ANARCHICI E POLITICA

 

Parecchi anni fa – quando il virus rischiava di dilagare – in ambienti del movimento anarchico spesso e volentieri si metteva in guardia contro la “spagnolite”: nefasto contagio che agli occhi di quanti erano attenti alle indicazioni della newyorkese Adunata dei Refrattari, o comunque erano timorosi di uscire dalla morta gora in cui si era cacciata quell’organizzazione di sintesi, era simile ad una peste ideologica. Dal loro punto di vista non avevano torto.

Da noi il virus non si è molto diffuso, contrariamente a quanto è accaduto e accade nell’America Latina, e comunque non è scomparso in Spagna, dove gli anarchici (sfortunatamente sfuggiti alla presa di certi soloni dell’anarchismo, e privi di dimestichezza con la lingua italiana – di modo che non hanno potuto imparare cosa fosse davvero l’anarchismo e si sono dovuti ingegnare da soli) “purtroppo” hanno dato luogo all’unica rivoluzione proletaria e libertaria dell’Europa occidentale dopo la Comune di Parigi.

Nel numero di settembre 2003 del mensile Tierra y Libertad (organo della Federación Anarquista  Ibérica) è stato pubblicato un articolo dal titolo “Alcune considerazioni sulla politica”, nel quale il tema viene affrontato in una maniera che per molti anarchici nostrani (e non solo) – ma non certo per i comunisti anarchici – equivale a gettare un sasso in acque che si cerca di mantenere stagnanti.

In poche parole, vi si rigetta la tesi dell’equivalenza fra anarchismo e apoliticismo.

Al riguardo, in tale articolo il compagno Julián Vadillo scrive: 

« Evidentemente, se per politica si intende la conquista del potere dello Stato, l’anarchismo la rigetta del tutto. (…) Ma il rifiutare lo Stato come strumento di dominazione non fa sì che l’anarchismo rifiuti il potere. Per quanto possa sembrare singolare, l’anarchismo possiede una sua concezione del potere e del governo, che per noi si devono organizzare da una prospettiva orizzontale. Il governo deve essere completamente democratico, e perciò il potere deve risiedere là dove esso si origina: nel popolo ed in niente altro che nel popolo. In una società anarchica non ci si confronta con la possibilità di intermediari permanenti (cioè parlamentari). Ma la distruzione del sistema capitalista non si produce dalla notte al mattino. (...) Per questo qui adottiamo i postulati di Errico Malatesta per cui la trasformazione sociale deve avvenire progressivamente, mediante la creazione di organismi adeguati a smantellare con soddisfacimento ed efficacia le antiche istituzioni. Il che non ha nulla a che vedere con la fase transitoria della dittatura del proletariato proposta dai marxisti, poiché l’organizzazione anarchica è chiaramente decentrata e punta alla distruzione dello Stato.(…) È evidente che tutti questi procedimenti attengono alla sfera della politica. Per questo noi anarchici siamo politici ed operiamo in politica, e non dobbiamo aver paura a dirlo. Evidentemente critichiamo la politica, ma come istituzione professionale.(…) Per gli anarchici la rivoluzione non deve essere condotta da professionisti, bensì dal popolo medesimo. Nemmeno la gestione deve riguardare personaggi estranei alle problematiche della gente, poiché questo provocherebbe un elitismo che cozza con l’essenza politica dell’anarchismo. L’anarchismo è organizzazione, e questa è una cosa che deve essere ben chiara. Non optiamo per il libero arbitrio e perché le cose vadano come venga. Questo non è anarchismo, ma caos e disorganizzazione. Al contrario l’anarchismo si regola mediante la disciplina più efficace, data dall’impegno individuale di ciascuno come fattore fondamentale per il buon sviluppo sociale. L’anarchismo è politica perché rappresenta un’opzione chiara e concisa del nuovo ordine sociale di fronte alle altre correnti sociali ». 

Ed il predetto compagno finisce col ribadire il dualismo organizzativo anarchico fra organizzazione sindacale ed organizzazione politica (nella specie la FAI iberica). 

