Il ciclo delle merci

 

Un problema irrisolto all'interno della teoria economica marxista è quello della chiusura del ciclo delle merci, che devono essere collocate sul mercato e vendute perché il profitto (plusvalore immagazzinato nelle merci) si realizzi in termini monetari. Questo problema in realtà si poneva storicamente assai poco all'epoca in cui Marx veniva scrivendo "Das Kapital". In effetti il mercato in Marx ha un ruolo del tutto accessorio e viene visto come una sacca infinita, in grado di recepire le merci prodotte e proprio per questo esso non riveste alcun carattere fondamentale nel ciclo delle merci se non quello di correttivo dai valori ai prezzi. Solo in alcuni momenti il mercato si restringe, improvvisamente non raccoglie più merci e si ha crisi di sovrapproduzione, tutto ciò senza mutare di una virgola il processo di valorizzazione delle merci. Unica funzione fondamentale del mercato nella teoria economica marxista è quella di stimolare e permettere la libera concorrenza; libera concorrenza che è l'assunto irrinunciabile di tutta la costruzione marxista.

Tutto ciò nasce da una precisa situazione storica: quella protocapitalistica dell'800 in cui si aveva una produzione di elite per pochi privilegiati al di fuori del mondo industriale. Si aveva cioè una separazione fra produttori (la classe operaia) e consumatori (nobili, artigiani, proprietari terrieri..). L'esistenza di settori produttivi paralleli al nascente mondo industriale forniva la base naturale per lo sviluppo della industria stessa; in altre parole si cominciava ad avere un trasferimento di ricchezza dalla vecchia alla nuova classe dirigente. L'operaio aveva essenzialmente solo la funzione di produttore essendo la sopravvivenza garantita in pratica dalla agricoltura.

Tutto ciò comincia a venire meno non appena appare sul mercato la catena di montaggio e la produzione di massa. L'operaio comincia allora ad essere visto nella duplice veste di produttore e consumatore imponendo un approccio al problema economico di tipo sostanzialmente diverso.

In effetti l'interesse che già in precedenza era sorto verso il mercato, con il marginalismo, aveva dato al mercato stesso una funzione ancora una volta riduttiva. Il problema rispetto alle crisi cicliche in cui incorrevano gli stati capitalisti era visto come una questione di "capire meglio" la domanda prevedendola, misurandola, introducendo in altre parole il concetto di utilità marginale.

L'interesse verso il mercato suscitato da Keynes è di tipo completamente diverso e va nella direzione di risolvere un apparente paradosso: come conciliare l'interesse capitalistico di salari bassi con quello di poter vendere più merce possibile. Evidentemente questo "paradosso" non ha soluzione se ci si limita allo studio di una situazione statica. In tali condizioni, aumentare il salario equivale di fatto a "regalare" una parte di prodotto agli operai.

In realtà l'evoluzione tecnologica rende possibile aumenti di profitto superiori agli aumenti salariali, ma la condizione è una espansione continua della ricettività del mercato e d'altra parte proprio questa espansione permette aumenti di profitto anche in situazione di stazionarietà o diminuzione del profitto unitario.

Se da una parte l'evoluzione capitalistica è venuta assumendo forme non inquadrabili all'interno della teoria marxista, dall'altra fin da subito questa si è scontrata con difficoltà teoriche che ne minavano la validità. La teoria del valore lavoro ha una sua coerenza solo all'interno di una società preindustriale. Ripercorrendo l'impostazione da Marx data ad essa nel I libro di "Das Kapital" si nota subito che il mercato è visto come luogo di scambio tra eguali e cioè tra produttori artigiani in grado di sopperire autonomamente alle proprie necessità; solo questa condizione rende possibile lo scambio ad uguali tempi di lavoro impiegato a produrre le merci. È evidente che la società capitalista è molto più articolata ed ecco che in essa il valore non si manifesta come valore di scambio o tempo lavoro incorporato, ma come "prezzo". Il passaggio dal valore ai prezzi è un problema irrisolto all'interno della teoria economica marxista; non si sa come in una data situazione storico-sociale si possa, a partire dal processo di valorizzazione, stabilire i prezzi di mercato. Questo, che non è un problema da poco, non dipende però da carenze della teoria cui sia possibile sopperire con un suo affinamento, ma è stato dimostrato che la teoria stessa è impossibilitata logicamente a fornire il passaggio dai valori ai prezzi in una qualsiasi società in cui i livelli tecnologici diversi tra i vari settori industriale diano origine a tassi di profitto differenziati. La risposta data da Marx stesso a questa obiezione, introducendo il tasso di profitto medio, è stata dimostrata non consistente da von Bortkiewicz nel 1906.

