Analisi della fase

 

1.1 Dalla crisi del... 1929 all'avvento del capitalismo moderno

Per capire la situazione attuale, bisogna analizzare la società antecedente alla attuale crisi, quel capitalismo fiorente che dilagò sin dagli anni '40 negli USA e dagli anni '60 in Europa e in Giappone.

Schematicamente potremmo interpretare la crisi del '29 come una crisi di sovrapproduzione. Lo sviluppo industriale aveva coperto le metropoli occidentali con un importante tessuto produttivo, lo sviluppo della meccanizzazione e l'introduzione di tecniche organizzazione del lavoro sempre più sofisticate, ispirate dall'americano Taylor (il lavoro alla catena di montaggio è l'esempio più significativo) consentivano un aumento della produttività.

Mentre il mercato veniva inondato da una produzione industriale di massa, i consumi della popolazione non stavano al passo (il 90% delle spese popolari era destinato ai consumi alimentari).

Da un lato produzione industriale galoppante, dall'altra consumi popolari insufficienti. Da questo squilibrio è nata la grande crisi del 1929, una crisi di sovrapproduzione o di sottoconsumo, nella quale i profitti non potevano più essere realizzati sul mercato, trascinando così l'intera economia occidentale in una rovinosa disfatta.

La risposta a questa crisi ed alle sue drammatiche conseguenze fu il New Deal del presidente Roosevelt. Ma è solo dopo la seconda guerra mondiale che le politiche economiche dei paesi industrializzati si apprestarono ad inaugurare una nuova era per il capitalismo.

Il capitalismo moderno, quello oggi in crisi, è il prodotto di quella impostazione ed è fondato su precisi rapporti sociali.
Henry Ford fu il primo a comprendere la necessità

Ancora oggi il capitalismo moderno si basa su questi rapporti sociali fordisti, nei quali un lavoro sempre più alienante (e sempre più produttivo) si associa ad un aumento misurato e regolato del potere di acquisto dei lavoratori...

Lo sfruttamento delle ricchezze del terzo mondo e lo sviluppo dello Stato, sia del suo intervento economico che del suo ruolo di regolatore sociale, completano i meccanismi sociali che hanno permesso il miracolo economico; 25-30 anni di espansione, una fortissima crescita ed infine la trasformazione del modo di vivere di ciascuno di noi.

1.2 I meccanismi di espansione del capitalismo moderno

I meccanismi dell'espansione hanno funzionato in pieno per l'Europa fino alla fine degli anni '60, ed anche fino a primi anni '70.

Dal 1952 al 1972, il volume della produzione, la produttività, gli investimenti, sono triplicati; i consumi di massa hanno visto una ascesa folgorante, dal 1950 al 1970 si è quintuplicato il numero delle macchine. La vita della popolazione si è trasformata. Operai ed impiegati, sempre più numerosi, hanno raggiunto un livello di vita veramente migliore. Nuovi ceti medi salariati, quadri, tecnici si sono sviluppati. Fortune immense e potenti gruppi capitalisti si sono costruiti.

Il primo meccanismo dell'espansione è stato un costante aumento della produttività fondato sulla parcellizzazione e disumanizzazione del lavoro.

Alla base di tutto il processo di espansione si trova il sistematico ricorso all'automazione ed allo sfruttamento scientifico del lavoro, incorporando nella macchina il massimo di quell'attività che fino a ieri era nelle mani degli operai, a poco a poco la macchina ha sostituito l'uomo. Ieri padrone dei suoi attrezzi, oggi l'operaio diventa l'ausiliario della macchina. Dividendo il lavoro al massimo, talvolta un solo gesto meccanico programmato dagli uffici studio aziendali, si è raggiunta "l'organizzazione scientifica del lavoro", la parcellizzazione dei compiti, la catena di produzione. Come conseguenza di ciò una sistematica gerarchizzazione divide i lavoratori, una divisione netta tra lavoratori manuali e intellettuali e la necessità di un inquadramento quasi militare per imporre ad operai ed impiegati un regime di lavoro disumano.

Il sistema si è rivelato proficuo per i dirigenti aziendali: gli aumenti di produttività hanno consentito di trarre immensi guadagni, con la taylorizzazione del lavoro si è prodotta l'espansione.

Il secondo meccanismo che ha prodotto l'espansione è stato lo sviluppo permanente dei mezzi di produzione.

I profitti reinvestiti hanno consentito un costante sviluppo dei mezzi di produzione, una accumulazione enorme di capitale che ha dato alla società industriale il suo volto moderno. Per tutto il periodo di espansione l'investimento produttivo è aumentato ogni anno e questo flusso di capitale, alimentando e gonfiando il tessuto produttivo, ha sostenuto gli aumenti di produttività con macchine sempre più pesanti, ma anche con mezzi di comunicazione e di pubblicità. La concorrenza ha trascinato le aziende in una corsa sfrenata verso attrezzature sempre più sofisticate e moderne, ma anche più costose.

Gli aumenti di produttività e l'accumulazione dei capitali hanno permesso una produzione di massa. Ma se i prodotti non trovassero acquirenti, i profitti non si potrebbero realizzare!

Terzo elemento chiave dell'espansione è uno sviluppo controllato del consumo popolare.

Un consumo di massa per smerciare una produzione di massa e consentire così la realizzazione di massicci profitti. Questa politica ha reso necessaria una regolamentazione sociale a più alto livello nella società: contratti collettivi, protezione sociale (disoccupazione e malattie) e pensioni permettono una relativa stabilità del consumo popolare al di là di situazioni difficili. C'è dunque contemporaneamente un salario individuale per ogni lavoratore e un salario sociale versato dal padronato nelle casse collettive sociali.

Questo aumento regolarizzato del potere d'acquisto non indica né una particolare generosità né uno spirito egualitario del sistema. Questa è stata la risposta alla crisi del 1929 e non è indipendente dalla costante pressione esercitata dai lavoratori, dalle origini del sindacalismo, per un miglioramento del tenore di vita.

In Europa, dopo il disastro della guerra, la sicurezza sociale è stata il prezzo pagato dai padroni affinché i lavoratori si impegnassero nella ricostruzione. La regolamentazione sociale ha cercato un'integrazione dei lavoratori nella cosiddetta società dei consumi: essi ricevono la loro piccola parte della espansione a scapito di un deterioramento della qualità del lavoro, un modello di vita meno miserabile ma stereotipato, un degrado reale dell'ambiente e della natura.

Il modello di sviluppo dell'espansione fu essenzialmente produttivista; non sono i desideri ed i bisogni dei consumatori che determinano la produzione, ma al contrario, è questa che domina tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana.

Il quarto elemento dell'espansione è stato l'imperialismo, ovvero il saccheggio del terzo mondo che durante il periodo dell'espansione ha permesso sia materie prime a buon mercato ed in particolare l'energia necessaria per il produttivismo industriale nelle metropoli (il valore del petrolio tra il 1958 e il 1970 scende a oltre la metà), che manodopera a buon mercato sfruttata in loco o immigrata.

I paesi colonizzati hanno visto il proprio tessuto sociale completamente distrutto: i modi di vita, le culture del Terzo Mondo sono stati soffocati dall'esportazione della cultura occidentale, l'artigianato è stato distrutto dall'arrivo massiccio di manufatti europei, le colture alimentari accantonate per sviluppare l'agricoltura cosiddetta industriale (cotone, arachidi, cacao, caffè, ecc.) necessaria ai paesi sviluppati.

Questo imperialismo ha abbandonato progressivamente il colonialismo e lo ha sostituito con forma di dominio più sottili. La decolonizzazione è stata seguita dall'instaurazione del cosiddetto aiuto allo sviluppo, cioè di servizi di cooperazione che hanno permesso di mantenere i quadri occidentali nelle amministrazioni e nell'esercito, ma questo aiuto si è soprattutto concretizzato attraverso enormi prestiti regolarmente concessi ai Paesi del Terzo Mondo dalle banche e dagli Stati occidentali. Tali prestiti sono serviti sia alla costruzione di porti, aeroporti, strade, ferrovie indispensabili all'esportazione delle materie prime minerali o agricole verso i paesi sviluppati sia a sovvenzionare l'importazione di prodotti industriali fabbricati dal Paese creditore e ancora per sovvenzionare i privilegi della borghesia e delle burocrazie locali, raramente per lo sviluppo reale dell'agricoltura e dell'industria locale. Per rimborsare questi prestiti, i Paesi del Terzo Mondo dovevano utilizzare una grossa fetta degli introiti provenienti dall'esportazione delle materie prime, impedendo così che il Paese si dotasse di mezzi finanziari necessari ad un reale sviluppo.

Questo processo di sviluppo disuguale a livello internazionale esiste pure su scala nazionale nei paesi occidentali, con minor ampiezza e modalità diverse di ritrova la stessa dinamica. LA Bretagna e l'Occitania in Francia, il Mezzogiorno in Italia, il Galles o la Scozia in Gran Bretagna, sottosviluppati, permettono un supersfruttamento dei lavoratori: bassi salari, penose condizioni di lavoro, repressione dell'attività sindacale, alti tassi di disoccupazione.

Il quinto elemento dell'espansione è stato il rafforzamento dello Stato e del suo intervento sociale ed economico.
I vari meccanismi dell'espansione non avrebbero mai potuto funzionare senza un perno centrale. L'accostamento, tacito o cosciente, di una gran parte della borghesia alle tesi di Keynes (che affermava la necessità della crescita del potere di acquisto di tutta la popolazione) sulle quali confluivano socialdemocratici e liberali, conduce al progresso sociale. La regolamentazione sociale su cui si basa tale espansione esige necessariamente l'intervento statale: la rapida accumulazione del Capitale ha trovato nello Stato il suo sostegno principale. Raccogliendo con le imposte grosse somme, ha potuto agire attivamente per sovvenzionare lo sviluppo di aziende con ambizioni nazionali ed internazionali, i pubblici appalti hanno assunto un ruolo considerevole nell'espansione.

Il Capitalismo moderno richiede lo sviluppo di attività terziarie scarsamente produttive, eppure necessarie al funzionamento globale e lo Stato si è fatto carico di una gran partesi questi servizi: comunicazioni, trasporti, sanità, ricerca, educazione, formazione.

Il dominio del Capitalismo occidentale sul Terzo Mondo ha potuto mantenersi solo a costo di un rafforzamento degli apparati militari e polizieschi. Forte di ciò, lo Stato si è considerevolmente modificato e rafforzato nel corso degli anni gloriosi dell'espansione. Lo Stato moderno ha tessuto con le imprese private una rete inestricabile di legami interattivi. Alla sua guida una tecnocrazia potente e numerosa si accaparra la gestione di parecchi stati nello Stato (i vari ministeri). Tutti questi mezzi non rispondono alle sole necessità tecniche dell'espansione: uno Stato forte, provvisto di una Amministrazione e di forze dell'ordine in esubero, garantisce prima di tutto il dominio del capitalismo su tutti gli aspetti della società e su ogni strato sociale.

