Massimo Dilemma

 

Oggi, venerdì 16 ottobre 1998, al momento di chiudere questo numero, appare scontato un incarico per formare il nuovo Governo per il leader dei DS. Sembra così concludersi questa crisi, di cui tentare una prima valutazione a caldo, cercando anche di scorgerne gli sviluppi. Per prima cosa vediamo chi ne esce vincitore, quali sono i cadaveri restati sul terreno e come si presenta ora il quadro politico.

1. Il partito che non c’è. Forza Italia si agita in modo sempre più sconnesso. Il governo a guida tecnica di larghe intese era l’ultima speranza per il Cavaliere di rientrare nei giochi (parliamo di lui perché lui è fondatore, anima sponsor, presidente, cantautore, leader, etc. etc. etc. di un aggregato che non è certo assimilabile in un qualsiasi modo ad un partito); forse per lui tornare nella compagine di maggioranza non è del tutto conveniente, se è vero, come è vero, che mai i suoi affari sono andati così bene come da quando l’Ulivo è al potere: entrato nel tunnel dell’opposizione con un mare di debiti e nell’occhio del ciclone del conflitto di interessi, a distanza di quasi quattro anni si ritrova a possedere un’azienda mai stata così florida e senza tanti inutili riflettori puntati. Qualcun altro lo ha agevolato, togliendogli l’imbarazzo di agevolarsi da sé medesimo dall’interno dell’Esecutivo. La faccia feroce non è però solo gioco delle parti: la strategia del gladiatore n° 1 rischia di falciargli l’erba sotto i piedi (vedi il paragrafo: il partito che ci sarà), ed un eventuale ritorno quale privato cittadino, in occasione di prossime elezioni, sarebbe scomodo, in quanto i guai giudiziari non sono stati ancora accomodati.

2. Il partito che fu. Torvo si aggira Fini. Se il suo alleato (quello che l’ha, come si dice, sdoganato) viene sgonfiato delle sue forze da una strategia del risucchio, lui torna al vecchio ruolo ereditato da Almirante e Michelini: tenere la fiaccola sotto il moggio, facendo da spalla comoda e occulta, perché impresentabile, al centro che rinasce. Voti in frigorifero, si diceva un tempo; ma il problema non è quello dell’aria fresca e dei raffreddori, quanto quello dell’aver assaggiato il governo e soprattutto il sottogoverno (assessorati comunali, provinciali e regionali compresi), cui non senza lacrime dovrà disporsi a dire addio.

3. Il partito chi l’ha visto? Da quando in Italia si è cominciato a votare col sistema maggioritario i piccoli partiti sono aumentati, anziché diminuiti, con buona pace delle promesse bipolari dei Segni, degli Occhetto e dei Pannella. A parte qualche folcloristica apparizione, i nostri eroi, utilizzati e spremuti al momento in cui la loro opera serviva, sono i veri desaparecidos della politica italiana, e con essi i sogni a base di democrazia anglosassone. Fra poco avranno un nuovo adepto nel mondo delle ombre: il compagno poliziotto e magistrato, tale Antonio da Montenero, che ha pensato addirittura, un tempo, di essere il candidato naturale alla Presidenza della Repubblica, una volta che fosse stata approvata l’elezione diretta del Capo dello Stato.

4. Il partito che credeva di esserci. I tanti partitini nati, a volte per motivi di comoda spartizione del finanziamento alla stampa politica, a volte attorno a figure più o meno eminenti (quasi sempre molto meno), negli ultimi anni hanno cominciato a perdere di ruolo quando il gioco si è fatto duro. I cosiddetti cespugli dell’Ulivo, che si sospettava condizionassero troppo la maggioranza di governo, hanno avuto il ruolo delle semplici comparse, allineati e coperti dietro i veri protagonisti (tre: Prodi, Cossiga e D’Alema) della fase politica. Guardati con occhi benevolmente emiliani dall’ex-premier, in quanto funzionali alla propria strategia di costruzione di un soggetto che raggruppasse il centro sinistra, essi sono stati una spina nel fianco per la Cosa due, orrido mostro extraterrestre, vagheggiato dal compagno normalista, miseramente franato a Firenze un’estate fa. Calando il sipario sul loro mentore (vedi il paragrafo: il partito che non ci sarà), anch’essi sono usciti di scena, comparse in una rappresentazione la cui grandezza li ha travolti.

