 12 prodotti della siderurgia europea che, ad avviso della commissione, minacciano il mercato Usa con manovre di dumping: Bruxelles prepara un ricorso da presentare al WTO. Il sole 24 ore, 24 ottobre 2001, p. 17. D'altra parte, sono effetti della guerra commerciale tra Usa e Ue anche il braccio di ferro sul protocollo di Kyoto e l'affare Lipobay: la Pfizer, casa farmaceutica statunitense produttrice di un altro farmaco contro il colesterolo, non è estranea all'emergere dello scandalo del farmaco della Bayer, che, ironia della sorte, detiene il brevetto di Cypro, l'unico farmaco efficace contro l'antrace; e gli Usa, che nel caso del Sudafrica hanno difeso gli interessi delle case farmaceutiche, sostenendo che non era lecito produrre farmaci alternativi, aggirando il possesso dei brevetti, ora minacciano di farlo se la Bayer non rinuncerà ad una parte dei profitti che dal brevetto le derivano.
28. "Dopo due decenni di libero scambio, a partire dalla fine degli anni Settanta [dell'Ottocento] si rialzarono a poco a poco le barriere. Si ricorse anche a un'arma sottile, ampiamente usata nella seconda metà dal XX secolo: la manipolazione di regole sanitarie e ambientali. Nel 1876, l'Italia per prima proibì l'importazione di carne di maiale americana, sostenendo che essa conteneva tricnina, sostanza velenosa per gli uomini. Fu seguita da molti altri paesi europei". In GIANNI TONIOLO, 1914: addio bella époque, cit. La guerra commerciale sui prodotti agricoli fa leva su due filosofie diversificate quella degli Omg di stampo statunitense e quella dei prodotti di qualità (Dop) di marca europea; quest'ultima, apparentemente più rispettosa dei consumatori , in realtà tende a sopperire ad un ritardo nella ricerca biotecnologia; cfr. ROBERTO IOTTI, Sulla Pac la Ue va in trincea, in Il Sole 24 ore, 3 novembre 2001, p. 15.
29. MARIO PLATERO, La rivincita di Keynes, in Il sole 24 ore. 26 settembre 2001, p. 3. ALLEN SINAI, Ripartire da Keynes, in Ventiquattro. Il Magazzino del Sole 24 ore, supplemento a Il Sole 24 ore, 3 novembre 2001, p. 9.
30. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., pp. 383, 972-973.
31. Negli anni Ottanta negli USA sono nati gli esperi di de-conglomerizzazione, per comprare, sezionare e ricostruire con pezzi diversi società e aziende. Cfr. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., p. 1018.
32. Recentemente il WTO ha dichiarato illegittimi i crediti d'imposta concessi dagli Stati Uniti alle aziende esportatrici (Il sole 24 ore, 21 agosto 2001, p. 2).
33. Ancora nel 2000 gli investimenti in Cina sono stati per 15,5 miliardi di $ fatti da parte di Hong Kong, su di un totale di 40,7. In Il sole 24 ore, 24 ottobre 2001, p. 8.
34. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., p. 965
35. EDWARD LUTTWAK ha accusato i vertici della Bce di essere "i talebani della politica monetaria", per la loro guerra ad oltranza all'inflazione (Il sole 24 ore, 3 ottobre 2001, p. 6). D'altra parte il tasso di sconto è stato portato dalla Fed ai livelli del 1962, abbassando ogni difesa antinflattiva in questa fase di grosse difficoltà per l'economia USA.
36. Il 16 novembre, comunque, l'Amministrazione Bush ha varato un piano per riassumere il controllo della sicurezza negli aeroporti che comporta 28.000 nuove assunzioni: ALESSANDRO PLATEROTI, Sicurezza aerea, 28mila assunzioni, in Il sole 24 ore, 17 novembre 2001, p. 4.
37. ALESSANDRO PLATEROTI, L'industria Usa va sottozero, in Il sole 24 ore. 17 ottobre 2001, p. 6, il cui occhiello significativamente recita: "l'output scivola a settembre per il dodicesimo mese consecutivo: non accadeva dall'ottobre 1945". Ogni settimana sono quasi 500.000 le domande per i sussidi da disoccupazione, in Il sole 24 ore. 19 ottobre 2001, p. 2. Torna ai minimi del 1994 la fiducia dei consumatori: MARCO VALSANIA, Crolla la fiducia dei consumatori Usa, in Il sole 24 ore. 31 ottobre 2001, p. 2. I consumi accusano la peggiore flessione da 14 anni a questa parte (-1,8%): MARCO VALSANIA, L'America non spende, consumi a picco, in Il sole 24 ore, 2 novembre 2001, p. 5. Ottobre ha rappresentato il tredicesimo calo consecutivo su base mensile della produzione ed il più consistente dal gennaio del 1982: MARCO VALSANIA, Crolla la produzione industriale americana, in Il sole 24 ore, 17 novembre 2001, p. 4.