Il capitalismo non è soltanto una certa forma di organizzazione della produzione, dei rapporti di produzione: essi sono prima di tutto dei rapporti di potere e di dominio e gravano sull'intera società, ben al di là delle aziende. Lo Stato assicura il perpetuarsi di un sistema di dominazione sociale, discriminante e antidemocratico.

2.1 La crisi

I meccanismi dell'espansione (o piuttosto i rapporti sociali di produzione e di dominio creati dopo la grande crisi del '29 e la seconda guerra mondiale) fornirono il quadro ideale per il grande sviluppo dei profitti fino ai primi anni '70, momento in cui i meccanismi dell'espansione si bloccarono.

La crisi fu in primo luogo l'interruzione di questa crescita galoppante. I meccanismi si bloccarono minacciando i profitti e per preservarli le classi dominanti cominciarono ad imporre sacrifici alla popolazione. Per molti anni le recessioni si susseguirono ed i periodi di ripresa furono brevi e di portata limitata. Il fenomeno è complesso. Non si può delineare la causa della crisi, unica e principale, distaccata dal suo contesto, ma si possono trovare i motivi della crisi nell'interazione di parecchie cause.

2.2 La crisi del modello di sfruttamento dei lavoratori

Sin dalla fine degli anni '60, le curve degli aumenti di produttività calarono in tutti i Paesi occidentali. Negli USA, ad esempio, la crescita della produttività passò dal 3,6% tra il 1961 ed il 1966 allo 0,9% fra il 1966 ed il 1970 ed allo 0% fra il 1970 ed il 1977. Alla radice del male una profonda crisi del lavoro.

Il fordismo ha partorito un mostro. Il lavoro così come è diretto ed organizzato, con quella sottomissione sempre più assoluta dei lavoratori alla macchina e alla gerarchia, con quella automazione pesante che ha preso il posto del sapere operaio, da una parte ha permesso subito di realizzare dei salti formidabili in fatto di produttività, ma a poco a poco la fonte si è inaridita, rivelando l'assurdità e la mostruosità del sistema.

E' in crisi la forma stessa de lavoro, disumanizzato e parcellizzato, e più profondamente di tutti i rapporti di produzione capitalisti. Schiacciando l'iniziativa e la capacità dei lavoratori, i capitalisti hanno seguito la tendenza naturale di un sistema fondato sul rapporto dirigenti - diretti.

Razionalizzazione, organizzazione scientifica del lavoro, tutto si è detto per giustificare una disumanizzazione che alla fine dei conti si è rivelata un modello di irrazionalità.

Arrivati alla fine degli anni '60, il sistema cominciò a mostrare i suoi limiti, sia in fatto di tecniche sia in fatto di organizzazione del lavoro. Il bilancio fu e rimane ancora oggi sconfortante: un imponente macchinismo, costoso, senza flessibilità, lavoratori manuali ed intellettuali demotivati. Eliminando lo spirito di iniziativa e la padronanza del lavoro da parte dei lavoratori, il capitale ha privato l'apparato produttivo della più inestimabile ricchezza. Per contraccolpo, in presenza della disfatta di una forma di lavoro assurda e odiosa, la reazione dei lavoratori si espresse con comportamenti ed atteggiamenti diversi nei confronti del lavoro e anche con le rivendicazioni che animarono le lotte degli anni '70: resistenza passiva, assenteismo, rallentamento dei ritmi, resistenza attiva e collettiva contro i ritmi di lavoro infernali.
Ai capitalisti non restava che razionalizzare di più la produzione, far calare il costo del lavoro, e se questo obiettivo fu raggiunto senza eccessivi problemi in Giappone e in misura minore negli USA, la stessa cosa non avvenne in Europa dove esso si scontrò con i rapporti sociali sviluppatisi durante l'espansione: i salariati avevano raggiunto una forza impressionante all'interno della società (l'80% della popolazione attiva), erano inquadrati in sindacati riconosciuti e protetti dalla legislazione sociale.

La regolamentazione sociale impose al padronato dei vincoli, quegli stessi vincoli che, necessari allo sviluppo dei profitti nei ricchi giorni dell'espansione, si trasformarono con la crisi in ostacoli. La forza dei lavoratori, al suo apogeo con lo sciopero generale del maggio 1968 in Francia e in Italia, pesò in maniera determinante.

Bisogna attendere il 1976 per imporre l'austerità su scala nazionale e con quella il calo sensibile del potere d'acquisto dei salariati. I contributi previdenziali, lungi dal diminuire, diventarono sempre più pesanti per la crisi e per l'aumento dei disoccupati e delle persone inattive (pensionati, giovani). Sin dall'inizio della crisi la forza dei lavoratori e i contributi previdenziali divennero le bestie nere del padronato che ingaggiò una lotta a tutto campo per frantumare la forza dei lavoratori: offensive anti-sindacali, creazione di filiali per sfuggire le concentrazioni operaie, ridefinizione dei rapporti sociali, frantumazione del fronte operaio.

Lo stato sociale diventò il bersaglio privilegiato del liberalismo ed ogni forma di protezione e si sussidiarietà fu posta nel mirino. Con lo sviluppo della crisi, la produttività diminuì ancora di più a causa della commesse irregolari, delle capacità di produzione sotto impiegate e del numero degli effettivi mantenuti per cui, allo scopo di migliorare la produttività, il padronato ricercò un ammorbidimento dello Statuto dei Lavoratori...(assunti e licenziati a seconda delle necessità): ecco la precarietà; ed un ammorbidimento nell'impiego della forza lavoro all'interno della fabbrica (part-time, cassa integrazione, assunzione a tempo determinato): ecco la flessibilità.

2.3 La crisi del capitale

L'accumulazione costante ed intensa dei mezzi di produzione è un carattere costante del capitale, così negli ultimi tempi della crescita furono investiti capitali sempre più considerevoli, ma sempre meno redditizi. In Francia dal 1967 al 1973 gli investimenti aumentano del 53%, ma la produttività solo del 4,1%. Il capitale diventa sempre meno redditizio.
Il capitale moderno ha bisogno di una moltitudine di servizi, finanziari, pubblicitari, legati alla formazione professionale, al tempo libero ed alla sanità; tali attività scarsamente produttive richiedono una massa ingente di capitali prelevati dai profitti. Negli USA, su oltre 36,7 milioni di posti di lavoro creati tra il 1960 ed il 1978, l'89,6% lo sono stati nel terziario. L'accumulazione capitalista è stata minata da queste attività terziarie il cui sviluppo è, comunque, il prodotto ed uno degli strumenti dell'espansione. Gli investimenti produttivi regredirono e l'espansione si fermò, non ci furono più nuovi posti di lavoro, le aziende ristrutturavano, licenziavano, chiudevano. Per recuperare i propri margini di profitto, i padroni intervennero sui prezzi (inflazione) e sui salari. La spesa pubblica venne messa sotto tiro e i funzionari esposti alla pubblica vendetta.

La dinamica dell'espansione aprì anche la strada alla internazionalizzazione del capitale che consistette nella centralizzazione e accorpamento di medie imprese in grandi gruppi con ambizioni internazionali, nel sostegno dello Stato alle industrie mediante una politica di aiuti e di sovvenzioni e nella apertura dei mercati (nel 1969 si costituisce la CEE). L'area nazionale si rivelò troppo angusta per i settori del capitale in ascesa e così si svilupparono le multinazionali. L'internazionalizzazione permise di sfuggire ai vincoli della regolamentazione sociale che amministra i rapporti all'interno dell'ambito nazionale e il legame tra potere d'acquisto e produzione di massa fu aggirato nel momento in cui i prodotti non vennero più destinati al mercato interno.

Le multinazionali, inoltre, potevano scegliere i luoghi dove i lavoratori erano più deboli per l'impianto delle proprie aziende e l'internazionalizzazione consentiva pure di intensificare alcune produzioni, attraverso la divisione internazionale del lavoro.

Infine venne la politica dei settori portanti: la produzione nazionale venne sacrificata a vantaggio di quelle priorità giudicate più redditizie su scala mondiale. Tali scelte furono redditizie a breve termine per ogni multinazionale, ma aggravavano la crisi: in ogni paese interi settori di ciascuna economia nazionale vennero sacrificati tramite massicci licenziamenti.

L'economia di ogni paese divenne così più sensibile ai vincoli esterni, i consumi si avviarono verso prodotti di importazione e il rilancio dei consumi popolari incrementò le importazioni. Questa disarticolazione produzione/consumi contribuì ad un calo del controllo operaio sulla produzione.

Con lo sviluppo della crisi si accentua la tendenza: l'accanita concorrenza dei grandi gruppi nel ristretto mercato mondiale provocò una valanga di ristrutturazioni. Ogni economia nazionale aveva creduto di poter esportare la propria crisi nel mercato mondiale, ma incontrò una concorrenza selvaggia e fattori moltiplicatori della propria crisi interna.

L'espansione aveva reso necessario in flusso straordinario di capitali e l'inflazione accompagnò tutti gli anni gloriosi, li ha finanziati portando credito a buon mercato, stimolando investimenti ed acquisti. Ma verso la fine degli anni '60 il sistema impazzì: iniziò la crisi finanziaria del capitale e l'inflazione.

Nell'intento di recuperare i loro margini di profitto, i capitalisti sono intervenuti sui prezzi aumentandoli e questo creò un'inflazione galoppante. L'aumento del prezzo del petrolio dal 1974 in poi e la speculazione hanno fatto il resto.

Sotto i colpi della crisi il fragile equilibrio finanziario dei Paesi del Terzo Mondo è crollato: i prestiti concessi in abbondanza dalle banche occidentali nel periodo di espansione implicarono poi rimborsi impossibili. Infatti per taluni Paesi dell'Africa e dell'America Latina il semplice rimborso degli interessi va oltre la metà delle risorse delle loro esportazioni. Le difficoltà di pagamento, addirittura l'interruzione dei pagamenti, provocarono crisi fino al cuore degli stessi Stati Uniti, il cui governo fu costretto a comprare banche messe in fallimento dai conti con il Terzo Mondo.

Il dollaro, dichiarato inconvertibile in oro, rimase la sola moneta di riferimento su scala mondiale, ma gli USA finanziarono il crescente indebitamento delle economie occidentali e dei Paesi del Terzo Mondo facendo funzionare allegramente la Zecca, in una economia ogni giorno più internazionalizzata e dominata dai dollari, in cui i valori delle monete fluttuano ad ogni colpo di vento; enormi capitali vengono guidati da speculatori.

Con la crisi galoppante, la speculazione è diventata decisamente più redditizia degli interventi produttivi. Il capitalismo finanziario diventa padrone della situazione. Negli USA si impose il monetarismo di Reagan: priorità assoluta fu data alla lotta contro l'inflazione e salì il tasso di sconto; vennero favoriti i prestatori, paralizzata la produzione. Essa scese dell'11,5% negli USA fra il luglio del 1981 ed il novembre del 1982, mentre la disoccupazione salì dal 7 al 10,8%. Vennero adottate sanzioni nei confronti dei Paesi debitori e il Terzo Mondo venne dissanguato.