Nel recente congresso di unificazione anarco-comunista della CUAC cilena, poi, si rivendica il Potere Popolare, e lo scorso anno – in un documento inviato alle organizzazioni rivoluzionarie anarchiche, in un’ottica concretamente politica - i compagni uruguayani della Organización Libertaria Cimarrón avevano sottolineato l’esigenza che le categorie teoriche e l’azione dell’anarchismo siano strettamente collegate con l’analisi della realtà concreta in cui si sviluppa la pratica libertaria. Il che vuol dire anche assumere le contraddizioni che sorgono dall’esplicarsi dell’attività politica nel quadro della società contro cui si combatte, e non all’interno di quella che come anarchici propugniamo.

L’osservazione in sé potrebbe anche sembrare banale, se non coinvolgesse una serie di delicati problemi strettamente connessi con la teoresi e con la storia dell’anarchismo, con particolare riguardo alle situazioni in cui esso è assurto (in passato, ma il futuro è ignoto) al livello di movimento di massa.

È facile obiettare preliminarmente che le considerazioni in prosieguo svolte possono apparire lontane anni-luce dalla realtà, se si considera l’attuale stato del movimento anarchico nel mondo. Non ci dimentichiamo che sulla base di ciò George Woodcock termina con la sconfitta della rivoluzione spagnola la sua storia dell’anarchismo, sentenziandone il fallimento: 

« Ho fissato come limite di questa storia dell’anarchia l’anno 1939. La data  è scelta di proposito: quell’anno vide la morte, in Spagna, del movimento anarchico fondato due generazioni innanzi da Bakunin. Oggi vi sono ancora migliaia di anarchici sparsi in molti paesi del mondo. (…) Ma sono soltanto il fantasma del movimento anarchico storico, un fantasma che non ispira paura ai governi né speranza ai popoli e nemmeno interesse ai giornalisti. È chiaro che come movimento l’anarchismo è fallito ».(2)

Il quadro è tutt’altro che falso: può solo dirsi che rendendo definitivo il presente esclude apoditticamente il formarsi di qualsiasi futuro sviluppo di segno contrario che, nel corso della storia umana, si presenta quando meno se lo aspettano proprio gli storici di professione. D’altro canto proprio il medesimo autore cita una frase – secondo alcuni di Makhno, secondo altri di Arshinov – che contiene in sé le virtualità per una rinascita dell’anarchismo almeno finché vi saranno esseri umani pensanti: 

« “Guardate nella profondità di voi stessi (…) Cercate la verità e realizzatela voi stessi. Non la troverete in nessun altro luogo”. In quest’insistenza sull’interdipendenza di libertà e realizzazione del proprio io morale, sull’impossibilità che una viva senza l’altra, sta la lezione essenziale dell’anarchismo autentico ». (3) 

Ad ogni modo – poiché qui non interessa il problema dello iato fra il movimento di ieri e quello di oggi – con riferimento alla Spagna citata da Woodcock, va ancora una volta sottolineato una caratteristica degli anarchici lì impegnati nella lotta di classe e nella progettualità sociale: essi hanno via via elaborato articolati programmi di nuovi moduli organizzativi dei vari comparti sociali, hanno cercato di comprendere i meccanismi “tecnici” della produzione, aggiornando, modificando, rielaborando etc., di modo che allo scoccare dell’ora rivoluzionaria sapevano cosa fare, e come, per garantire continuità nella gestione tecnico/economica delle strutture necessarie al funzionamento della società, nelle sue componenti industriali ed agricole. Il che, peraltro, ha consentito a tutto il movimento anarchico di dare risposte concrete sul piano socio/economico sia ai contraddittori sia alle persone suscettibili di essere convinte, senza  dover fare sfoggio solo di iperuranie enunciazioni di principi o di chiacchiere elusive della realtà.

 Sul piano della politica le cose sono sempre state alquanto più complesse.

Si dice che gli anarchici mancano di una teoria della politica, tanto nella dimensione rivoluzionaria quanto in quella post-rivoluzionaria. E la delicatezza del problema della politica per gli anarchici assume tutta la sua valenza alla luce di quell’esperienza spagnola che per la sua fortissima presenza libertaria rappresenta ormai una lectio obbligata, da cui ricavare elementi fondamentali, sia in positivo, sia in negativo. 

