SULLA GESTIONE DEMOCRATICA O AUTOGESTIONE GENERALIZZATA

di Manuel Baptista

 

INTRODUZIONE

I lavoratori sono sempre persuasi che da sé stessi sarebbero totalmente incapaci di gestire le imprese, e che senza l'aiuto dei titolari di esse e dei loro accoliti (i c.d. "gestori") le imprese stesse andrebbero a fondo.

È evidente solo per pochi che si tratta di un'astuta menzogna che permette di contenere in una docile rassegnazione le masse fruttate, affinché non abbiano mai la velleità di reclamare il potere che è loro, il "potere di fare".

Infatti, la cooperazione, la diligenza e l'intelligenza dei lavoratori vengono costantemente richieste in ogni tipo di impresa, siano grandi o piccole, private o statali.

Lo si riscontra osservando da vicino la concretezza della produzione e dei servizi. Se i lavoratori si comportassero come automi privi di intelligenza, in breve per tutta la produzione (e i servizi) ci sarebbe una stato di disorganizzazione. 

Tuttavia, possiamo e dobbiamo anche considerare esempi "in positivo". Ossia le imprese autogestite che - nei momenti di disorganizzazione economica e di crisi del potere - finiscono sempre col venir fuori.

I lavoratori molte volte sono portati ad assumere il controllo della gestione delle imprese a causa della fuga o del sabotaggio dei padroni e dei gestori, e inizialmente lo fanno per assicurare il proprio posto di lavoro, non per una decisione premeditata, bensì sotto la pressione delle circostanze eccezionali in cui vivono.

Sono molti gli esempi di imprese cooperative che funzionano bene, in genere di piccole dimensioni, in cui i lavoratori sono proprietari delle imprese e le decisioni vengono formate in assemblee democratiche. L'esempio di queste imprese cooperative ben condotte viene minimizzato, particolarmente dai "rivoluzionari patentati", che vi vedono (con ragione) una negazione dei loro progetti autoritari.

Peraltro, anche i capitalisti fanno di tutto per sabotare il loro successo, anche quando esse non costituiscono una minaccia concorrenziale per il settore capitalista. Da qui nasce il fatto che un modello generalizzato e cooperativo di autogestione non riesca ad installarsi progressivamente, per generalizzazione del modello stesso, stante il semplice motivo che la classe sfruttatrice - fin quando si mantenga al potere - non lo permetterà.

Questo non significa che detto modello di gestione e di proprietà cooperativa non possa costituire la futura base di quella che si potrà considerare una società basata su principi non capitalisti (e, pertanto, socialisti): vale a dire, al contrario, che queste soluzioni esistono già nella teoria e sono state sperimentate molte volte, non avendo nulla di utopico; semmai è il contrario.

È questo che giustamente temono i detentori del potere attuale ed i loro capataz; temono che questo modello possa -nella coscienza delle masse- diventare desiderabile, naturale, necessario, per essere stato posto in essere con successo in varie parti del mondo ed in vari settori di attività.

 

L'AUTOGESTIONE NON È UTOPIA

Anche per questo i libertari - in generale difensori dell'autogestione e delle cooperative - cadono in un tremendo errore accettando di buon grado che altri (e non loro stessi) li considerino utopisti. Si tratta di una forma di autosconfitta del massimo grado, poiché essi danno credito ai clamori dei loro più acerrimi nemici, i capitalisti e i loro capataz, che guidano i partiti detti "socialisti" o "comunisti" o "di sinistra".

La praticabilità delle forme di organizzazione in autogestione e in cooperativa non manca di dimostrazione. Non si può dire lo stesso sia dei modelli idealizzati che "legittimano" i meccanismi di mercato del capitalismo privato, sia della centralizzazione estrema del capitalismo di Stato, o bolscevismo, come strumenti di emancipazione e giustizia sociale.

La libertà senza socialismo non è altro che miseria e ingiustizia per l'immensa maggioranza, e il socialismo senza libertà è un mostruoso sistema di schiavitù e di negazione della dignità umana, come già sostenuto da Bakunin circa 150 anni fa, ai tempi della I Internazionale.