2.4 Un mercato saturo

Secondo le buone ricette dell'espansione, il mercato, per assorbire una quantità sempre crescente di profitti, deve allargarsi allo stesso ritmo, ma si frapposero ostacoli imprevisti.

Prima di tutto i consumi popolari si andarono lentamente trasformando: in Francia, il mercato degli elettrodomestici, il cui boom aveva sostenuto i tempi d'oro dell'industria, finì coll'essere saturato. Non si acquistano i frigoriferi per ogni famiglia.

Il rapporto discriminante, imperialista, in un primo tempo ha favorito l'espansione, ma limitandosi al saccheggio delle risorse del Terzo Mondo, aveva lasciato le popolazioni dominate nell'incapacità di accedere al mondo dei consumi. La concorrenza internazionale si scontrò in un mercato mondiale troppo piccolo: i paesi sviluppati sono saturi, gli altri sono insolvibili.

Con lo sviluppo della crisi il fenomeno si aggravò. La disoccupazione e gli attacchi al potere d'acquisto accelerarono il restringimento del mercato interno, provocando ancora la chiusura di altre aziende: una spirale infernale.

2.5 Una crisi ecologica

Le distruzioni dell'ambiente hanno il loro peso nell'aggravarsi della crisi: gli investimenti indispensabili per non provocare catastrofi a brevissimo termine si sono sommati, come un peso morto, al già crescente costo delle nuove tecnologie.

I paesi sviluppati hanno raggiunto formidabili traguardi tecnici, tuttavia le tecniche industriali, agricole, sono state messe a punto all'interno di una ideologia produttivista; si ricerca solo l'aumento della redditività e ciò dovrebbe, per così dire, assicurare ineluttabilmente il progresso. Così come il lavoratore subisce i danni dovuti all'organizzazione del lavoro, l'ambiente viene distrutto a poco a poco dall'industria e dall'agricoltura chimica.

Piogge acide, avvelenamenti del suolo, inquinamento dei fiumi e dei mari, inquinamento dell'aria, radiazioni radioattive, scomparsa di specie animali e vegetali sempre più frequenti.

Questi colpi inferti all'ambiente sono drammatici per il futuro dell'umanità.

Le scelte tecnologiche che le classi dominanti continuano a portare avanti (sviluppo gigantesco del turbonucleare e marginalizzazioni delle ricerche sulle energie dolci, per esempio) fanno parte della folle logica dello sviluppo esponenziale. Tali orientamenti decisi di comune accordo dai governi di qualsiasi colore e dalle multinazionali, non sono gli unici possibili, tuttavia ognuna di queste scelte rende più potenti contemporaneamente le multinazionali e le strutture statali. La spiegazione del proseguimento irrazionale delle opzioni tecnologiche sembra trovare proprio qui la sua origine.

Il moltiplicarsi delle catastrofi industriali (incidenti di superpetroliere, centrali nucleari come Chernobyl in URSS, diossina a Severo, catastrofe di Bhopal in India), ma anche le massicce distruzioni delle foreste in Europa a causa delle piogge acide e la rovina dei terreni dovuta alla agricoltura chimica, sono altrettanti fattori che a breve termine costringeranno i capitalisti ad intervenire con costosi investimenti se si vuole porre un limite all'inquinamento.

2.6 Lo Stato in crisi

Vedere il discussione il ruolo dello Stato in quanto regolatore sociale è uno degli aspetti di una serie di tensioni attorno all'apparato statale: l'internazionalizzazione è entrata a poco a poco in contraddizione con il quadro nazionale degli Stati che hanno sovvenzionato questo sviluppo. In Europa il frazionamento in Stati nazionali è diventato un ostacolo allo sviluppo del capitale e parallelamente le multinazionali sfuggono in parte al controllo degli Stati; sono diventate, senza rompere i legami con i loro Paesi di origine, degli imperi transnazionali che muovono cifre d'affari paragonabili al prodotto interno di molti paesi.

Con l'espansione il capitalismo ha visto nascere potentissimi gruppi, ma ciò non ha prodotto solidarietà. Al contrario, le divisioni fra i diversi settori della borghesia sono cresciute: fra capitale nazionale e internazionale, fra capitale finanziario e capitale produttivo. Più si è avvicinata la crisi e più le contraddizioni si sono sviluppate. Il personale politico della "destra" (cioè della classe politica dominante) sponsorizzato da centri di potere economico, la tecnocrazia statale strettamente legata alla borghesia, subiscono i contraccolpi delle guerre interne del capitalismo fino al maggio '68, quando la Destra si troverà sorpassata dagli avvenimenti sociali non solo per la loro ampiezza, ma anche per la propria destrutturazione.

La concentrazione del capitalismo aveva provocato il crollo degli strati sociali sui quali tradizionalmente si reggeva la Destra. In 20 anni il numero degli industriali si era dimezzato, i coltivatori diretti erano calati dal 20,7% al 7,6% della popolazione attiva, i piccoli commercianti dal 6,5 % al 4,2%, gli artigiani dal 4% al 2,5%,... i nuovi ceti medi salariati (quadri, insegnanti, tecnici) respinti dalle alte sfere del potere, occupavano una posizione subalterna nelle grandi aziende capitaliste e nello Stato, pertanto non sono cooptati, non si sostituiscono ai vecchi supporti della Destra.

La crisi metterà in luce la profonda contraddizione fra le evoluzioni della società e le culture politiche, fra l'ascesa di un capitalismo sopranazionale, contemporaneamente potente ed ultraminoritario, ed il funzionamento tecnocratico delle istituzioni che richiede un consenso maggioritario. Problemi per la borghesia: ritrovare un minimo di coesione, catturare il consenso dei nuovi ceti medi salariati, tanto più che alla base della società, negli anni '60 e '70, i lavoratori ed i giovani sono terribilmente irrequieti.

Durante i primi anni della crisi, le forze rappresentate dai lavoratori, dai giovani e dai ceti medi frustrati hanno costruito attorno allo Stato e agli organismi repressivi (polizia, giustizia, forze armate) una vigorosa contestazione anti-accentratrice ed anti-autoritaria. Durante gli anni '70 il sistema dei valori della borghesia è profondamente scosso, le istituzioni messe a nudo, la classe politica destabilizzata. Questa crisi di autorità assieme alla perdita di un assetto sociale per la Destra, contraddistinguono i primi anni della crisi.

Sarà molto più tardi che il riflusso delle lotte e poi i governi di centro-sinistra consentiranno di ridare autorità morale allo Stato. Divenuto l'oggetto di un attacco da parte dei neoliberali, non gli si rimprovererà più di dominare la società, ma le aziende.

2.7 Una crisi profonda e rivelatrice

Come abbiamo visto non esiste una sola causa della crisi, ma un processo complesso all'interno del quale ogni elemento trascina gli altri in una spirale vertiginosa. I rapporti sociali che hanno fornito il quadro ideale per l'espansione hanno progressivamente evidenziato i loro limiti. Noi non pensiamo che ciò sia una semplice crisi di sovrapproduzione, non che questo fattore non esista, ma ciò non deve mascherare una realtà molto più complessa: sono TUTTI i rapporti di potere del sistema che sono in crisi. La crisi consiste nel blocco di questi rapporti e dei meccanismi dell'espansione.
Ma la crisi è determinata anche dalle risposte che le classi dirigenti tentano di dare. Esse devono trovare i termini di una nuova fase di espansione, sbarazzandosi degli impedimenti e costituendo dunque nuovi rapporti di potere più o meno diversi dai vecchi, articolati ricorrendo a nuove tecnologie.

La crisi è anche un lungo periodo di mutamenti sociali. Una specie di auto-rivoluzione dei sistema, portata avanti a livello microeconomico da ogni dirigente aziendale, e a livello macroeconomico con il sostegno dei governi. Con la crisi è in gioco la trasformazione della società. Una trasformazione è certo diventata ineluttabile per via del blocco dei vecchi meccanismi, però il futuro dipende dalla logica di produzione adottata,...da nuovi valori sociali, dagli interessi assunti come prioritari, in breve dai rapporti di forza tra le varie componenti della società.

Dei mutamenti sembrano inevitabili. Ma non per forza nella forma attuale.

La violenza dei cambiamenti è proporzionale alle necessità del capitale. Questi mutamenti contengono fattori che aggravano la crisi economica e la situazione sociale. Il capitalismo tenta di dominare l'attuale situazione attaccando i diritti dei lavoratori, l'assistenza sociale, imponendo flessibilità e precarietà, ma tutto ciò significa contrazione dei mercati interni... e deterioramento della situazione internazionale. Le multinazionali si danno un nuovo assetto economico internazionale nel quale gli investimenti vengono orientati, nei Paesi Occidentali, verso i vettori portanti e nel Terzo Mondo verso industrie più classiche con alta presenza di manodopera, intere regioni vengono sinistrate. Il FMI riduce... i prestiti ai paesi del Terzo Mondo e impone drastiche misure di austerità favorendo ancora di più le crisi economiche sociali.

La società capitalista è per natura dominata da una classe dirigente i cui interessi non coincidono con quelli della popolazione. Tale contraddizione fra gli interessi dei gruppi al potere e la collettività, mascherati durante l'espansione, diventa evidente con la crisi.

Il progresso ha provocato il degrado sociale, la mancanza di prospettiva per i giovani, il sottoimpiego delle capacità produttive in contrasto con l'aumento della miseria, l'espulsione di milioni di lavoratori dalle aziende, la disarticolazione tra l'apparato produttivo di ciascuna nazione ed i consumi popolari, il degrado dell'ambiente, il capitalismo finanziario che privilegia le speculazioni a scapito degli investimenti produttivi: tutto ciò concorre a dimostrare la brutalità e l'assurdità di questo sistema, l'antagonismo tra capitalismo e società.

3.1 La crisi all'Est

Molte generazioni di militanti operai sono state forgiate all'idea che il mondo è diviso in due schieramenti: il capitalismo ed il socialismo, lo schieramento del profitto e quello dei lavoratori che in URSS, in Cina, in Europa Centrale e a Cuba stanno edificando una società nuova, egualitaria e libera.

Il mito è crollato sotto i colpi delle rivolte operaie di Berlino nel 1953, di Budapest nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968, della Polonia nel 1970 e nel 1990 e con la rivoluzione gorbacioviana del 1989.

La lotta di classe esiste anche all'Est, solo che lì la gestione del capitale è concentrata nelle mani di un unico trust, l'apparato statale, mentre all'Ovest essa è spezzettata in una moltitudine di aziende. La differenza è enorme. La struttura del potere, le modalità delle decisioni, le contingenze che gravano sulle scelte economiche sono differenti.