« La politica e il potere si sono dimostrati in  Spagna non equivalenti. Gli anarchici, che avevano il potere reale, non facevano politica. (…) Ciò significa che la gestione e la mediazione dell’esistente non sono necessariamente legate al dominio: non basta avere questo per svolgere un’azione a proprio vantaggio. Il potere in sé non è produttore di politica che è invece quella scienza e quella pratica che gestisce, a vantaggio di chi la esercita, i rapporti di forza espressi dalla realtà. (…) I comunisti non avevano, nel luglio del ’36, alcun potere: avevano però una politica. Gli anarchici, al contrario, sviluppando la rivoluzione contro il potere esistente e contro la riformazione di un potere possibile, facevano in quel momento un’azione anche contro sé stessi. Attivavano, insomma, negandosi come potere, una politica avversa alla realtà di potere espressa dalla loro esistenza. (…) L’esperienza spagnola ha dimostrato che una rivoluzione sociale è la negazione del potere, ma non però del potere inteso al suo stato puro, come immediato rapporto di forza. (…) Ne deriva che l politica risulta insuperabile, tanto più se esiste una situazione rivoluzionaria di segno spontaneo, dove l’espressione evidente del potere insito nel rapporto di forza rende necessaria un’azione di adeguamento a questo stato di fatto. Con ciò si dimostra che la dimensione spontanea del sociale non riesce ad assorbire l’esigenza di una direzione generale del moto emancipatore ».(4)

Per chi conosce i fatti spagnoli il discorso è chiaro: ed è noto a quali catastrofici errori politici condusse – nel momento in cui l’apparato statale era crollato ed i rapporti di forza erano a favorevoli agli anarchici – il vederne il possibile esercizio esclusivamente nei termini di una “dittatura anarchica” da evitare come la peste. Salvo poi entrare a far parte del governo repubblicano borghese!

D’altro canto – se è vero che l’uso dei nomi non è mai indifferente o casuale – fino a quando nel movimento anarchico si continuerà ad usare come se fossero sinonimi termini che non lo sono affatto, come  potere, autorità e dominio, e ci si continuerà a comportare come se fosse sempre incombente, in rapporto a ciò, il pericolo di violare dei tabù o di strappare ad Iside il suo velo, si manterrà una cecità politica foriera della perpetuazione di errori esiziali. Un’interessante sistematizzazione di tali concetti, nell’ottica anarchica si deve ad Amedeo Bertolo, il quale – all’interno dei possibili significati rientrabili nella predetta confusione linguistica - ha opportunamente distinto tre situazioni a cui ha cercato di attribuire i nomi meglio corrispondenti:

  1. potere, come funzione sociale regolativa, insieme dei processi con cui la società si regola producendo norme applicandole, facendole rispettare;

  2. autorità, come asimmetria di facoltà e capacità decisionali tipiche di una complessa divisione sociale del lavoro in funzioni e ruoli differenziati;

  3. dominio, come monopolio del potere da parte di una minoranza, politica e/o economica, che esclude dall’esercizio reale del potere tutto il resto della società.

Stabiliti i concetti, ne deriva che l’obiettivo basico dell’anarchismo consisterebbe nella distruzione del dominio, mentre potere e autorità si concretizzerebbero in funzioni sociali neutre, ineliminabili anche in una società libertaria. (5)

Se la politica – da cui anche nella fase rivoluzionaria non si può oggettivamente prescindere – implica per definizione i rapporti di forza, allora si deve verificare al di là di dogmatismi, reverenzialità teoriche, schematismi storicamente datati, e quant’altro, che cosa effettivamente sia alieno dal DNA dell’anarchismo e che cosa ne metta in forse la ragion d’essere. Il che implica anche stabilire cosa invece in esso possa ancora sussistere senza squilibrarne la coerenza interna.

In buona sostanza si richiede una sorta di indagine fenomenologica della realtà - in cui e su cui si opera politicamente e socialmente – e non già delle possibilità di costruzione astratta della mente umana, per stabilire un nesso operativo fra teoria e prassi. Peraltro ricordandosi che anche le teorie che vogliono modificare la realtà data sono in definitiva “verificate dalla prassi”, e non autogiustificate.

Che la lotta al dominio, ed il rifiuto anche concettuale di esso, rientrino nella medesima ragion d’essere dell’anarchismo, è assolutamente fuori discussione. Il dominio, in sintesi, è sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e da qualche secolo trova la sua forma sociale nel binomio Stato/capitalismo. Il potere, come si dirà in seguito, è qualcosa di diverso. È la lotta radicale al dominio che fonda l’autentica rivoluzione sociale. Al di fuori di ciò si hanno solo spinte per la sostituzione di un ceto, o classe, dominante con un altro, attraverso il coinvolgimento più o meno ampio di masse, che suddite restano comunque.