Perché sia realizzabile un'autogestione generalizzata, non è imprescindibile disarticolare vasti e complessi insiemi produttivi o di servizi, come per esempio la grande industria e i servizi sanitari, o altro, o ancora i sistemi di comunicazione. Alle volte si confonde l'autogestione con la visione - per nulla rivoluzionaria - del "piccolo è bello", con un ecologismo fondamentalista, o addirittura con forme estreme di negazione della civiltà tecnologica da parte dei c.d. "primitivisti".

In realtà, non c'è ragione per pensare che la distribuzione orizzontale del potere sia necessariamente e obbligatoriamente correlata al frazionamento delle unità produttive o dei servizi secondo una dimensione familiare o da piccola comunità.

La possibilità di autogestione partendo dalle forme ereditate dal passato, cioè dal capitalismo industriale, è perfettamente realizzabile con un controllo del funzionamento di tali unità effettuato internamente, dagli stessi lavoratori, come da parte delle comunità locali, regionali, nazionali o anche internazionali.

Questo controllo comunitario può essere concepito come un'estensione del modello federalista libertario, in cui le diverse unità abbiano tutta l'autonomia nell'ambito della propria sfera di competenza, essendo obbligate a stipulare "patti" o "contratti" con altri insiemi, si tratti di altre unità di produzione o di comunità organizzate in assemblee.

È chiaro che in questo campo c'è molto da inventare e migliorare. Tuttavia, si consideri che lo stesso sistema capitalista funziona molto sulla base di contratti di scambio reciproco, per il fatto che le imprese di un determinato ramo hanno bisogno di questo o di quel servizio da parte delle imprese di un altro ramo, e stipulano contratti e accordi di cui beneficiano mutuamente le parti stipulanti.

L'immagine di una concorrenza capitalista sfrenata, che viene trasmessa dal pensiero dominante, è totalmente falsa e ideologica. La verità è che le grandi imprese, i conglomerati di imprese, le holdings, la multinazionali, etc. realizzano associazioni verticali e orizzontali di molteplici rami di attività, e funzionano secondo una logica interna di cooperazione. Lo stesso si potrà dire per i servizi statali, si tratti dell'apparato centrale dello Stato (ministeri ecc.) o di organismi di gestione pubblici (scuole, università, centri di ricerche, sistemi sanitari, ecc.).

Considerare in via di principio buona l'autogestione, ma solo realizzabile in piccole imprese o in piccole comunità, più o meno chiuse in sé stesse, è un'altra forma di auto-sconfitta delle nostre idee, un altro modo di dare "argomenti" a tutti coloro che ci chiamano "socialisti utopisti".

 

I LAVORATORI HANNO LA CAPACITÀ DI GESTIRE LE IMPRESE

Le persone che hanno esperienza di lavoro in organizzazioni moderne, private o statali che siano, ben sanno quanto sia disastrosa l'imposizione di modelli gestionali strettamente gerarchici, poiché causano bassa produttività e si mantengono solo per forza di una coazione. Gli stessi capitalisti l'hanno capito da molto tempo, e le gestioni delle imprese hanno favorito i modelli più flessibili, in cui vi sia posto per una certa autonomia, una certa capacità di decisione ai livelli più bassi possibile, benché sempre con meccanismi di controllo e di validazione delle redditività, dettati dai "superiori interessi" dell'impresa o dello Stato.

Per ciò stesso, la responsabilità collettiva dei lavoratori riguardo ai compiti a cui sono destinati nelle varie unità dei grandi insiemi, non è fuori dall'ambito delle concrete possibilità sociali delle persone, qui e ora. 

Questo tipo di organizzazione del lavoro diventa più umano, meno soggetto a tensioni e logoramenti fisici e psichici, rispetto al modello di competizione sfrenata e di soggezione assoluta al potere padronale.

La cooperazione è oggi stimolata, incentivata, in alcune imprese capitaliste di punta, nelle unità dove il contributo creativo di ogni lavoratore è più rilevante.