Ma in entrambi i tipi di società, il potere decisionale (spezzettato o concentrato) appartiene di fatto all'apparato statale o ai dirigenti di azienda, non alla collettività, in entrambi i casi esistono ristretti strati sociali che decidono. Queste classi sono composte all'Est dagli alti quadri dello Stato e del Partito, all'Ovest dai detentori del capitale e dai tecnocrati, esse hanno nello stesso tempo somiglianze e differenze invece alla base della società, sia all'Est che all'Ovest, ritroviamo operai ed impiegati che costituiscono una classe sociale nettamente caratterizzata: lavoratori senza nessun potere sulla produzione, sulla ripartizione delle ricchezze prodotte e sulla società.

La taylorizzazione del lavoro è il motore dello sviluppo industriale anche nei Paesi dell'Est, imposto sin dai primi anni di vita dello Stato sovietico da Lenin e da Trotsky, affascinato dai nuovi metodi americani; il taylorismo ha permesso al regime burocratico una dominazione scientifica dei lavoratori, portando l'URSS al rango di potenza mondiale.

All'Est, con forme proprie, si sviluppa la crisi e provoca la nascita di forme di resistenza operaia e talvolta di lotte sindacali.

La crisi del lavoro taylorizzato è presente anche all'Est e colpisce la produttività e la vitalità economica dei Paesi detti socialisti, le ripercussioni provocate dalla taylorizzazione e dalla statalizzazione del complesso delle attività sociali su tutta la società sono sotto gli occhi di tutti: generale demotivazione dei lavoratori intellettuali e manuali, sprechi e assurdità di ogni genere nella gestione dell'economia. Le strutture ipergerarchizzate e la militarizzazione del lavoro, una versione dura del taylorismo, hanno permesso in un primo tempo all'URSS ed ai propri omologhi di colmare in parte il ritardo, in una logica produttivista che dava priorità all'industria pesante e solo in secondo luogo rispondeva ai bisogni della gente. Le ricette dello sviluppo burocratico hanno rivelato a poco a poco i propri limiti. Le società socialiste sono diventate grandi corpi paralizzati, dai quali emergono apparati militarizzati, ipertrofici che impongono uno squilibrio pericoloso per lo sviluppo delle società stesse.

Il secondo fattore che provoca la crisi all'Est proviene dalla disparità che si manifesta nello sviluppo di queste società nei confronti del capitalismo occidentale. Da qui nasce un certo legame di dipendenza, in special modo nei Pesi satelliti, che cresce con la crisi e con la pressione costantemente esercitata dall'imperialismo americano.

4.1 Il mondo dilaniato dagli imperialismi

La divisione del mondo in due blocchi antagonisti, Est ed Ovest, non deve nascondere una realtà infinitamente più complessa, dato che da un lato questi due blocchi collaborano economicamente mentre dall'altro ognuno di essi presenta al suo interno numerose contraddizioni e conflitti: Stati contro Stati, Stati contro multinazionali.

Il blocco dell'Ovest è costituito introno agli USA, forza militare dominante che, tramite il dollaro, detiene il controllo degli scambi economici internazionali. Attorno agli USA gravitano Paesi in possesso di una infrastruttura industriale completa e di tecniche avanzatissime: Europa, Giappone. Australia, Canada. Sud Africa ed Israele.

Questi paesi, pur serbando una certa autonomia politica, sono comunque allineati agli USA. La ristrutturazione dell'economia mondiale ha conseguenze importanti nei suddetti Paesi e si estrinseca, tra l'altro, con lo smantellamento dei settori industriali ad alto tasso di manodopera, a vantaggio delle nuove tecnologie.

Al di là di questo polo molto sviluppato, il Terzo Mondo raggruppa la maggior parte dei Paesi del pianeta. Alcuni di essi (Corea del Sud, Singapore, Hong Kong, Paesi Arabi) sono riusciti a costruirsi un ragguardevole assetto finanziario e persino un significativo tessuto industriale, tuttavia la loro economia rimane incompleta, spesso dominata dai capitali dei Paesi sviluppati e sotto la dipendenza delle esportazioni. Gli altri paesi invece hanno l'unica funzione di produrre materie prime industriali ed agricole e la popolazione vive in condizioni di estremo bisogno.

Il blocco dell'Est è costituito attorno all'URSS. Esso è diventato una potenza mondiale soltanto grazie ad un imperialismo interno alle frontiere ereditate dallo varismo; gli accordi di Yalta gli hanno permesso di estendere il suo dominio sull'Europa dell'Est. In concorrenza economica e politica con il blocco occidentale, l'URSS ha esteso la sua influenza su alcuni paesi del Terzo Mondo facilitando le lotte di liberazione nazionale, installando burocrazie la cui sopravvivenza economica e politica dipende dal sostegno di Mosca (Yemen del Sud, Etiopia, Cuba, Corea del Nord, Vietnam, Afghanistan, Angola) e contemporaneamente mantiene un'alleanza con Paesi in lotta contro gli USA (Libia e Siria).

Numerosi Paesi del Terzo Mondo, i cui regimi sono storicamente nati da lotte popolari, mantengono con i due blocchi relazioni più complesse (Algeria, Nicaragua, Mozambico, Cina) e cercano di ottenere da entrambi aiuti economici. A causa della debolezza economica del blocco dell'Est, questi Paesi dipendono in maniera considerevole da quelli occidentali. Ciò può sembrare avventato per quanto riguarda la Cina, però rileviamo da parte sua sia un riavvicinamento a Mosca sia l'apertura ai capitali occidentali.

4.2 L'opera civilizzatrice dell'occidente cristiano

Sin dall'inizio lo sviluppo del capitalismo è legato alla conquiste militari in Asia e in Africa e alle sudditanze economiche e culturali dei Paesi colonizzati. In seguito, le lotte popolari nel Terzo Mondo hanno segnato la fine degli imperi coloniali e hanno dato all'imperialismo l'aspetto odierno.

Piuttosto che controllare direttamente un territorio coloniale, i Paesi occidentali hanno messo al potere ovunque possibile delle caste originate dalle vecchie classi dominanti con interessi economici intimamente legati alla perpetuazione della dominazione occidentale.

Mentre il saccheggio delle materie prime continua, tende a stabilirsi una nuova divisione del lavoro legata, in particolare, all'indipendenza sempre più ampia del capitale nei confronti della sua nazionalità di provenienza. Oggi le multinazionali costruiscono nei Paesi meno sviluppati, dove la manodopera è meno cara, le industrie con bassi tassi di reddito: tessile, siderurgica, componentistica elettrica e conseguentemente questi Paesi si ritrovano sempre più legati al mercato mondiale, dipendenti dal capitale straniero e se l'industrializzazione di Paesi come la Corea del Sud, Taiwan, Brasile, Messico, Hong Kong, è stata possibile durante l'ultimo periodo di crescita mondiale e se questa continua all'inizio della crisi, ciò è dovuto alla nuova divisione del lavoro. La loro industria è basata sulla produzione per l'esportazione in occidente, sono quindi Paesi ad economia dipendente ed artificiale.

4.3 La liberazione dei popoli tramite il "socialismo"

L'imperialismo non è appannaggio del mondo libero: il potere bolscevico ha costruito l'industrializzazione in URSS grazie ad una politica economica analoga a quella dei Paesi capitalisti occidentali nei confronti del Terzo Mondo. Dopo Yalta, la politica condotta nei Paesi dell'Est è imposta dall'URSS che dirige la pianificazione economica in base ai propri interessi economici. Gli scambi commerciali avvengono esclusivamente in rubli e per di più essi hanno regole politiche ben precise, tanto è vero che l'URSS vende ai Paesi satelliti minerale di ferro più caro dell'80% del prezzo praticato alla Germania Federale.

Gli scambi avvengono soprattutto in questo modo: materie prime e prodotti semilavorati verso l'URSS, manufatti verso i Paesi satelliti. Nello stesso modo ha imposto a Cuba la monocoltura della canna da zucchero per tempi illimitati. Attraverso la banca internazionale di sostegno, essa può anche controllare la circolazione dei capitali nel blocco socialista.

4.4 I Paesi destrutturati

Sotto il dominio imperialista i Paesi non industrializzati hanno visto le loro strutture economiche e sociali totalmente destrutturate; esse hanno caratteristiche sia feudali sia capitaliste, la maggioranza della popolazione non è composta da salariati ma da contadini sottoposti, a livelli diversi, ai soprusi dei proprietari terrieri (semifeudali e semicapitalisti), dei mercanti usurai e delle burocrazie repressive e militari. Anche vivendo lontani dalla produzione, quei contadini subiscono gli effetti devastanti della fluttuazione dei prezzi delle materie prime tramite gli effetti globali sull'economia nazionale.

Nel momento della sua penetrazione coloniale, il capitale straniero si è alleato alle classi dominanti indigene, composte il più delle volte da proprietari terrieri, da mercanti ed usurai. I popoli oppressi hanno vissuto la distruzione dell'artigianato locale, provocata dall'invasione dei manufatti dei Paesi industriali, la distruzione delle colture ad uso alimentare in favore di quelle a scopi industriali, necessarie ai Paesi occidentali, l'installazione di industrie complementari a quelle dei Paesi industrializzati o destinate all'esportazione. Coloro che beneficiano di questa situazione (cioè le vecchie classi dominanti rimesse al potere al momento della decolonizzazione) sono fortemente legati agli interessi occidentali.

4.5 Lotte di liberazione nazionale

Il dominio dei Paesi industrializzati sul resto del mondo si accompagna con il moltiplicarsi di ingiustizie, di violenza, di repressione, di miseria, di sconvolgimenti sociali, economici e culturali.

Qualunque sia la forma di potere imposta dal Paese dominante, prima o poi essi finiranno con il ribellarsi, rivendicando la propria dignità e la propria libertà. Ogni lotta di liberazione nazionale è specifica e si inserisce all'interno di una cultura, di una storia e di una tradizione propria.

Certe lotte all'interno dei Paesi sviluppati (Irlanda del Nord, per esempio) si avvicinano fortemente a questo schema. L'esempio dell'Africa è edificante: questo continente è stato colonizzato soprattutto da Inglesi e Francesi, poi decolonizzato verso la fine degli anni '50, inizio anni '60. Però tanto la Francia che l'Inghilterra hanno imposto la creazione di una moltitudine di Stati le cui frontiere altro non sono che l'eredità dell'amministrazione coloniale. Questa decolonizzazione ha preso in considerazione solo gli interessi economici della potenza imperialista ed ha giocato sulle contraddizioni etniche presenti nei vari Stati (lotta di potere interno) allo scopo di mantenere la vecchia dominazione.
La colonizzazione è stata talvolta accompagnata dall'esilio forzato di gran parte della popolazione (qualche volta a seguito di genocidio), come per gli armeni ed i palestinesi.

Alcuni popoli uniti da una storia, una cultura e comuni tradizioni sono divisi da frontiere statali. Essi rivendicano allora, nelle loro lotte, la riunificazione e l'autonomia del proprio popolo (Kurdistan).