Nel definire la teoria del valore-lavoro Marx introduce il concetto di "lavoro medio"che è quello che funge da parametro di riferimento per stabilire il valore delle merci indipendentemente dal singolo produttore e dalle sue più o meno limitate capacità lavorative. Questo concetto è forse ragionevole, ancora una volta, in una società di produttori artigiani in cui il livello tecnologico presente è il puro e semplice utensile da lavoro ed in cui con buona approssimazione tanto vale la giornata lavorativa di un fabbro quanto quella di un contadino.

L'affacciarsi di macchine via via tecnologicamente più avanzate costringe Marx ad individuare in esse un mezzo per dilatare il tempo di lavoro senza per altro definire un metodo che quantifichi tale dilatazione, se non a posteriori. La teoria del valore lavoro non è in grado quindi di fornire i coefficienti di sfruttamento in relazione ai livelli tecnologici presenti in una data epoca ed in un dato settore industriale; si constata solo l'aumento del prodotto avvenuto, per risalire all'aumento di sfruttamento.

Tutto ciò comporta spiacevoli conseguenze nelle deduzioni basate sulla teoria marxista. È ben nota la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: si definisce saggio di profitto il rapporto fra profitto e capitale investito

dove c si compone del capitale fisso cf (macchinari ed infrastrutture) e capitale variabile cv (salari operai). Per la teoria marxista solo cv è in grado di produrre plusvalore e quindi il profitto; ne consegue che il profitto è proporzionale a cv tramite un coefficiente che dipende dal livello tecnologico. Si ha quindi

e poiché la concorrenza spinge verso livelli tecnologici sempre più alti per mantenere le quote di mercato, e poiché la tecnologia è capitale fisso, cf tende a crescere rispetto a cf e tp tende a diminuire. Tutto ciò però non tiene conto del coefficiente k che dilata cv al crescere di cf . Nella teoria marxista questo problema non è rilevato, anche perché, come abbiamo detto prima, essa non fornisce proprio quei coefficienti k che sono poi l'indice di sfruttamento garantiti dall'evoluzione tecnologica. Non si ha quindi nessuna indicazione di come vada k in relazione all'aumento di contenuto tecnologico e di quantità in pratica di capitale fisso. Il punto non è accademico perché supponendo ad esempio k proporzionale a cf il saggio di profitto non andrà mai a 0 .

Tutto ciò, sia detto, nel tentativo di recuperare in qualche modo l'apparato teorico della teoria del valore. Si pone però un altro problema: se questo coefficiente di sfruttamento cresce con lo sviluppo tecnologico equivale a dire che un operaio di un'industria ad alta tecnologia è più sfruttato di un artigiano o di un'industria obsoleta. Tale affermazione appare per lo meno discutibile. Non si capisce più il valore dello sfruttamento. Non si può parlare di macchine come prolungamento degli operai per aumentarne lo sfruttamento.

Questo appare ancora più evidente nei settori a crescente automazione, dove la macchina è divenuta ormai autosufficiente o quasi, per la esecuzione della lavorazione. Si porrebbe allora la questione se anche le macchine possono produrre plusvalore. Ma anche questa ulteriore ipotesi ci sembra vada immediatamente scartata in quanto si pone nell'ottica di un capitalismo buono che libera l'uomo dal lavoro. È evidente che nel momento in cui si "libera" l'uomo dal lavoro non lo si libera dal bisogno e soprattutto si mantengono inalterate, se non aumentano, tutta una serie di discriminazioni a livello della distribuzione delle merci prodotte.

Saverio Craparo

(Firenze, 1982)


(Originale ciclostilato presso l'Archivio storico di Saverio Craparo - Firenze.)