Siccome si assiste ad un generalizzato aumento della componente del sapere tecnico e scientifico nelle diverse sfere della produzione e dei servizi, la tendenza risulta essere quella della diminuzione del lavoro noioso e ripetitivo, con una maggiore capacità dei lavoratori (anche grazie al più elevato grado di istruzione) nell'assumere compiti di gestione.

Tutavia, siccome il capitalismo non può operare una distribuzione equa del prodotto del lavoro e del potere, ma solo la sua concentrazione, esso preferisce che il lavoro continui a essere organizzato nelle condizioni più precarie per i lavoratori, sapendo che ciò comporta inevitabilmente una generale maggior sofferenza sociale. Preferisce guardare ad un esercito di disoccupati, disponibili come riserva, allontanati dalla sfera produttiva, di modo che coloro che ancora hanno la possibilità di guadagnarsi il pane, osservano con sgomento i disgraziati che sono marginalizzati e si considerano "fortunati" per non essere, nonostante tutto, "caduti tanto in basso".

È questo il meccanismo che porta i governi asserviti al padronato a tagliare tutte le garanzie di stabilità conquistate dai lavoratori nei paesi con vigorosa crescita economica durante i tre "gloriosi" decenni successivi alla II Guerra Mondiale.

 

COME COMBATTERE LA PRECARIZZAZIONE ?

Come sopra detto, questo tipo di organizzazione della società genera tensioni individuali e collettive insopportabili, e sta all'origine di molteplici gravi problemi sociali. Le persone e gli aggregati familiari sono le prime vittime di questa nuova "barbarie".

I meccanismi perversi istituiti nell'organizzazione del lavoro sono tra quelli che generano maggior angustia, varie malattie psicosomatiche che oggi affliggono la generalità delle persone. Le famiglie sono disarticolate per effetto delle tensioni nella sfera del lavoro, le quali vanno a potenziare ogni specie di squilibri, simultaneamente con un'interiorizzazione e un trasferimento sugli altri (le persone con cui si condivide l'intimità) delle frustrazioni, dei timori, delle angosce.

Tutto questo è banale e ben noto, le relazioni di lavoro precarie sono uno dei fattori di disarticolazione della famiglia, del suo sfasciarsi, a causa della generalizzazione di un modello di lavoro senza garanzie. Il fatto che la crisi della famiglia, e poi di tutta la società, sia presentata come se si trattasse di una "fatalità", senza però spiegarne le cause profonde, è un inganno dei media al servizio dei poteri.

Dovremo essere noi, "semplici mortali" ad inquietarci, a dire no, ad affermare che l'essere umano non può essere considerato come una "merce", "usabile", "scartabile" a piacimento di pochi "decisori".

 

LABORATORI SOCIALI

Il rifiuto di questo tipo di rapporti sociali è patente Sotto molteplici forme, alcune delle quali dianzi dette (indifferenza politica, disfunzioni nelle sfere socio/familiari, e generalizzazione delle malattie psicosomatiche). 

La marginalizzazione a cui è sottoposta una parte enorme della gioventù dei nostri giorni è causa ovvia di molti dei comportamenti detti "antisociali", o di "adolescenza prolungata", o "autosoddisfacimento edonistico". 

Tuttavia, anche la presa di coscienza dei giovani si va spargendo, sapendo essi perfettamente che questa società non riserva loro alcun futuro. Se alcuni affondano, molti altri cercano, in forma più o meno esplicita, alternative a questa società demente, brutale, crudele. È pertanto una reazione cosciente e salutare di una parte dei giovani il loro associarsi in collettivi, propagandando forme alternative di cultura, in cui si sperimentano forme relazionali costruttive, di cooperazione senza gerarchia, in una pratica comunitaria, in fondo, scoprendo o attualizzando e mettendo in pratica molto di quello che i loro padri (della generazione erede diretta della rivolta del 1968) scorsero nella loro adolescenza e nella loro gioventù, ma che in un'altra fase del loro percorso finirono con l'abbandonare. In Portogallo questa generazione corrisponde ai figli di coloro che erano adolescenti o giovani il 25 aprile del 1974. 