Le lotte di liberazione nazionale specificatamente dirette contro gli imperialismi (intervento militare di questi ultimi), ieri in Vietnam, oggi in Afghanistan ed in America Centrale, hanno avuto come detonatore la contestazione di governi fantoccio insediati e mantenuti dagli imperialismi.

Ma esistono altre forme di dominazione sia all'interno degli Stati occidentali che in taluni Paesi decolonizzati. All'interno degli Stati imperialisti queste lotte esistono in gran numero (in Francia, la Bretagna, i Paesi Baschi, la Corsica, ecc.). Al contrario delle altre lotte di liberazione, l'integrazione delle popolazioni in seno allo stesso Paese è stata effettuata, in modo brutale o meno, da molte generazioni, integrazione dovuta a spostamenti dei lavoratori (migrazioni di popolazioni verso i grandi centri industriali), ad una fusione delle popolazioni, ad una storia ed esperienze comuni ai lavoratori qualunque fossero le loro origini. In queste lotte di liberazione, la riappropriazione dell'autonomia culturale nazionale gioca un ruolo fondamentale. Tale forma di lotta più specifica esiste anche nei Paesi che avevano già vissuto un processo di lotte anticoloniale o anti-imperialista, essendo il dopo indipendenza sfociato nella creazione di un capitalismo nazionale, il più delle volte sotto forma di capitalismo di Stato, che schiaccia le varie minoranze che vivono in questi Paesi, anche se le stesse avevano partecipato alla precedente lotta di liberazione (l'Algeria e la Kabilia, l'Etiopia e l'Eritrea).

4.6 L'ascesa dei movimenti religiosi

I popoli del Terzo Mondo, dominati dagli imperialismi che impongono loro i propri valori ed i propri modelli di vita, vivono una profonda crisi di identità culturale resa ancor più grave dalla crisi economica e dalla miseria e dal crollo dei movimenti politici anti-imperialistici, di matrice marxista o socialista. Molti vanno alla ricerca delle proprie radici e identità tramite le varie correnti religiose ed in particolar modo l'Islam, ma si assiste in egual misura ad una rimonta del cattolicesimo in numerosi punti del globo.

In assenza di prospettive, di fronte alla crisi, molti trovano rifugio nei valori tradizionali, alimentando così lo sviluppo del fenomeno religioso, tanto nelle sue forme classiche quanto in quella del moltiplicarsi delle sette.

4.7 Verso una terza guerra mondiale?

All'interno del contesto mondiale di estrema tensione si assiste ad un incremento dei bilanci militari e ad un riaffermarsi delle industrie belliche.

I conflitti armati sono stati agevolati dall'aumento della produzione bellica dei Paesi industriali, aumento sempre ricercato, in periodi di crisi, dagli Stati capitalistici nell'intento di rilanciare l'economia.

Alcuni traggono profitto dalla corsa al riarmo e la incoraggiano; si alleano tra loro i complessi militar-industriali, ove troviamo industriali, militari e uomini politici. Negli USA, il complesso militar-industriale raggruppa il Dipartimento della Difesa, alcuni gruppi di pressione al Congresso, i fabbricanti d'armi, istituzioni universitarie impegnate nella ricerca.
Esiste anche nell'URSS un gruppo di pressione simile.

La minaccia di conflitto nucleare e il condizionamento dell'opinione pubblica di fronte alla guerra portano ad una reazione manifestatasi con l'apparire del movimento pacifista, un movimento dalle origini profonde che si è esteso in questi ultimi anni, di fronte alla minaccia di un conflitto ed all'installazione degli euromissili. Un movimento di grande portata: in RFT ed in Olanda, ma anche in Italia e in Spagna, che nasce da una reale aspirazione alla pace e al disarmo, ma che può, nel caso con trovasse prospettive politiche in direzione anticapitalistica e autogestionaria, cadere sia in fase di stanca e perdere il suo ruolo antagonista, sia venire usato in senso contrario: fare il gioco di un blocco contro l'altro.

Soluzione radicale alla crisi dei tempi moderni o semplicemente conseguenza della dinamica del super-armamento, una terza guerra mondiale non è impossibile. Le potenze hanno accumulato già i mezzi per radere al suolo parecchie volte la superficie del pianeta.

Mai nel corso della storia, dei dirigenti hanno concentrato un potere così esorbitante quanto quello dei capi di Stato russi, americani ed europei: quello di vita o di morte dell'intera umanità. La dinamica del potere separato dalla società ha dunque raggiunto la vetta insormontabile dell'assurdo e dell'ignobile: dunque il pianeta intero che sprofonda in una crisi dalle molteplici ricadute. Una crisi che copre gli anni '70, gli anni '80 e forse tutto a parte degli anni '90. Essa supera in ampiezza ed in profondità la grande crisi degli anni '30.

5.1 Il progetto neo-liberale

Le crisi cicliche che colpiscono il sistema già permettono di rigenerarsi rompendo i rami secchi e sostituendo dei rapporti sociali obsoleti con forme nuove di organizzazione sociali e questo è quanto sta succedendo oggi. Il capitalismo cerca i presupposti per una nuova fase di crescita con un profondo rimodellamento dei rapporti sociali, articolato mediante l'impiego delle nuove tecnologie. Sta cambiando la società, senza di noi, contro di noi.

Per progetto neo-liberale si intende il tipo di società verso cui noi andremo se nessun movimento di lotta facesse flettere il corso della storia. L'avvenire, così come lo prepara tutta una corrente di idee "neo-liberali", si rintraccia nelle politiche attuali della Destra e della Sinistra.

Le classi dirigenti che dichiarano di avere la padronanza delle evoluzioni in corso sono in realtà anch'esse gli oggetti di un processo di crisi che le supera di gran lunga, infatti conducono la barca, non la corrente.

Il progetto "neo-liberale" nasconde malamente l'impotenza a risolvere la crisi, ma indica anche la risolutezza della nostra classe dirigente a sacrificare gli interessi della popolazione allo scopo di preservare i propri privilegi mentre risulta evidente che per far regredire la disoccupazione ci sarebbe bisogno di trasformazioni sociali che intacchino detti privilegi.

Il progetto "neo-liberale", multiforme, con le sue varianti di destra e di sinistra, è il futuro che ci si vuole imporre.

5.2 La trasformazione del lavoro e lo sviluppo delle nuove tecnologie

La concorrenza, esacerbata dalla crisi, impone ai padroni la ricerca a qualsiasi prezzo di un aumento di produttività. Essi ricorrono, per talune attività selezionate, a forme nuove di organizzazione del lavoro atte a correggere i misfatti del Taylorismo: prima di tutto assistiamo al raggruppamento di mansioni, all'abbandono dello sminuzzamento del lavoro, ad unità lavorative più flessibili con maggiore polivalenza. Nel complesso un'attività più motivante, più mobilitante.

In secondo luogo, per essere competitivo a livello internazionale specialmente nei confronti del Giappone e degli USA, il capitale sviluppa nuovi mezzi tecnologici: informatica, robotica, burotica. Questi mezzi tecnologici rivestono un doppio vantaggio: richiedono un numero limitato di lavoratori da assumere per far funzionare le macchine e aumentano la produttività, poiché la macchina produce con maggiore rapidità e può lavorare 24 ore su 24. Questo permette, a medio termine, una crescita senza precedenti dei profitti padronali.

Le nuove tecnologie danno anche origine ad altro: si aggrava la disoccupazione perché si sostituiscono dei dipendenti con delle macchine, c'è una perdita progressiva del controllo della produzione e dell'abilità professionale dei lavoratori e, soprattutto a livello giovanile, diventa "stabile" la precarietà del lavoro. L'utilizzo più "razionale" del tempo di presenza dei salariati rende precario il lavoro di una quota importante di lavoratori e provoca lo sviluppo degli impieghi a tempo determinato, dei contratti ad interim, dei sotto-appalti, limitando la remunerazione al minimo.

5.3 La società a "velocità multiple"

Mentre una minoranza di operai, di impiegati e di tecnici in settori di punta della produzione vedrebbero il loro habitat valorizzato (migliore qualità del lavoro, approfondita formazione, ecc.), la maggioranza dei lavoratori verrebbe accantonata in compiti di "carbonai moderni" o relegata e condannata alla precarietà a vita, divisa fra la disoccupazione e impieghi a tempo determinato senza alcuna garanzia.

I vantaggi per il sistema sono flagranti: una parte, quella meglio qualificata dei salariati, verrebbe integrata nell'azienda, mentre l'estesa precarietà consentirebbe un calo sensibile del costo del resto della manodopera (bassi salari, dipendenti assunti o respinti in funzione delle fluttuazioni dei bisogni padronali), un indebolimento del sindacalismo di classe, aggirato dalle "aree di qualità" nella produzione, è colpito dalla destrutturazione della massa dei lavoratori, un regresso del diritto sindacale e dei diritti collettivi ed individuali e un ammorbidimento totale degli obblighi sociali che pesano sul padronato: destrutturazione da un lato, integrazione dall'altro.

Sganciare i salari dall'aumento del costo della vita e diminuire gli effettivi significa calo dei salari diretti mentre abbassare le prestazioni sociali e di conseguenza i contributi padronali porta al calo del salario sociale.

Contemporaneamente a queste disuguaglianze sociali verrebbero riequilibrati i consumi nella società a velocità multipla: certi strati della popolazione con un potere d'acquisto rivalutato (operai altamente qualificati) assumerebbero il carico essenziale del mercato, il tipo di produzione favorito dalle nuove tecnologie sarebbe adattato a questo riequilibrio: gadgets tecnico culturali (computer domestici, telematica) e produzione "di alto livello" elaborata a piccole serie nelle unità di monitoraggio robotizzate.

Il tessuto industriale sarebbe composto così da un settore di punta, a forte accumulo di capitale, al alto profitto e concentrato su settori portanti del mercato internazionale, e da un ambiente di piccole e medie industrie che assorbono le attività meno redditizie, ove regnerebbero bassi salari e condizioni di lavoro degradate.

L'Europa, in rapporto di alleanza e di concorrenza con gli USA, ridefinirà i rapporti nord-sud e si realizzerà una integrazione maggiormente spinta di una parte dei paesi in via di sviluppo nella nuova spartizione internazionale del lavoro.

Le loro strutture economiche incomplete e le profonde disparità della popolazione di questi paesi consentirebbero una integrazione in un nuovo modello di sviluppo fondato non più su una produzione di massa per un consumo di massa, ma su di una produzione selettiva per consumatori d'élite. La ridefinizione dei rapporti internazionali provocherebbe un allargamento del mercato e l'integrazione delle economie dette socialiste nella spartizione internazionale nel quadro del nuovo modello di sviluppo.

5.4 Il riaggiustamento dell'apparato statale

Il liberalismo non cercherà certo di indebolire il potere dello Stato sulla società ma di riorientarlo, seguendo il movimento generale dei mutamenti, in una direzione meno sociale e più repressiva.

