Editoriale:

Gratta e comprendi

 

[ ...] ognuno chiama "chiare" le idee che sono
allo stesso grado di confusione delle
sue proprie. Del resto, ogni novità
ha come condizione pregiudiziale
l'eliminazione dei luoghi comuni cui
eravamo assuefatti
[ ... ].

Proust M., All'ombra delle fanciulle in fiore

Tutti hanno ormai compreso la grande lezione della vittoria berlusconiana del 1994. Qualsiasi fesseria, ripetuta fino alla nausea, diviene nell'immaginario collettivo un'incontrovertibile realtà. A maggior ragione se quella fesseria è detta da tutti indistintamente. Non solo, ma la fesseria fa anche da solida base ad ogni ragionamento successivo, e come ben sapevano i filosofi scolastici da un'affermazione falsa può discendere in maniera logica, ineccepibile qualsiasi affermazione. Quante volte, ad esempio, arroganti quanto ignoranti giornalisti televisivi pongono delle domande ai malcapitati intervistati che già presuppongono un falso ragionamento e di conseguenza una risposta che non potrebbe che essere quella sola che essi pretendono come giusta; a nulla serve chiedere il tempo di argomentare un risposta ad essi insospettabile, i ritmi intensissimi del consumo televisivo lo vietano.

Anche le parole subiscono una deriva semantica incontrollabile, e in queste rovinosa scivolata si portano dietro residui che finiscono per provocare le più colossali mistificazioni. Basti pensare, per esemplificare, a quanto asserito dal solito cavaliere di Arcore domenica 13 aprile: occorrerebbe una legge di parità tra scuola pubblica e scuola privata, affinché possano finalmente emergere le scuole "libere". Con questa affermazione le scuole pubbliche sono subito diventate "di regime". Ma la mistificazione non è solo una pura deformazione della realtà, quanto invece un suo totale ribaltamento. Son per l'appunto le scuole private che richiedono ai loro docenti ed ai loro allievi l'adesione ad un ben preciso indirizzo di pensiero, religioso o culturale; adesione che, sia essa volontaria o imposta da necessità familiari ed economiche, si presenta come regola prescrittiva, che se non rispettata impedisce l'accesso del singolo. Mentre nelle scuole pubbliche la libertà di insegnamento è costituzionalmente garantita. È a tutti evidente come il gioco intenzionale alla confusione si possa basare solo sulla perdita del significato originario della parola libertà, che è ormai sinonimo dell'arbitrio del singolo di assoggettare tutti gli altri alle proprie superiori esigenze di guadagno economico. (Nel caso specifico, poi, la sostanza è anche peggiore, perché l'unico fine reale è quello di poter usufruire dei fondi della collettività per farsi la propria scuola a immagine e somiglianza del proprio credo).

La vicenda albanese è prova recente della perdita d'identità delle parole. Conviene citare per esteso. "Non vi ha forse menzione della storia di una cristianità più abbietta di quella bizantina, né di un impero più vile e codardo di quello che porta il vituperio della bassezza indelebilmente impressa". Alle tricolori fumate bizantine di questa ultima settimana, nel narghilè politico e in quello giudiziario, si potrebbe premettere a buon diritto questo giudizio che Vincenzo Gioberti aveva scritto su Bisanzio in un momento di lucidità politica. Quale altra classifica si potrebbe dare, infatti, alla decisione italiana di "guidare" gli "aiuti umanitari" al popolo albanese con una missione composta - non da imprenditori, medici e crocerossine, ma da soldati armati di cannoni e missili e relativa scorta aerea, come se si trattasse dello sbarco in Normandia - mentre gli albanesi, in rivolta perché derubati dei propri averi, chiedono solo libere elezioni. (Merit, Il sole 24 ore, 13 aprile 1997, p. 37).

Come si vede lo sprezzante giudizio non è frutto della mente malata del solito estremista miscredente, dello spirito malato di antipatriottismo di chi si oppone per il solo gusto di opporsi. Non sfugge al giornale del padronato italiano che di missione di guerra si tratta, di vera e propria invasione, varata, con scarso senso delle forme, dal Parlamento della Repubblica Italiana (che combinazione!) proprio nell'anniversario dell'entrata in Tirana dell'esercito italiano nel 1939. Perché altrimenti una missione internazionale richiesta dall'ONU e dalla UE sarebbe stata affidata proprio al comando italiano? Perché altrimenti l'impegno italiano sarebbe il più massiccio? Gli interessi economici italiani da tutelare (e della limpidezza di tali interessi può essere da esempio di fantasia il film di Amelio Lamerica) sono al centro e le vicende di questi ultimi giorni, con gli attacchi alle imprese di italiani a Valona (e conseguente pressante richiesta di intervento delle truppe nazionali che a regola dovrebbero, per chi ci crede, solamente assicurare la corretta distribuzione degli aiuti), dimostrano che tale aspetto non è sfuggito alla mafia albanese ed alle sue bande armate. Sia detto non per negare che l'intervento italiano serva anche, se possibile, a tamponare la falle dell'immigrazione clandestina, quanto per contestare la fola umanitarisitica, che pure trova un credito insospettabile anche nell'opinione pubblica più avvertita.