38. Tokio, una recessione senza fine, in Il sole 24 ore. 17 ottobre 2001, p. 6.
39. MICHELE CALCATERRA, Parigi accelera, Bruxelles temporeggia, in Il sole 24 ore. 17 ottobre 2001, p. 3 e grafico allegato. BEDA ROMANO, Jospin fa da"rompighiaccio" a Schröder, in Il sole 24 ore. 17 ottobre 2001, p. 3. BEDA ROMANO, L'economia tedesca ha il fiato grosso, in Il sole 24 ore. 19 ottobre 2001, p. 3. MARCO NIADA, Blair: la priorità va ai servizi pubblici, in Il sole 24 ore. 17 ottobre 2001, p. 3. BEDA ROMANO, Germania sull'orlo della recessione, in Il sole 24 ore. 23 ottobre 2001, p. 6. ATTILIO GERONI, Il "made in Germany" è in crisi, in Il sole 24 ore, 24 ottobre 2001, p. 3. BEDA ROMANO, Allarme delle imprese tedesche: siamo sull'orlo della recessione, in Il sole 24 ore. 2 novembre 2001, p. 6.
40. Ocse, la frenata sarà forte, in Il sole 24 ore. 19 ottobre 2001, p. 1-2.
41. ROBERTO DA RIN, De la Rua temporeggia, la Borsa crolla, in Il sole 24 ore. 30 ottobre 2001, p. 2.
42. ALESSANDRO MERLI, Argentina e Turchia. Ora torna la paura, in Il sole 24 ore. 19 ottobre 2001, p. 2.
43. Sulle prospettive delle "tigri asiatiche" vedi LUCA VINCIGUERRA, La crisi asiatica peggiorerà, in Il sole 24 ore. 19 ottobre 2001, p. 2.
44. In Italia, dei 45 titoli del Numtel (new economy) solo tre sono ancora l di sopra del prezzo del primo collocamento in Borsa: Finmatica +51,34%; Prima Industria +28,11%; Tiscali +3,09%. Tutti gli altri sono negativi fino a un massimo di –90,71% (ePlanet Telecom) (Il sole 24 ore, 22 settembre 2001, p. 2). Ecco la situazione per alcuni titoli tecnologici statunitensi:

45. "[…] alla Borsa di New York [il volume totale delle transazioni] passa da quasi mezzo miliardo [di $] l'anno nei primi anni Cinquanta, a 1,5 miliardi nel 1965, a 3 miliardi alla fine degli anni Sessanta, a più di 5 miliardi nel 1976 e a 27,5 miliardi nel 1985." In New York Stock Exchange, New York Stock Exchange Fact Book, 1987 New York, 1987, p. 71, cit. in ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., p. 1019.
46. ALFRED D. CHANDLER JR., Dimensione e diversificazione, cit., p. 1022.
47. LEONARDO MARTINELLI, Tokio scopre le carte: "È recessione", in Il sole 24 ore, 30 ottobre 2001, p. 2.
48. L'economista LESTER THUROW del MIT parla della necessità di un piano da 250 miliardi di $. Il sole 24 ore, 24 ottobre 2001, p. 2.
49. Quante assonanze con ipotesi dei DS e delle tesi di maggioranza della CGIL!
50. È la partita, ad esempio, che si sta giocando sui brevetti dei medicinali nella commissione istituita presso l'ONU, di cui sono parte ragguardevole i rappresentati delle case farmaceutiche. La tendenza è quella di inviare i medicinali necessari, facendo un piano che vada incontro alle emergenze sanitari, ma non rinunciando ad una quota di profitti, ma facendo pagare per intero il conto all'apposito fondo internazionale.
51. Il WTO valuta al 2% la crescita del commercio internazionale per il 2001 (la più bassa dal 1982), mentre le previsioni di maggio accreditavano una crescita del 7% ed il 2000 aveva visto una crescita del 12%. ALESSANDRO MERLI, Commercio mondiale in forte frenata, in Il Sole 24 ore, 25 ottobre 2001, p. 3.
52. Ho, in questa direzione, apprezzato molto il documento sulla 5a guerra mondiale scritto da Donato Romito e apparso nel n. 105, ottobre 2001, del Bollettino Interno della Federazione dei Comunisti Anarchici, pp. 17-24.