Assisteremo ad un regresso di tutte le attività di regolazione e dette "dello stato assistenziale", cioè al calo delle attività che assorbono prelievi obbligatori non redditizi (diminuzione degli effettivi dei funzionari insieme ad una flessibilità ed una precarietà degli impieghi), tendenza alla redditività delle attività dette di "pubblico servizio", privatizzazione delle attività produttive, riorientamento dell'aiuto dello Stato alle aziende, privilegiando i settori di punta a definitivo discapito di quelli "claudicanti" con scarsi tassi di profitto, nulli o negativi, mantenuti in attività per motivi sociali e per l'equilibrio del tessuto industriale.

Assisteremo al rafforzamento delle funzioni repressive degli apparati polizieschi e militari, nell'ambito di una riorganizzazione a livello europeo per una funzione ancora più necessaria di prima in quanto la scelta di una società precarizzata e a velocità multipla provocherebbe lo sviluppo delle rivolte ma anche un generale degrado del clima ed un aumento della delinquenza.

I piani di una futura società capitalistica sono il progetto di società neo-liberali in cui, mentre alcuni settori del capitale si salverebbero, la maggior parte dell'economia sprofonderebbero nella stagnazione e per la maggioranza dei lavoratori sarebbe la crisi sociale.

Funzionerà un simile progetto?

La funzione del Progetto Neoliberale è quella di fornire uno scopo all'azione dei capitalisti e di consentire una... battaglia ideologica, infatti il progetto risponde ad una aspirazione ad emanciparsi... una aspirazione del capitalismo ad emanciparsi dalle costrizioni sociali accumulatesi nel corso dell'Espansione.

5.5 Un'offensiva culturale accompagna l'avvio del neoliberalismo

I neoliberali calpestano con la rabbia di rivoluzionari in erba i vecchi "valori". A questi fanno subentrare i propri: l'egoismo e l'elitismo. Mica tanto moderni poi!

Essi recuperano e distorcono i valori venuti fuori dal Maggio 1968, l'aspirazione all'autonomia, al potere dell'immaginazione, alla creazione. Lo scacco del socialismo statale, riformista o rivoluzionario ha spianato loro il terreno. Tutti i valori portati dalla sinistra tradizionale sono in briciole ed anche l'anticapitalismo prima diffuso, in forme sparse e spesso per vie traverse, cede il posto alla valorizzazione dell'azienda e dei profitti.

L'antistatalismo viene cantato il mille modi, poiché tutto è messo in causa nello Stato tranne lo Stato stesso. E' un antistatalismo di facciata che nasconde un progetto autoritario: ciò che si vuol colpire nello Stato sono le costrizioni sociali che gravano sul padronato.

In un clima generale di ripiegamento, di riflusso e d'indifferenza, i neoliberali si ubriacano sa doli delle loro belle parole emancipatrici, affiancati da taluni intellettuali ed anche da dirigenti sindacali.

I neo-liberali infatti non sono privi di alleati, una divisione dei compiti li associa all'estrema destra. Mentre quella richiama allo Stato forte, loro si sono trasformati in apostoli del "nuovo Stato": meno Stato per gli uni (i padroni) e più Stato contro gli altri (i dipendenti e i giovano precari). Autoritarismo e liberalismo formano una coppia complementare ed anche inseparabile.

Ma anche nella sinistra il progetto neo-liberale ha trovato spazio. Lo sgretolamento dei modelli fordisti, keynesiano, socialdemocratici, leninisti, stalinisti, ha provocato una ricomposizione ideologica di una parte della sinistra, che include pure ex-contestatori sessantottini ed anche una fetta "illuminata" del padronato e della Borghesia.

Tale ricomposizione detta "liberal-libertaria", abusando del linguaggio, si è schierata per la collaborazione di classe. La "novità" risiede nel fatto che questa è espressa coscientemente e si afferma come l'espressione stessa della modernità; la democrazia borghese è il quadro giuridico e politico, vengono difese le leggi del mercato come garanzia delle libertà, e si proclama così il nuovo umanesimo ed il suo "meno Stato". Il sindacato ha come compito essenziale di "fare attecchire l'innesto" sul movimento operaio.

6.1 La "proletarizzazione" della società

Negli anni '50 la popolazione attiva delle nazioni occidentali annoverava fra operai dell'industria e operai agricoli, impiegati e addetti ai servizi, circa il 50% della popolazione attiva di "proletari", gli ingegneri, i quadri, i tecnici e gli insegnanti erano il 10%. Negli anni '70, pur diminuendo gli operai della campagne, i "proletari" arrivavano al 60%. Gli strati medi salariati nello stesso periodo praticamente si raddoppiano arrivando al 20%. Dagli anni '50 agli anni '70 la quota dei salariati è salita dal 60 all'80% della popolazione attiva.

L'evoluzione dei salariati in seno alla società non si è svolta secondo gli schemi immaginati dai rivoluzionari del secolo scorso: non c'è stata uniformazione di tutti i lavoratori in una medesima condizione operaia e nemmeno "una depauperazione assoluta" dei lavoratori. Gli strati salariati, dominati e direttamente sfruttati dal capitalismo, sono cresciuti diversificandosi nel contempo.

Il numero degli impiegati è raddoppiato in 20 anni. Molti hanno un livello di vita paragonabile a quello degli operai ed esattamente come loro si ritrovano nel ruolo di esecutori.

Quantitativamente la proletarizzazione è stata avviata principalmente mediante la creazione di posti di lavoro nel terziario. Qualitativamente essa si distingue per la moltiplicazione di grossi bastioni di operai (per esempio l'automobile) e di impiegati (Poste e Telefoni). Dette categorie proletarie formano il nocciolo del salariato (78,8%).

E' però lo sviluppo di nuovi strati sociali medi salariati che dà al tessuto sociale contemporaneo tutta la sua originalità.

6.2 I nuovi strati medi salariati

Sempre fra gli anni '50 e '70 gli ingegneri si triplicano di numero, raddoppia quello dei quadri medi e superiori e degli insegnanti. Questo cambiamento costituisce un fenomeno determinante nella società. Infatti i nuovi strati parteciperanno attivamente alla ridefinizione di nuovi modelli di vita, diversi sia da quelli della borghesia tradizionale che da quelli degli operai e degli impiegati.

Maggiormente volti, più "emancipati", questi strati parteciperanno attivamente ad una crisi dei valori borghesi, ma mettono davanti agli occhi dei proletari un modello di ascesa sociale accessibile. I nuovi strati salariati hanno un ruolo culturale, e dunque anche politico, non trascurabile nella società moderna, un ruolo ideologicamente dominante. Ma essi assumono anche il ruolo di schermo, essi occupano delle funzioni mediatrici fra i dirigenti propriamente detti delle imprese e dello Stato e gli strati inferiori della società.

Nati dalla Taylorizzazione del lavoro e dalle spaccature fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, cresciuti per il moltiplicarsi delle funzioni di gestione, di inquadramento, di informazione, di ricerca, di formazione, gli strati in oggetto occupano un posto ambivalente. Sono nello stesso tempo dominati e sfruttati, ma anche associati alla gestione dell'inquadramento diretto e ideologico degli strati popolari.

6.3 Gli strati medi tradizionali

Gli strati medi, la "piccola borghesia", includono categorie con modi di produzione anteriori ai metodi di produzione capitalistici moderni, come i piccoli produttori contadini, gli artigiani o i commercianti. Questi strati eterogenei hanno pochi interessi in comune, ma serbano una certa coscienza della propria unità, soprattutto sul piano ideologico.

A livello politico si caratterizzano per la loro instabilità che ne fa, nella maggioranza dei casi, i sostenitori politici più arretrati. Posseggono, in origine per lo meno, la disponibilità dei loro mezzi di lavoro e sono rimasti in certo qual modo produttori "liberi", ma il moderno Capitale lascia un margina di "libertà" molto ridotto. La loro libertà d'azione tende a ridursi alla sola organizzazione del proprio lavoro, essi si sono integrati nel sistema del profitto e degli scambi monetari.

Il Capitale moderno consente al piccolo contadino di sopravvivere soltanto in quei settori della produzione dove risulta difficile la meccanizzazione e dove la complessa organizzazione di vere e proprie aziende capitalistiche risulti ancora aleatoria. Artigiani e piccoli imprenditori sussistono nei settori di produzione minori di cui non vogliono farsi carico le grandi imprese, settori che queste grandi aziende controllano di fatto attraverso il mercato, la fornitura delle attrezzature e dei pezzi di ricambio o con i subappalti.

In realtà il produttore individuale perde la proprietà reale dei suoi mezzi di produzione, coinvolto nell'insieme dei metodi di produzione capitalistici, deve aumentare la sua produzione, migliorare e rinnovare le attrezzature, far ricorso a prestiti, s'indebita. Aumenta la durata del proprio lavoro e spesso non può vendere direttamente quanto produce, deve far ricorso alle commesse delle grosse ditte o ad intermediari.

Gran parte dei piccoli produttori vede dunque la propria situazione avvicinarsi a quella del lavoratore che vende la propria forza lavoro al capitale, il reddito diventa una somma poco elevata che si apparenta con un salario, mentre continua a sussistere tutto il peso della responsabilità della gestione.

6.4 Le classi sociali del capitalismo moderno

Il moderno capitalismo presenta sempre le due classi fondamentali del capitalismo classico: il proletariato e i capitalisti. L'una e l'altra delle due classi si sono trasformate, la prima a causa della terziarizzazione che ha permesso l'aumento degli impiegati a fianco degli operai, la seconda a causa della burocratizzazione che ha visto nascere una nuova forma, tecnoburocratica, di capitalisti, a fianco della borghesia tradizionale.

Una delle specificità del capitalismo moderno è la presenza degli strati medi salariati che talvolta s'identificano con le lotte degli operai e degli impiegati, talvolta con le direttive e con il modello capitalistico, talora si piazzano come mediatori, o anche puntano, nella prospettiva di una autonomia propria, sui conflitti di classe.

La lotta di classe non scompare con il capitalismo moderno: essa si trasforma. L'opposizione tra proletariato e capitalismo con ha mai conosciuto un'ampiezza paragonabile a quella del maggio 1968. La configurazione delle classe non è certamente più la stessa dell'epoca della Rivoluzione Industriale ed è cambiata la natura della lotta. Una classe sociale non è una categoria dai contorni netti e precisi, dal taglio deciso, è necessario pensare in termini di poli aggreganti attorno a sé elementi più sfumati.

Non c'è soltanto un potere assoluto e il suo esatto contrario. Tra il polo centrale del potere in seno ad una grande azienda e la base maggiormente dominata esiste tutta una graduazione, degli strati multipli che hanno "un po' di potere" e che subiscono a loro volta il potere superiore. Non c'è in alto un nocciolo capitalistico senza ambiguità e in basso un forte nucleo di operai e impiegati, fra esso si trova una serie stratificata di categorie più o meno ambigue.