5. Il partito che vorrebbe esserci. L’emergere di un nuovo centro moderato a direzione dorotea relega nell’angolo la ex-sinistra democristiana, che tanto si era illusa di contare negli ultimi cinque anni. È chiaro, perciò, perché tanto tenacemente e fino all’ultimo il Ppi si sia ancorato a Prodi, cercando di recintare in modo impermeabile la maggioranza del 1996. Su questa strategia di sopravvivenza si è immolato (vedi il paragrafo: il partito che non c’è più) l’Armando, chissà a seguito di quali promesse.

6. Il partito che c’era (forse). Fin dai suoi viaggi in autobus per l’Italia, Prodi ha vagheggiato la costruzione di un nucleo di centro, moderatamente riformista, (L’Ulivo, appunto) che a partire dalla vecchia corrente democristiana di Marcora (legata da sempre alle Partecipazioni Statali, in quanto nata dai finanziamenti di Mattei), stranamente nota col nome di sinistra, radunasse i resti dei partiti laici, fino a fagocitare il polo riformista, vagamente socialdemocratico, pensato da D’Alema. Veltroni gli ha creduto ed ora non gli resta che andare a piangere sulla spalla di babbo Tony e di zio Billy. L’eliminazione di questo spettro è stata uno dei due successi ottenuti dal leader diessino (suona quasi come diossina) in questo frangente.

7. Il partito che ci sarà. Prodi è caduto stritolato dall’abbraccio, per lui mortale, tra Cossiga e D’Alema. Nel momento in cui, ancora una volta, l’ultima delle teste pensanti della defunta (?) DC sembrava tagliato fuori dalla trattativa del nuovo Governo, in quanto la scissione di Rifondazione sembrava assicurare all’Esecutivo di Prodi una stentata sopravvivenza, alla maggioranza è venuto a mancare il voto, decisivo, di un parlamentare eletto nelle liste di Forza Italia e transitato tempo fa nel gruppo di Rinnovamento Italiano (Liotta, chi era costui? Deve aver pensato il colto professore bolognese). Da quel momento l’ex-inquilino del Quirinale imperversa, detta condizioni, approva e disapprova, ha determinato il fallimento del Prodi-bis (i toscani saprebbero come concludere quel bis!), ha dato il via libera a D’Alema, ponendosi al centro (in tutti i sensi) della vita politica italiana, crocevia di ogni percorso. Oggi, uscendo dal colloquio con Scalfaro, ha finalmente delineato apertamente la sua strategia: ora appoggio al governo del leader della Quercia, ma in futuro i due schieramenti saranno contrapposti; alle elezioni prossime (perché il patto sembra essere di legislatura) avremo il confronto tra un centro moderatamente conservatore, di cui l’UDR è l’embrione, ed un centro moderatamente riformista, coagulato attorno ai DS. Lui, Cossiga, l’ha detto chiaramente: Fini e Bertinotti ai margini, all’opposizione perenne, fuori dal quadro delle alleanze, a strepitare inutilmente; di Cossutta neppure un accenno; e Berlusconi? Questi, venuto alla politica soltanto per tutelare interessi personali, ritorni a curarseli, lasciando al picconatore i suoi preziosi voti moderati (questo è la volontà reale nascosta nei giorni precedenti dietro lo slogan delle grandi intese, il tentativo, cioè, di fungere da polo di attrazione nello sfilacciarsi del partito del biscione). In questa prospettiva il quadro politico italiano perde ogni anomalia, identificandosi totalmente con tutti gli altri paesi occidentali.