Ma la lotta vuol dire contrapposizione anche violenta, contro chi detiene il dominio e non vuole lasciarlo, e piuttosto è pronto ad affrontare una  lotta a morte, costringendo ad essa i rivoluzionari stessi, sovente al di là della propria volontà. E nella fase della rivoluzione (a ridosso e durante) si risolve concretamente uno dei tanti lancinanti problemi teorici che hanno causato enormi effusioni di fiumi di inchiostro nella storia dell’anarchismo - se l’individuo sia in sé autosufficiente o abbia bisogno del complesso sociale – a tutto favore della seconda opzione.

Implicando la rivoluzione sociale che siano distrutte le vecchie strutture perché si affermino l’autonomia e la gestione diretta di una società non più  organizzata in classi e dominata da quell’istituzione separata e sovraordinata che è lo Stato/apparato, ne deriva che gli oppressi di ieri sono in grado di realizzare quello che gli oppressori non volevano e non continuerebbero a non volere se il potere fosse ancora loro. A questo fine – come è accaduto dai sanculotti francesi in poi, con Makhno in Ucraina, nella Catalogna e nell’Aragona libertarie - servono anche e soprattutto le milizie popolari armate, le pattuglie di controllo e quant’altro. Serve uno strumento aborrito dagli anarchici che non devono, possono, o vogliono, fare la rivoluzione, ma che invece le masse costituiscono ed usano con la loro effettiva coscienza rivoluzionaria: la coazione contro il nemico di classe per evitare di essere vittime di una coazione opposta (alla maniera di Franco o Pinochet, per intendersi).

Una metafora apparentemente cinica può servire: rompere le uova per fare la frittata è strumentale; provare piacere a rompere le uova indipendentemente dalla frittata è una turba mentale.

Sia le esperienze storiche del secolo passato, sia le moderne acquisizioni delle c.d. “scienze umane” dovrebbero portare ad una revisione profonda di molte (e persistenti) ottimistiche certezze del pensiero anarchico “classico”, influenzato eccessivamente da schematismi astratti che privilegiano automatismi e semplificazioni. Ad esempio, il Programma degli Anarchici del 1920, e molti scritti di Malatesta tracciano il quadro di una rivoluzione che abbatte “in tempo reale” il tiranno/Stato e pone le basi di una società libertaria che si difende con una certa “facilità” o “disinvoltura” dai dissidenti nostalgici del passato regime.

Poi, però, abbiamo avuto il leninismo/stalinismo, il fascismo, il nazismo, la tragica esperienza della Spagna, l’espansione internazionale del dominio delle mafie e delle multinazionali, il capitalismo globalizzato, l’impero USA. E abbiamo anche la lontana e spesso dimenticata lezione di Etienne de la Boetie (6) sulla servitù volontaria, gli studi psicologici sulle componenti irrazionali della psiche umana e sulla formazione/sviluppo dell’immaginario collettivo di Castoriadis (7), il “mistero” della proliferazione di situazioni oggettivamente rivoluzionarie a cui non fanno riscontro speculare le condizioni soggettive. Tutti elementi che rendono ben più complicato il semplicistico quadro delineato dall’analisi dell’anarchismo prebellico.

Ormai è fuori discussione il fatto che una rivoluzione sociale deve fare i conti con una serie di fattori che non ne fanno un evento istantaneo, bensì un fatto di "“durata", poiché essa non deve confrontarsi con una sorta di “solitudine” dello Stato e delle istituzioni del  capitalismo. Il tiranno non è solo: sono con lui oltre ai suoi mercenari dell’esercito e della polizia anche masse di cittadini (e qui gioca poco il fatto che siano anch’esse vittime dell’oppressione) che temono la libertà, che sono impigliate in meccanismi ideologici e psicologici che ne fanno strumenti e carne da cannone per i dominanti. Anche queste masse sono il nemico, e possono esserlo altresì con maggior ferocia dei tiranni in senso proprio.

Un certo umanesimo anarchico punta, e giustamente, all’emancipazione dell’essere umano in quanto tale: ma questo è un punto di arrivo. Il punto di partenza è la lotta degli oppressi contro gli oppressori ed i loro complici e/o strumenti. Ed il fulcro dell’oppressione sta nei rapporti di classe. La lotta rivoluzionaria degli oppressi ed il suo sbocco insurrezionale non riguarderà la maggioranza degli oppressi medesimi: sarà quindi una parte soltanto di essi a dover gestire il momento rivoluzionario contro il resto della popolazione. Anche in Spagna è successo così.