6.5 Il peso dei lavoratori nella società

Il posto degli operai e degli impiegati nell'attuale società è contraddittorio, ridotto allo stato di umili ingranaggi nel complesso meccanismo della produzione ma relativamente coperti da un sistema di protezione e di regolazione sociale, sfruttati ma anche meglio pagati di una volta, pur subendo la dittatura dei dirigenti d'azienda si possono organizzare ed esprimere. Schiacciati come produttori sono anche valorizzati come consumatori, soldati in fabbrica ed apparentemente cittadini in città.

Essere nello stesso tempo sulla via permanente dell'integrazione ed in costante opposizione con il sistema.

I lavoratori d'altra parte si sono imposti al capitalismo portando avanti la loro lotta che ha creato condizioni sociali tali da rendere necessarie la regolazione e la protezione sociali oggi vigenti. E' la lotta fra le classi che fa la società, non le sole decisioni unilaterali e deliberate dalle classi dirigenti. Certamente esse hanno il Potere, ma contro tale Potere si esercita, in permanenza, la pressione dei dominati con fasi di ascesa e di riflusso.

Ad un tempo "contro" e "integrata", ecco la contraddizione alla quale nessuna lotta può sfuggire. Per forza di cose inserite nel sistema, fintantoché una rivoluzione vera e propria non scoppi, tutte le lotte devono tenere conto della possibilità e della resistenza del padronato, dei rapporti di forza, cercando di imporre la propria "rappresentatività", strappare risultati immediati, modificare la legislazione, in breve essere ad un tempo in rotta con la logica del sistema e integrati nei suoi funzionamenti.

6.6 Il sindacalismo tra lotta di classe e ristrutturazione

La contraddizione fra "integrazione" e "lotta di classe" concerne anche il sindacalismo. La si ritrova, con una grande diversità, in tutte le forme di sindacalismo operaio, nel mondo e nella storia. Incontestabilmente il sindacalismo propende ad essere integrato per difendere gli interessi immediati dei lavoratori; esso assimila progressivamente le regole del gioco capitalistico e dimentica le finalità trasformatrici della lotta operaia per limitarsi a sistemazioni nello sfruttamento. Tale aspetto è ineluttabile fintantoché non ci si trovi in una situazione rivoluzionaria, è una dimensione che non può essere aggirata della lotta di classe, che il sindacalismo comunque fa esprimere. Ma per questo motivo esiste anche una forte tendenza a trasformarsi in istituzione separata dai lavoratori anche per altri due motivi: la burocratizzazione e il dominio da parte dei partiti politici.

Istituzionalizzandosi, il sindacalismo produce uno strato militante carrierista, una burocrazia stabile che si stacca dai lavoratori. Le tendenze "spontanee" degli aderenti alla delega di potere ed il rapporto gerarchico che ha preso a poco a poco la precedenza sul federalismo comportano la burocratizzazione che si poggia anche sulla necessità di formare un apparato militante. Ma quest'ultimo, che si pretende al servizio della base, pone alla fine, in numerosi casi, la base al servizio delle sue scelte.

Integrato nel sistema, burocratizzato, il sindacalismo serve da base di appoggio al riformismo socialdemocratico. La presenza di militanti riformisti che controllano la maggior parte degli apparati importanti e il ricambio con lavoratori che condividono tale orientamento, completano il consolidamento di quella burocratizzazione e di questa integrazione. Così il sindacalismo, agli inizi federalista e democratico, presenta oggi i difetti del centralismo.

I 30 anni di espansione hanno considerevolmente confortato questa tendenza: la regolazione sociale, l'ascesa contrattuale del potere d'acquisto hanno fornito strategia di spartizione della torta senza tirare di nuovo in ballo le strutture del capitalismo, eppure la contraddizione integrazione-rottura risulta sempre fortemente espressa. I sindacati operai rimangono, nel capitalismo contemporaneo, strumenti di lotta di classe.

La maggior parte delle lotte operaie sono sempre organizzate all'appello dei sindacati di base. Essi rimangono il riferimento, la struttura alla quale i lavoratori fanno ricorso per esprimere la loro combattività, anche se non vi si organizzano più come ieri.

La contraddizione continua dunque ancora. Sindacati molto riformisti quali il DGB tedesco e F.O. in Francia sono evidentemente largamente dominati dal polo "integrazione" mentre dei settori animati da sindacati rivoluzionari, quale la CNT in Spagna, esprimono nettamente l'altro polo. Ma anche questi, anche i sindacati più rivoluzionari che si possano immaginare non riescono a sfuggire totalmente al polo "integrazione", espressione della società capitalistica. D'altro canto nessuna struttura di lotta permanente e impiantata in mezzi ai lavoratori lo potrebbe.

6.7 L'ascesa della rivolta e della aspirazioni anti-autoritarie

Durante gli anni '60 e '70 una potente onda agitò gli ultimi istanti dell'Espansione e gli inizi della crisi, contro l'organizzazione disumana e gerarchizzata del lavoro, contro le disparità sociali, contro il modelli di sviluppo produttivistico e le sue conseguenze sociali ed ecologiche, contro lo sfruttamento del Terzo Mondo, contro i centralismi e il rafforzamento dello Stato, contro l'ordine morale della borghesia per "cambiare il lavoro", per "cambiare la vita". Temi importanti ritornarono a galla: l'autogestione, l'emancipazione della donna, quella dei giovani, il controllo delle nascite, le lotte ecologiche. Nessun aspetto del vecchio mondo sfuggì alla contestazione antiautoritaria.

Quella crescita delle lotte, quantitativa e qualitativa, sarà oggetto, un po' ovunque, verso la fine degli anni '60 di una accelerazione. La classe operaia cominciò ad esprimere aspirazioni antiautoritarie in fatto di rivendicazioni e si espresse in forme di lotta che sfuggirono alle direzioni sindacali. I nuovi ceti medi salariati si aggregano in parte alla lotta, in modo particolare nel settore degli studenti ed universitari. Le aspirazioni antiautoritarie vi si propagano liberamente e, anche se la prospettiva rivoluzionaria sedusse solamente una minoranza attiva, emerge la volontà di cambiare la vita. Il dominio capitalistico era minacciato o, per lo meno, fortemente contestato.

6.8 La grande illusione riformista

Le lotte degli anni '60 e '70 non hanno trovato un vero e proprio progetto anticapitalistico ed antiautoritario.

Per cui un altro progetto politico si è sostituito al progetto assente: la strategia di un cambiamento affidato allo Stato, dopo la presa del potere elettorale da parte dei partiti della sinistra. Il programma è ispirato da un modello produttivistico intriso di fordismo, leggermente tinto di socialismo. Il nocciolo del progetto è l'illusione riformista: il capitalismo potrebbe essere profondamente trasformato ed anche avviato verso il socialismo a partire dalle istituzioni. Lo Stato, agghindato di tutte le virtù repubblicane, viene presentato come una istituzione neutrale. Si presuppone che il governo goda di una larga autonomia nei confronti degli imperativi del profitto e delle pressioni esercitate dalle classi capitaliste. Infine, l'insieme del progetto poggiava su una profonda sottovalutazione della crisi: il rilancio dei consumi popolari sarebbe stato sufficiente per ristabilire la crescita.

Milioni di lavoratori hanno finito col crederci, centinaia di migliaia hanno visto la concreta possibilità di sbarazzarsi, una volta per sempre, della Destra e del padronato. Progressivamente le priorità si sono spostate dalle lotte sociali, portate avanti direttamente e concretamente dalla gente, verso lotte elettorali condotte dai Partiti con il sostegno passivo degli elettori. La delega di potere della democrazia elettiva diventa la delega al cambiamento affidata per procura agli Stati Maggiori della Sinistra. Le lotte operaie sono state liquidate a favore delle prospettive elettorali. I partiti riformisti, forti del proprio controllo sulle centrali sindacali e della penetrazione dell'illusione elettorale nella base, hanno incanalato e calmato le lotte sociali. Una tattica sofisticata ha consentito loro di mantenere nel contempo la pressione operaia sulla Destra e di isolare i conflitti di base affinché la questione del potere e dei grandi cambiamenti non potesse essere posta indipendentemente dal ricorso alle urne.

Mentre i lavoratori vengono smobilitati, le ristrutturazioni sono portate avanti velocemente. La divisione sindacale distrugge tutte le speranze rimaste. Regrediscono le lotte operaie e assieme ad esse è un intero tessuto sociale, ieri in piena offensiva, che batte in ritirata: le lotte dei giovani, le lotte della contestazione sono rimaste senza respiro, sebbene le tematiche da esse proposte siano ampiamente diffuse tra la popolazione ed abbiano cementato un cambiamento di mentalità.

La sinistra conduce una politica capitalista aggressiva di ristrutturazione e di cambiamenti all'interno della logica del sistema e scaverà così la sua fossa nel tentativo di conciliare l'inconciliabile gli interessi delle differenti classe sociali.
L'ascesa del Partito Socialista si identifica essenzialmente nella volontà dei ceti medi salariati di imporre al capitalismo la loro partecipazione al potere, appoggiandosi sulla forza rappresentata dai lavoratori. Il suo riformismo esprime la vocazione di questi strati ad esercitare una funzione mediatrice nella società. La riabilitazione dell'azienda, la sua gestione zelante, come pure il decentramento inteso come maggior autonomia dei quadri intermedi, sono coerenti con queste posizioni.

Partire da un'alleanza tra ceti medi e proletariato allo scopo di trarre profitto dalla forza rappresentata da quest'ultimo, ecco qual era la prima fase della strategia. La seconda fase fare dei lavoratori un semplice trampolino. Terza fase una alleanza con i capitalisti con un rapporto di forze nuovo. La prima e la seconda fase sono già state portate a compimento. Il PS nella sua forma attuale, con quanto gli rimane di bagaglio ideologico, sarà in grado di realizzare la terza?

Il Partito Comunista determina le sue scelte non in funzione degli interessi dei lavoratori come afferma, ma di un gruppo burocratico preciso, composto dai quadri di Partito e di uno schieramento più ampio la cui esistenza è strettamente legata al PC. I quadri permanenti della CGIL, i quadri inseriti nell'amministrazione, i quadri delle associazioni e delle molteplici aziende che gravitano nell'orbita del PC. L'insieme è cementato dall'ideologia comunista.

Il Partito non potrebbe esistere senza una sincera base operaia militante, anticapitalista, associata ed integrata alla volontà di potere del Partito, che non significa necessariamente una volontà di gestire lo Stato, ma piuttosto di costituire uno Stato nello Stato. La base è strettamente controllata da un'organizzazione ipergerachizzata e burocratica. Questo legame con una base popolare ha determinato la forza del PC.