In questi gruppi di giovani si vanno realizzando dei "laboratori sociali" del futuro: le occupazioni ("okkupas" o "squats") e l'organizzazione di centri sociali, le innumerevoli reti di scambio e discussione create da internauti, le bande musicali alternative allo "show-business", etc. Tutto questo insieme culturale, diversificato ed eterogeneo, veicola il non conformismo rispetto alla norma imposta ed al benpensante, anche se il suo messaggio sembra semplicistico. Se si tratta di un fenomeno di moda, va anche detto che non accetterà facilmente la standardizzazione sociale, atteso che questa "moda" assume in generale forme di vita (o di desiderio di vita) anticapitaliste, anticonsumiste e antiautoritarie. Peraltro, la rapidità di assimilazione della "moda", quand'anche essa sia distante dalle "norme convenzionali", in molti casi può anche essere la stessa con cui la si abbandona e ci si "arrangia" nella società gerarchica tradizionale. Ma una minoranza proseguirà a costruire la propria personalità e cultura sulla base delle ricche esperienze vissute in comunità autogestite.

Tuttavia, è molto lontana la tappa successiva alla presa di coscienza, ossia, quella dell'auto-organizzazione delle persone in vista dell'inserimento delle proprie aspirazioni e dei propri progetti nell'ambito realista dell'economia, della lotta economica, della forma pratica ed efficace in rapporto alla propagazione delle idee, dei concetti, ecc., riguardanti l'autogestione e il comunitarismo.

 

STRATEGIE ANTI-CAPITALISTE 

La capacita di porsi effettivamente contro il sistema di sfruttamento capitalista deve passare necessariamente - per quanto non esclusivamente -per la lotta su due fronti: 

I due fronti si articolano fra di loro.

I sindacati promuoverebbero attivamente l'organizzazione di cooperative, i membri dei sindacati che si trovassero disoccupati verrebbero stimolati e sostenuti a trovare lavoro in esse creando i propri strumenti di produzione.

La presenza di un settore cooperativo in un determinato ramo di attività avrebbe conseguenze benefiche per TUTTI i salariati: infatti, i cooperanti, sfuggendo allo sfruttamento padronale, farebbero automaticamente diminuire il numero totale di coloro che chiedono lavoro, obbligando il padronato ad offrire migliori condizioni remunerative o d'altro tipo per acquisire lavoratori.

I lavoratori organizzati in cooperative trarrebbero vantaggio dal rafforzamento dell'azione sindacale. La tendenza sarà nel senso di un'offerta di lavoro della cooperative, incluso il lavoro salariato, a condizioni migliori di quelle praticate dalla maggioranza del padronato. Dopo, l'esistenza di organizzazione attive nella lotta allo sfruttamento capitalista, organizzazioni sindacali forti, che obblighino il padronato a migliorare sostanzialmente le condizioni di lavoro, fra cui la remunerazione dei salariati, renderà più difficile la concorrenza aggressiva dei settori capitalisti verso le imprese cooperative presenti nello stesso settore di mercato.

Oltre questi aspetti molto concreti della lotta economica, non possiamo omettere di considerare - in quanto ugualmente, se non più, importanti - gli aspetti inerenti all'acquisizione dell'esperienza di gestione, di sperimentazione concreta di metodi democratici nel prendere le decisioni e sul funzionamento in generale (questo tanto nel caso dei sindacati quanto in quello delle cooperative).

Solo la vita pratica potrà mutare la mentalità; una predicazione teorica, per "pedagogica" che sia, somiglierà solo ad un'aula dove si parla "ex-cattedra", probabilmente noiosa per molti.

Quello che si propone è differente: è insegnare nella pratica, di modo che l'insegnamento sia reciproco, ossia le persone si insegnino fra di loro, compartecipando in modo creativo e costruttivo nell'edificazione, nello sviluppo e nel mantenimento di progetti dei due predetti ambiti, il cooperativo e il sindacale. Infatti, si raggiunge una piena presa di coscienza solo quando si passa dal mondo astratto delle idee al mondo concreto dei fatti economici e sociali.

Manuel Baptista

 

L'autore è un militante comunista anarchico portoghese, membro del Collettivo anti-autoritario per la lotta di classe "Luta Social", di Lisbona