La rivoluzione è un evento violento e coercitivo per eccellenza verso i sostenitori dell’ordine vigente. Ed a seconda del grado di intensità della reazione controrivoluzionaria questo evento sarà di minore o maggiore durata, implicando a sua volta una diversa intensità nell’azione di difesa/offesa da parte della rivoluzione e di soddisfacimento delle necessità inerenti (in Spagna, durante la guerra civile, i rivoluzionari furono costretti anche a costituire servizi di intelligence contro le infiltrazioni del nemico).

Il problema, naturalmente, sta nel non superare i limiti oltre i quali si avrebbe la rinuncia all’identità libertaria e l’avvento della “dittatura rivoluzionaria”.

La rivoluzione è il momento culminante, nella sua fase insurrezionale, della lotta di classe. Lotta che si struttura, appena comincia a consolidarsi, in esplicazione di forza contro gli avversari. Lotta che esprime il rifiuto dell’oppressione e delle sue strutture. La lotta di classe non è mai preceduta da sondaggi per verificare se abbia o no un consenso maggioritario. Semplicemente, raggiunto un certo grado di intollerabilità, alcuni sfruttati decidono di dire “no” all’assetto che li sfrutta. Si crea quindi una contrapposizione di azioni e di forze per la prevalenza dell’interesse di un campo su quello dell’altro.

Le forze impegnate nella lotta allo sfruttamento – quando lo sviluppo della lotta abbia raggiunto elevati livelli quantitativi e qualitativi – creano anche una sorta di “spazio” entro cui costruire elementi della nuova società verso la quale si vuole procedere; ed allora si lotta anche per estendere questo spazio e, come evento finale, farne lo spazio sociale tout court.  In questo virtuale “spazio rivoluzionario” si formano le strutture di contropotere che divengono sempre più operanti via via che l’apparato statale/capitalistico si indebolisce, e qui nascono gli organismi di gestione popolare diretta, di riorganizzazione della società, che fungono da strumenti delle masse popolari per combattere i nemici di classe. Abbattute le istituzioni politiche precedenti, venuto meno il potere dello Stato/apparato, il potere popolare si espande nello spazio rivoluzionario a sua volta espandendolo.

La metafora dello spazio sociale rivoluzionario è utile anche ai fini del problema della politica libertaria nella fase della rivoluzione.   La difesa della rivoluzione riguarda  la difesa di questo “spazio”. Sul versante esterno, l’azione politico/militare non può che essere quella di sempre: milizie popolari, lotta senza quartiere al nemico di classe ed applicazione della giustizia rivoluzionaria. Ai fini di evitare le degenerazioni dittatoriali di marca leninista il versante più delicato è quello interno. Qui è imprescindibile la costituzione di un potere popolare basato sulla democrazia diretta, politica ed economica (che non è dittatura di partito), e sul coinvolgimento più ampio possibile delle masse popolari alla difesa/costruzione della società rivoluzionaria; la lotta ad ogni tentativo di monopolio sulla rivoluzione deve essere senza tentennamenti. Ed è qui che entrano in gioco i rapporti di forza a cui deve corrispondere l’azione politica.

Il Programma Anarchico che contemplava « libertà per tutti di propagare e sperimentare le proprie idee senz’altro limite che quello che risulta naturalmente dall’eguale libertà di tutti » corrisponde alla laicizzazione dei mitologhemi di un ottimismo millenaristico che, se non escludibile in toto, per lo meno va proiettato in una dimensione temporale disgraziatamente tutt’altro che prossima. Nello “spazio rivoluzionario” questa libertà non può che valere per i suoi soggetti, altrimenti andrebbero vanificate le conquiste rivoluzionarie e la difesa stessa della rivoluzione. La rivoluzione postula una libertà “da”: sfruttamento e dominio; e una libertà “per”: la realizzazione personale e sociale nello “spazio” liberato dallo sfruttamento/dominio nelle forme e nei modi che le masse  rivoluzionarie attueranno. Se si consentisse che dette forme e detti modi includessero anche quanto la rivoluzione ha abbattuto, essa si suiciderebbe. Non erano autolesionisti i marinai rivoluzionari e libertari che nel 1921 a Kronstadt si ribellarono alla tirannia bolscevica: essi chiedevano « la libertà di parola e di stampa per gli operai e i contadini, per gli anarchici e i partiti socialisti di sinistra » (8) e su questa base nuove elezioni ai soviet. Non per il nemico di classe appena sconfitto militarmente.! Infatti, chi voglia ripristinare il dominio, e chi ne sia complice, è fuori automaticamente dallo “spazio rivoluzionario”, e quindi dalla società libertaria che si riesca a costituire.