I cambiamenti sociali però lo colpiscono direttamente. I capisaldi operai sono minacciati, i nuovi strati sociali salariati lo respingono ed esso non riesce ad inserirsi tra gli impiegati del terziario, così come aveva fatto con la classe operaia. Il PC non ha potuto né voluto seguire le evoluzioni della mentalità; scosso dalle aspirazioni libertarie degli anni '60 e '70, ha finito col perdere la sua egemonia nel mondo del lavoro.

Il PS ha rinunciato a qualsiasi volontà di trasformazione sociale. Il PC è in declino. Su entrambi grava la pesante responsabilità di aver disarmato i lavoratori di fronte ai mutamenti e di aver attivamente contribuito ad una profonda crisi del movimento operaio.

7.1 Un rapporto diverso con il lavoro

Le differenze e le disparità fra i lavoratori non sono una novità, esse hanno sempre reso necessario un sindacalismo operante su due livelli: quello delle categorie e quello delle unità geografiche che esprimono interessi particolari delle diverse categorie di lavoratori o delle diverse località geografiche ed il livello delle grandi lotte unificanti che, al di là delle differenze, offrono prospettive a tutti permettendo all'insieme della classe di affermarsi in quanto tale, di scoprire la propria forza nella società.

La diversità non è in sé un problema e l'unità è sempre una realizzazione volontaria e collettiva. Ma la diversità diviene frantumazione quando la classe lavoratrice perde una parte della sua identità culturale e politica e abbandona il campo della lotta sociale.

I lavoratori di domani non beneficeranno più del ricordo delle lotte degli anni '60 e '70, non fruiranno più della tradizione di organizzazione collettiva e, cosa maggiormente grave, essi saranno sempre più esclusi dai processi produttivi. Con il lavoro precario così diffuso, viene dunque imposto un rapporto diverso con il lavoro e ciò provocherà nuovi comportamenti nei settori giovanili.

La divisione dei lavoratori non è soltanto legata ai mutamenti imposti dal sistema né al semplice riflusso delle lotte collettive, ma ad una stretta combinazione tra questi due aspetti.

L'incapacità di affrontare i cambiamenti, di rinnovare le forme organizzative e rivendicative all'interno di un tessuto sociale in continua trasformazione, spiegano le frantumazione materiale ma soprattutto quella sociale.

L'individualismo ed il ripiegamento su se stessi, uno spostamento dei valori dal collettivo verso l'individuale esprimono appieno questa combinazione di cause materiali ed ideologiche.

7.2 La perdita di identità collettiva

L'immagine, anche mitica, che una classe ha di se stessa costituisce la base di una propria cultura, di una identità collettiva. Ora, l'immagine operaia tradizionale fondata su un insieme di valori propri, sulla solidarietà, sul lavoro, sulla dignità, ecc. è costantemente regredita senza che una nuova immagine si fosse chiaramente sostituita ad essa. Tale perdita di identità, mascherata nel corso dell'espansione e delle lotte degli '60 e '70, è oggi evidente.

Il macchinismo ed il taylorismo hanno contribuito a distruggere il valore stesso del lavoro operaio, e dunque non solo il giusto lavoro, ma anche il senso della dignità, della sua funzione sociale, del suo valore intrinseco. Sostituito dalla macchina, respinto dalla disoccupazione, espropriato delle sue capacità, l'operaio perde il senso della sua utilità sociale.

Il progresso tecnologico risuona nell'immaginario collettivo come presagio di un massiccio declino degli operai, paragonabile a quello delle classe contadine durante l'espansione con l'introduzione della meccanizzazione nell'agricoltura. Gli operai non appaiono più una forza in ascesa, come negli anni '60 e '70, agli occhi delle altre classi sociali ed ai propri, sebbene, nei fatti, il ridimensionamento quantitativo rimane contenuto.

L'evoluzione generale della mentalità e dei modelli di vita, favorita dalla società dei consumi, ha legato il modo di vita dei lavoratori ai modelli sociali e culturali dei nuovi ceti medi.

L'immigrazione ha provocato una trasformazione particolarmente avvertita dagli operai. Spesso, a confronto con compagni di lavoro dalle tradizioni culturali diverse, l'operaio comincia a vedere l'immigrazione in un contesto generale di perdita dei propri valori culturali, come una perdita di punti di riferimento e come un fattore supplementare di destrutturazione della sua identità. Ci sono dunque, nello stesso tempo, aggressività nei confronti delle specificità culturali dei lavoratori immigrati e ridiscussione dell'unità culturale operaia.

Queste contraddizioni potrebbero essere benefiche, in quanto arricchiscono e rinnovano la cultura dei lavoratori. Ma le condizioni in cui l'immigrazione è stata organizzata dal padronato e dalla Destra e l'assenza di un progetto sociale della Sinistra e dei sindacati per una reale integrazione nel rispetto delle reciproche differenze, hanno minato il cammino preparando i terreno ad una cultura razzista.

La fulminea urbanizzazione post-bellica, il moltiplicarsi di periferie disumane hanno distrutto le forme di vita collettiva tradizionali dei contadini e diluito la vecchia classe operaia in mezzo a strati sociali da poco tempo proletarizzati. La televisione completerà l'annientamento della vita collettiva.

L'individualismo, agevolato dagli effetti sociali della crisi, ha permesso lo sviluppo di una delinquenza urbana. La mancanza di solidarietà collettiva sarà proprio il fattore determinante di un senso di insicurezza che i media e i politicanti avranno buon gioco ad amplificare facilitando così il controllo poliziesco della società.

7.3 La smobilitazione del sindacalismo

Le organizzazioni sindacali, principali strutture operaie di lotta, si trovano in prima linea: dirette responsabili del riflusso delle lotte e contemporaneamente vittime degli effetti della crisi economica.

Nel complesso le strutture burocratiche dei sindacati, le loro divisioni, il loro rapporto di direzione con i lavoratori, l'adattamento alle norme imposte dal sistema, hanno provocato le prime spaccature con le frange di lavoratori combattivi che si sono espressi fuori dai sindacati e che assumono posizioni nettamente contrarie.

Il tragico errore del sindacalismo è stato quello di aver resa subalterna la propria linea di azione al gioco elettorale, di aver sottostimato l'ampiezza dei cambiamenti, riducendoli ad effetti di una politica di Destra con possibilità di un facile riassorbimento sul terreno politico, di non essersi dotato di una strategia autonoma di lotta sindacale capace di mobilitare collettivamente tutte le categorie dei lavoratori per intervenire direttamente sugli eventi, di non essere stato capace, poi, di fornire risposte adeguate alle trasformazioni in atto.

Col procedere della crisi, l'incapacità della organizzazioni sindacali a farvi fronte intacca la loro credibilità e ne smobilita la base. Nel complesso le organizzazioni sindacali appaiono ai lavoratori come istituzioni inaccessibili alle loro pressioni e più o meno legate agli stati maggiori dei Partiti e sempre più inefficienti, in poche parola, incapaci di dare prospettive.

7.4 La fine dei modelli politici

Tutti i modelli di trasformazione della società, ieri dominanti, sono crollati.

Il modello socialdemocratico, alla prova concreta della gestione da parte della Sinistra del capitalismo in Francia, in Germania, Inghilterra, Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, è crollato come prospettiva di trasformazione riformista della società.

Il modello di socialismo di stato, in Russia come in Cina, sta crollando sotto i colpi del suo autoritarismo o per dissoluzione interna. L'immagine del socialismo reale è caduta, inadatta ad offrire un riferimento alle attuali aspirazioni dei lavoratori.

I vari gruppi della estrema sinistra non sono stati in grado di dare un'alternativa credibile, incapaci di sganciarsi da schemi politici superati e di comprendere la mentalità e le strutture contemporanee e le loro evoluzioni durante la crisi.
E' altresì una constatazione evidente che l'estrema sinistra non è riuscita ad assorbire e ad organizzare il grosso movimento antagonista espresso dal Maggio '68. Sarebbe necessario trarne un insegnamento.

L'estrema sinistra leninista non ha saputo portare all'interno di un movimento spontaneamente antiautoritario altro che un progetto di società centralista e statalista, delle strutture politiche già gerarchizzate e molto spesso anche pratiche manipolatrici.

Le varie componenti libertarie avrebbero potuto dare una prospettiva ad un movimento spontaneamente antiautoritario, ma hanno vistosamente perso un'occasione. Troppo spesso divise fra ideologhi dalle idee obsolete e attivisti ultra-rivoluzionari, cultori del radicalismo verbale e dell'antisindacalismo, incredibilmente disorganizzati, i militanti libertari di tutte le tendenze messe insieme non hanno affatto capito le specificità e le contraddizioni proprie della loro epoca.

Al di là delle questioni programmatiche e organizzative però, numerosi militanti di estrema sinistra, non necessariamente organizzati, hanno saputo condurre lotte importanti. Ora parecchie di queste lotte hanno pagato ed hanno realmente portato cambiamento nella vita della gente.

Interi settori del sindacalismo hanno saputo portare avanti esperienze di lotta di grandissima ricchezza e continuato a sostenere una tenace opposizione sindacale alla politica delle Direzioni Confederali.

Il Movimento delle Donne, ponendo il problema dell'ineguaglianza delle donne nel mondo del lavoro, della divisione delle incombenze familiari, del diritto di disporre del proprio corpo e della propria sessualità, e più genericamente dell'ideologia sessista e del ruolo della donna nella società, ha imposto una evoluzione dei rapporti uomo-donna e della legislazione in molti settori.

La contestazione del militarismo è stata uno dei capisaldi delle lotte dei giovani nel corso degli anni '70.

La solidarietà internazionale ha permesso importanti mobilitazioni nei Paesi occidentali, in particolare i movimenti di solidarietà con le lotte di liberazione nazionale, questi movimenti hanno condizionato la situazione all'interno dei Paesi dominati indebolendo l'intervento imperialista.

Non bisogna sottovalutare i movimenti per i diritti umani perché hanno un loro peso sugli Stati affinché essi rispettino le garanzie individuali; i movimenti di sostegno agli immigrati, perché lottano contro le discriminazioni di cui sono vittime; i movimenti delle minoranze omosessuali.

La lotta antirazzista e per l'uguaglianza dei diritti, specialmente sotto la spinta di giovani immigrati, ha saputo portare nuove domande sociali, provocare dibattito ma anche elaborare proposte in vista di nuove relazioni sociali.

Tali settori militanti però non si sono dati né un progetto politico, né un'organizzazione. Nel complesso nulla ha saputo o potuto opporsi seriamente alla grande illusione riformista. Dopo il suo scasso, nulla è ancora in grado di colmare il suo vuoto.

Oggi si aprono nuovi spazi per un'Alternativa da costruire nella realtà. Per riunificate la classe lavoratrice e per trovare i termini di una identità costituita al tempo stesso da esperienze sociali e lotte, da obiettivi praticabili e progetti per l'avvenire, antagonisti al Capitalismo.

Senza fantasia, nessun peso sulla realtà!

FdCA - sezione di Bari
Gennaio 1990

(contributo per il 3° Congresso FdCA)