La vicenda dell'Albania si presta a molte altre considerazioni; i fatti divengono verifiche della sostanza delle parole, ne mettono in luce aspetti insospettabili, oscurità non sondate e pericolose. Anche di parole apparentemente indagate oltre ogni ragionevole limite, come democrazia, o soggette per loro natura ad ogni fluttuazione interpretativa, come anarchia (come ben sapeva Proudhon), che pure dovrebbe essere chiara a chi, come noi, se ne fregia come strumento di identità.

Se si votasse oggi in Albania Sali Berisha vincerebbe le elezioni. Il fantoccio degli interessi stranieri (italiani in particolare), già compromesso col tento vituperato regime totalitario di Enver Hoxha , portato alla presidenza da Andreotti e Craxi, eletto con forti sospetti di brogli, oggi vincerebbe libere e democratiche elezioni. Ha forse ben meritato nel frattempo? Non si direbbe se a lui si fa risalire la catena delle finanziarie che hanno derubato e truffato molti albanesi e che sono all'origine dei moti di febbraio. Allora cosa è mai la democrazia elettorale, quella più spinta del suffragio universale, se non la santificazione dei rapporti di potere che si stabiliscono nella sfera economica e che si impongono grazie al monopolio di regime dell'informazione? La cosa è molto più antica di quanto non si possa pensare, molto più antica dei mezzi di comunicazione di massa, sul cui controllo oggi si svolge in tutto il mondo uno scontro senza limiti. Già nell'antica Grecia all'oligarchia delle poche famiglie dominanti, si sostituiva in regime di democrazia la tirannia, che costituiva l'ascesa la potere di chi meglio sapeva gestire, con la propria abilità di retore l'assemblea dei liberi cittadini o di chi detti retori poteva asservire al proprio dominio col denaro: i sofisti a tale bisogna addestravano i retori. Non vi è quindi vera democrazia se non si parte da una reale parità di strumenti economici e culturali e se non si rende prioritariamente impossibile che l'occuparsi per conto di tutti della cosa pubblica possa divenire strumento di potere e di arricchimento, momento di creazione di privilegio.

Diceva Mao che la verità è sulla punta del fucile. Ma a Valona chi sta dietro quella punta? Quella del sud albanese non è una situazione rivoluzionaria; lì non si realizza la democrazia di base di un popolo in armi. Le bande armate sono la voce del più forte, difendono gli interessi economici della mafia albanese che ha nel retroterra le redditizie coltivazione di marijuana e sulla costa il mercato dei clandestini. Ancora una volta se non si infrange la cappa della struttura economica proprietaria non è possibile una reale democrazia, neppure quella autogestionaria. La scomparsa del potere centrale non coincide con una maggiore distribuzione delle risorse sociali, ma con una violenza se possibile maggiore. Lo Stato si dissolve, ma emergono nuclei di potere ancor meno controllabili. A dimostrazione che l'anarchia non è, come si vorrebbe nell'accezione borghese, la dissoluzione della società a favore di un sistema di relazioni in cui ogni individuo tira a difendere i propri interessi anche a scapito degli altri, ma un'organizzazione sociale tessuta sulla solidarietà i cui presupposti essenziali sono la più rigida eguaglianza economica e il maggior senso di responsabilità del singolo verso i bisogni degli altri.

Se lo Stato si dissolve e non si sono preparate strutture collettive di autogestione, emergono altri poteri ancor meno controllabili e, stava per sfuggire alla penna, ancor più efferati. Non è sfuggito perché proprio adesso il Perù ci ha dato la dimostrazione del cinismo del potere statale. Terrorista è chi sequestra alcuni potenti della terra e non torce loro un capello, non chi fa morire di fame il popolo per asservire l'economia di un paese agli interessi di potenze economiche. E se quello è terrorista, si può, col beneplacito della solita opinione pubblica ucciderlo a sangue freddo, anche se sta giocando a calcetto con la sua presunta vittima, che cade anch'essa coinvolta dalla raffica di mitra. Non è con le azione del MRTA e del compagno Cartolini che si possono difendere gli interessi del proletariato, ma ciò non significa che fosse giustificato il massacro, il cui unico scopo è stato quello di rialzare le pencolanti fortune elettorali del golpista Fujimori.


Articolo da Alternativa Libertaria - maggio 1997