Ed in questo spazio non operano solo gli anarchici (non accadde neppure in Spagna dove il movimento anarchico era un potente movimento di massa). Di modo che in una situazione data dalla pluralità di soggetti rivoluzionari - a cui eventualmente si aggiungano forze borghesi ad essi allearti contigentemente contro un  nemico comune, ma non per questo rivoluzionarie – il problema della politica si pone ai fini dell’egemonia: d’altro canto senza egemonia come si farebbe mai ad influenzare in un senso o nell’altro gli eventi?

L’obiettivo del conseguimento/difesa dell’egemonia implica un dialettica anche si alleanze, ed in fondo una lotta, che in via di base deve svolgersi tenendo presenti i principi dell’azione libertaria nel quadro della rivoluzione (e non solo). Il problema, peraltro, non si esaurisce in un rapporto semplicemente binario: fini e principi/mezzi, bensì ternario: fini e principi/mezzi/situazione specifica in cui si opera. Fini e principi determinano un’identità: ma nessuna identità si colloca in un limbo metastorico, bensì opera, si sviluppa e si attualizza in rapporto all’esistente storico nel perseguimento dei propri fini. Fini e principi consentono anche di tracciare le rotte, che però di percorrono nelle acque di un mare distinto da essi. E se il costruttivismo eretico è parte essenziale della tradizione anarchica nel suo sviluppo come parte fondamentale del movimento di emancipazione dei lavoratori per giungere all’emancipazione dell’essere umano, allora continua ad avere ragione Berneri scrivendo che  « un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrine) e non può che dare ai principi un valore relativo ». (9) E relativo, in buona sostanza, non significa “violabile a piacimento”, ma esprime l’esigenza di una correlazione con un altro termine: termine che è la situazione effettuale.

Fare dei principi – che in sé sono dei punti di riferimento identitari, senza di cui si smarrisce la strada – i vademecum operativi buoni per tutte le occasioni e circostanze, esprime un dannoso fondamentalismo ”legalista” che porta alla pericolosissima illusione di poter piegare ai principi una realtà multiforme e dinamica che vive di vita autonoma,  non ne vuole sapere spontaneamente di adeguarsi ai principi, tant’è che se così non fosse le cose sarebbero già sistemate (o sistemabili).

Per cui alla fine ci si deve chiedere non tanto se l’anarchismo possa morire se media con la realtà (e la realtà non è già anarchica), bensì se muoia quando non media, ma si chiude nell’illusione di una settaria purezza, oppure quando si adegua troppo alla realtà, affidando a quest’ultima il ruolo direttivo.

Se la lotta al Dominio per la libertà è un principio/fine ineliminabile per l’anarchismo, pur tuttavia non va dimenticata la lectio di Berneri (revisionista perché voleva essere un anarchico dei suoi tempi), per la quale la libertà è inscindibile da un continuo rapporto con le con dizioni poste dalla necessità, in quanto la libertà non è solo tensione e sforzo individuale, ma  anche scienza dei nessi che collegano l’agire umano con un contesto storico determinato. Quindi, il farsi della libertà è “relativo” alla necessità, e la specifica discriminante dell’anarchismo è data dalla tensione per eliminare il dominio e ridurre l’autorità nei limiti della necessità.(10)

I limiti della necessità fanno sì che nelle situazioni concrete in genere, ed in quelle rivoluzionarie in specie, per gli anarchici sia di estrema importanza riuscire a valutare correttamente in quale direzione si muovano gli avvenimenti. Se questi – per una già esistente forza organizzativa del movimento di lotta degli oppressi, e per un’eventuale posizione di tipo egemonico degli anarchici – consentono di puntare rapidamente verso un assetto libertario della società, sarà del tutto controproducente rinunciare a dare la spallata decisiva alle strutture di dominio, statali e capitaliste, anche in  termini coercitivi verso taluni degli occasionali alleati.

