Agli antipodi

 

Quale numero ordinale contrassegna il conflitto in corso? Terza, quarta, quinta o sesta guerra mondiale? In realtà l'attuale è l'unica vera guerra universale e non v'è cantuccio nel mondo islamico, nel mondo altro o nelle nostre civiltà occidentali che possa sentirsi immune dal coinvolgimento nelle ostilità. E ciò non tanto e non solo perché l'esercito irregolare e mimetizzato, di quelli che comodamente vengono definiti i nemici dell'Occidente, può colpire ovunque, ma soprattutto perché questa sindrome dell'assedio sotto casa, quest'ansia delle schegge impazzite e sanguinarie che colpiscono nel mucchio, abilmente coltivata dai mezzi di comunicazione di massa, cambia o giustifica il cambiamento delle nostre abitudini di vita; fornisce, in altre parole, l'alibi per l'instaurarsi di un controllo asfissiante, con la fine di ogni garanzia democratica.

È la nozione stessa di guerra al terrorismo che induce una mutazione profonda delle relazioni tra i gruppi di uomini. Si badi bene, guerra e non lotta. Entrambe sono conflitti, ma di natura del tutto diversa. La lotta si esercita nelle forme più svariate e può addirittura assumere un connotato positivo: si può, per esempio, lottare per un mondo diverso e migliore. La lotta non esige che i fronti siano esattamente delineati, non necessita di schieramenti ingenti, non presuppone una disciplina militare. La guerra, invece, richiede tutto ciò: degli Stati e degli eserciti regolari. E allora perché scegliere proprio la dizione: guerra al terrorismo?

Appare ovvio che il terrorismo (quello almeno che tale viene definito dagli organi di comunicazione) ha metodi per dispiegare la propria azione quanto mai lontani dalla visibilità necessaria per gli eserciti, che addirittura per essere ancora più riconoscibili adottano delle uniformi che identificano inequivocabilmente i suoi appartenenti, segnalandone anche l'importanza gerarchica. Un esercito è tanto più temibile quanto più ampiamente è individuabile la sua presunta potenza, mentre il terrorismo agisce nel massimo possibile dell'anonimato.

È opportuna una parentesi per chiarirci il termine terrorismo, così frequente e che, anche in quanto precede, è stato adottato scorrettamente e superficialmente nel senso ormai corrente. Per esattezza storica il terrorismo è stata la politica adottata dal governo rivoluzionario francese nello scorcio del XVIII secolo, periodo detto, appunto, del Terrore; per estensione contrassegna qualsiasi politica del potere atta a reprimere con la violenza e con la paura che essa incute le eventuali manifestazioni di dissenso. Solo recentemente il termine ha iniziato a contrassegnare le forme sanguinose e violente di rivolta che coinvolgano civili colti casualmente nella massa indistinta ed ha finito per indicare solo questa forma nella mente di tutti noi; e ciò occulta il fatto che il terrorismo è prioritariamente una pratica dei governi e degli Stati. E questo non è uno spostamento semantico di poco conto: consente infatti di esecrare il massacro di trecento bambini osseti da parte dei terroristi ceceni, sorvolando, come fosse normalità, sullo sterminio di quarantamila bambini ceceni da parte dell'esercito statale russo.

Anche l'altro termine della parola d'ordine lanciata dall'Amministrazione Bush esige una disamina, che permetta di capirne i caratteri di continuità e quelli, più rilevanti dal punto di vista dell'analisi politica, di rottura e novità. E ciò su due fronti di indagine: le motivazioni che la guidano e le modalità con cui essa si esplica.

(Il testo completo su Antipodi n.3, numero monotematico sulla guerra)


da Alternativa Libertaria - novembre 2004, foglio telematico della FdCA