8. Il partito che c’é. È probabile che Massimo, che si crede il migliore, abbia ben chiara la prospettiva su cui si muove Cossiga; l’abbia ben chiara, accettando la sfida implicita e incassando subito due risultati: il siluramento di Prodi (riesumato dalla bara per infierire sul suo cadavere, come già fu fatto nel X secolo a Papa Formoso), con la relativa scomparsa dall’orizzonte del partito dell’Ulivo; e l’annichilimento del Partito della Rifondazione Comunista (vedi il capitolo: il partito che non c’è più). Certo è che non dovrebbe sfuggirgli che il suo ingresso a Palazzo Chigi soffre di un’accelerazione violenta e pericolosa: il primo governo italiano a guida di un ex-ex-ex-ex-ex-comunista nasce sotto la spada di Damocle di Cossiga, che ne garantisce la sopravvivenza e ne può decretare la morte. Sarebbe stato meglio aspettare, incassare i risultati, far governare da una figura sbiadita (il tecnico Ciampi, che tanto ricorda il personaggio del film Oltre i giardino, recitato dall’ultimo Peter Sellers), e puntare a formare un proprio governo dopo le elezioni, con una maggioranza eventuale, ma solidamente conquistata nel confronto con i moderati. Sta di fatto che il condizionamento che Cossiga può esercitare sull’Esecutivo, cui si affrettato ad aderire, ha tutta l’apparenza di essere più oneroso di quello che inutilmente Bertinotti ha cercato di esercitare su Prodi; non è un caso che il nostro nuovo Presidente del Consiglio, sia stato indotto a esporsi, soprattutto dai moderati. Come dice un vecchio proverbio: la gattina frettolosa fece i gattini ciechi.

9. Il partito che non c’è più. Fin dal patto di desistenza Rifondazione ha mostrato due anime, due strategie divergenti. Cossutta vi vedeva un’alleanza, Bertinotti un puro accordo elettorale che cessava subito all’indomani del voto. L’ironia dei risultati ha assegnato, nel 1996, all’Ulivo la maggioranza piena al Senato, mentre alla Camera i voti di Rifondazione si sono rivelati necessari per la nascita e la sopravvivenza dell’Esecutivo. Rifondazione si è, quindi, ritrovata nella situazione che tanto travaglio le aveva causato durante il governo Dini e ha continuato ad assicurare la vita del governo Prodi (con le sue pesanti manovre finanziarie di pretto stampo liberista), contorcendosi e perdendo pezzi. Già un anno fa la crisi di governo era stata sfiorata ed evitata con la promessa di procedere verso una legge per la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore. Quest’anno a Bertinotti non è stato nemmeno concesso uno straccio di promessa per consentirgli di fare, come altre volte, marcia indietro, neppure un segno sull’avvio di una legge promessa già da un anno. È evidente che, o Rifondazione mangiava l’ennesima minestra, perdendo un’ulteriore fetta di militanti e simpatizzanti, il che finiva per appiattirla sulla maggioranza, oppure si irrigidiva. In questa seconda e probabile eventualità la scissione di Cossutta era già scritta, preparata e fomentata con il miraggio di un ingresso nel governo quanto mai vagheggiato, ora che per la prima volta suoi ex-compagni di partito erano entrati ufficialmente in un esecutivo della Repubblica. Per Prodi era la speranza per sopravvivere, liberandosi dell’ipoteca a sinistra, ma per altri era la frantumazione del partito. Per Cossutta, il cui punto di riferimento di vecchio militante del PCI era e resta la battaglia nelle istituzioni, l’occasione era ghiotta, ma ora la sindrome Crucianelli (lo scissionista dei Comunisti Unitari del 1995, poi assorbito nell’anonimato della Cosa due) aleggia sul suo neonato gruppo parlamentare. Bertinotti resta con la struttura del partito e conoscerà forse un ritorno di militanti a suo tempo usciti dal partito, ma è certo che i riflettori su di lui si spegneranno e la sua presenza parlamentare resterà marginale; d’altra parte avrà mano libera per gestire il dissenso sociale, che è prevedibilmente in fase di crescita a fronte di una crisi economica che si preannuncia profonda e dolorosa. La sua sindrome però è quella di DP. Resta il fatto che la parabola del partito, come l’abbiamo conosciuto in questi ultimi anni, è arrivata al suo capolinea.

Tirando le fila di queste considerazioni, si può constatare che al momento solo una vecchia volpe (non finita in pellicceria, come altre) della politica democristiana ha gestito la crisi ai propri fini e il nuovo Presidente ha messo la testa tra le sue fauci, non certo rassicuranti. Forse non aveva alternative e non poteva rinviare (anche in vista del mutato panorama europeo che rende più agevole la sua navigazione), ma certo il rischio è molto alto.

 

da Alternativa Libertaria - novembre 1998, giornale della FdCA