Ma anche in una simile ipotesi, la necessità vorrebbe (11) che il programma rivoluzionario degli anarchici facesse i conti con le condizioni storiche date in cui si opera, comprese le tradizioni e le caratteristiche del popolo che fa la rivoluzione.

Può darsi, invece, che la situazione data, pur evolvendosi in termini rivoluzionari implichi un processo evolutivo per il raggiungimento degli obiettivi, con annessa lotta politica. Se la si vuole vincere bisogna avere chiaro quali sono le forze in gioco, quali ostacoli che esse possono frapporre, ed in che modo possono essere eliminati o aggirati. In quest’ottica inquadrando bene anche le “dissidenze”, per capire quali siano davvero controrivoluzionarie e quali no. Il tutto con i piedi bene per terra.

Quando poi la rivoluzione è tutt’altro che all’ordine del giorno, le polemiche fra “ortodossi” ed “eterodossi” fioriscano piacevolmente: quanto meno chiariscono le rispettive posizioni.

 La politica degli anarchici non si esaurisce solo nella lotta contro le istituzioni esistenti quali modalità di funzionamento delle strutture di dominazione e sfruttamento. Essa include anche la lotta per la costruzione di una altro tipo di società, il cui massimo punto di arrivo starà nel sostituire la politica con l’amministrazione.

Punto di arrivo, obiettivo da perseguire; che perciò stesso implica una tensione dialettica che passa per contraddizioni ed antinomie, e non un passaggio immediato, implicando il realizzarsi di varie premesse costitutive.

Essendo un aspetto della politica l’accorto comportamento per perseguire i propri obiettivi, la politica anarchica non può prescindere dall’instaurazione di alleanze/collaborazioni tattiche anche con gruppi e forze non anarchiche, mettendo da parte il timore di perderci in identità e purezza.

A prescindere dal fatto (filosofico) che non si dà alcuna identità se non attraverso l’interrelazione con gli altri (così come il senso dell’io si forma attraverso i vari “tu” con cui è a contatto), che sono necessari per lo sviluppo dell’identità medesima – la rinuncia alle alleanze tattiche si risolve nella rinuncia all’esercizio di sinergie senza le quali la sterilità e la chiusura diventano, di volta in volta, l’una causa ed effetto dell’altra.

Le alleanze vanno semplicemente valutate nell’ottica binaria del possibile/impossibile, ovvero pericolose/non pericolose, in rapporto sia agli obiettivi strategici che ci si propone, sia alle situazioni oggettive in cui si opera, sia all’esigenza (tutt’altro che trascurabile) di farsi conoscere da più ampie sfere  sociali con cui entrare in contatto per diffondere le proprie idee. Anche qui la fondamentale discriminante sta nel come si posiziona l’eventuale alleato rispetto alla questione dominio/libertà o dittatura/autonomia.

Le necessarie alleanze/convergenze operative contingenti sono da perseguire innanzi tutto con le realtà che praticano l’autorganizzazione e che anche al loro interno esprimono la tendenza a lottare contro il dispotismo. Ma questo non può essere un requisito del tutto escludente. Anche con forze  riformiste – non pregiudizialmente antianarchiche – è instaurabile un rapporto di alleanza contingente, ossia di collaborazione tattica.

È con i nemici dell’anarchismo, con quelli che – potendo – ritornerebbero volentieri alla pratica della fucilazione degli anarchici, con i sostanziali negatori della libertà, che l’alleanza vorrebbe dire solo portare acqua al mulino altri e vedersela tornare avvelenata.

di Pier Francesco Zarcone

NOTE

(1) J. VADILLO, Algunas consideraciones sobre la política, in Tierra y Libertad, n.182, settembre 2003, pp. 14-15.

(2) G. WOODCKOCK, L’Anarchia, Milano 1976,  p.414.

(3) Ibidem, p. 421.

(4) G. BERTI, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria 1998, p.855-856.

(5) A. BERTOLO, Potere, autorità, dominio, in Volontà, n.2 1983, pp. 51-78.

(6) E. de la BOETIE, La servitù volontaria,

(7) C. CASTORIADIS, La rivoluzione democratica. Teoria e progetto dell’autogoverno. Milano 2001.

(8) I. METT, 1921: la rivolta di Kronstadt, Roma, 1970.

(9) G. BERTI, op.cit., p. 858.

(10) Ibidem, pp. 867-875.

(11) Ibidem, p. 876.